Relazione di Peter Zoehrer, direttore esecutivo del Forum for Religious Freedom Europe e coordinatore IMAP EUME.
Presentata al webinar dell'International Media Association for Peace (IMAP), 28 ottobre 2025
Buonasera a tutti gli stimati colleghi, operatori dei media, delegati di organizzazioni non governative di ispirazione religiosa e difensori delle libertà riuniti qui da ogni angolo del globo.
In un'era caratterizzata da un eccesso di dati, le narrazioni che scegliamo di condividere – e quelle che decidiamo di omettere – influenzano non soltanto le conoscenze del pubblico, ma anche le sue convinzioni sulla realtà.
Due libertà, un unico destino.
Il tema che tratterò stasera — Parzialità dei media e libertà democratiche: tutelare le minoranze religiose — va oltre la teoria e la dottrina. Tocca il nucleo della nostra convivenza. Quando una delle nostre due libertà gemelle — quella di credo e quella di espressione — viene meno, l'altra inevitabilmente la segue.
Gli articoli 18 e 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non sono stati concepiti come principi separati, ma sono stati accostati per consentire al pensiero, alla coscienza, alla religione e alla voce di fiorire insieme. Senza la libertà di credere, l'espressione perde significato, e senza la libertà di esprimersi, la fede rimane nascosta. Rappresentano due aspetti dello stesso valore. Quando una scompare, l'altra vacilla.
Ecco perché la parzialità dei media non è solo giornalismo approssimativo, ma è una questione profonda che riguarda i diritti umani. Una stampa che distorce la realtà non solo fornisce informazioni errate, ma influenza la percezione dell'opinione pubblica, legittima la repressione e mina la democrazia dall'interno.
La ricerca conferma questo legame: una minore libertà dei media si associa a un indebolimento delle garanzie democratiche e a un aumento delle violazioni dei diritti. Come afferma l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE): "La libertà di religione o di credo e la libertà di espressione si rafforzano a vicenda e sono indispensabili per la democrazia e lo Stato di diritto".
E, come sottolinea il Washington Post: “La democrazia muore nell'oscurità”. Quando il giornalismo rimane in silenzio, o ancor peggio, si allinea alla massa, la democrazia comincia a sgretolarsi dall'interno.
Quando la stampa fa eco ai potenti
Esaminiamo la situazione in Ruanda: a partire dal 2018, le autorità hanno disposto controlli sugli edifici religiosi. Secondo i dati forniti dal Consiglio di Amministrazione Nazionale entro il 2024, sono stati ispezionati più di 13.000 luoghi di culto, con oltre 8.000 chiusure a causa di presunte violazioni relative alla sicurezza o alla registrazione.
Molti osservatori sostengono che il vero motivo fosse la crescente pressione normativa sulle confessioni religiose minoritarie. In gran parte dei resoconti dei media, il linguaggio appariva spesso neutro – “conformità”, “modernizzazione” e “standard” – ma dietro a queste espressioni si celava una realtà ben più dura: pastori costretti al silenzio, congregazioni disperse, fedeli esclusi all'accesso ai propri luoghi di culto.
La maggior parte dei mezzi di informazione si è limitata a riproporre la versione ufficiale. I servizi giornalistici parlavano di "normative", ma ignoravano i temi della libertà religiosa e della dignità umana. Quando i giornalisti si limitano a ripetere le posizioni governative, la persecuzione si nasconde in bella vista e la democrazia perde la sua voce.
La stampa: custode o facilitatrice?
L'articolo 19 sancisce il diritto di "ricercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione". Una stampa libera dovrebbe essere la custode della democrazia, non la sua cassa di risonanza. Ma quando il giornalismo diventa di parte, sensazionalistico o sottomesso, smette di difendere la libertà e inizia a favorire l'oppressione.
Quando un sistema mediatico abbandona le minoranze religiose, rivela un declino più profondo: la libertà di culto e la libertà di espressione non sono diritti distinti, ma intimamente legati. Come sottolinea una dichiarazione delle Nazioni Unite, esse sono “indivisibili e interdipendenti”.
Questo implica che i media hanno una considerevole responsabilità: non devono soltanto riportare gli eventi, ma anche prestare attenzione al linguaggio, alle definizioni e alle prospettive narrative. Perché il modo in cui gli eventi vengono inquadrati influisce su chi viene incluso nella vita pubblica e su chi viene emarginato.
Le etichette contano: la “parola con la S” e i titoli che uccidono
Le parole, le immagini e i titoli hanno un'influenza significativa sull'opinione pubblica. Queste rappresentazioni possono difendere la dignità umana o legittimare i pregiudizi. Uno dei rischi più evidenti è la tendenza a etichettare superficialmente le minoranze religiose con la “parola con la S”-‘setta’- o il suo sinonimo “culto”.
Questo ci riporta a un periodo oscuro in cui il "termine con la lettera N" veniva impiegato come insulto razzista verso le persone di colore. Essere definiti "membri di una setta" può ferire, emarginare e delegittimare, con conseguenze altrettanto gravi. Nonostante ciò, i giornalisti persistono nell'utilizzarlo indiscriminatamente, arrivando a ripeterlo anche decine di volte in un singolo articolo.
In Austria, ad esempio, l'emittente nazionale ha utilizzato recentemente la parola “setta” 13 volte in soli due minuti di trasmissione. Dietro questa ossessione non ci sono solo le reti organizzate anti-culti, ma anche la semplice pigrizia giornalistica, come il ricorso a voci di Wikipedia, dossier vecchi di decenni o comunicati stampa mascherati da fatti. Con il tempo queste scorciatoie si cristallizzano in pregiudizi “di buon senso”.
In Francia, l'agenzia governativa MIVILUDES pubblica elenchi di presunte "sette" che numerosi giornalisti riportano acriticamente, trasformando praticanti di yoga, pentecostali, buddisti e nuovi movimenti cristiani in soggetti pubblici sospetti. Questo quadro sistemico - lo stigma insito nelle liste nere, amplificato dai media - getta le fondamenta per conseguenze più serie.
Esaminando il contesto russo, si osserva che i media indipendenti hanno subito una forte repressione e che diversi giornalisti sono stati uccisi da esecutori legati allo Stato. Anni di campagne denigratorie condotte dai media controllati dal governo hanno gettato le basi per la messa al bando dei Testimoni di Geova nel 2017, etichettati come "estremisti". Più di 200.000 fedeli sono stati costretti alla clandestinità o all'esilio. Un'unica definizione, "setta estremista", ha trasformato una pratica religiosa pacifica in un reato penale.
Una volta che un'etichetta viene normalizzata, la repressione è dietro l'angolo. I titoli dei giornali possono rovinare la reputazione di una persona o come dice un cupo detto mediatico “se sanguina, fa notizia”. Gli studi rivelano che circa il 60-70% dei lettori non va mai oltre il titolo e per la maggior parte di loro, il titolo rappresenta la notizia stessa. Quando il giornalismo sostituisce la verità con lo scandalo, non solo diffonde disinformazione, ma erode la fiducia e indebolisce la democrazia.
Caso di studio: la BBC e la Federazione delle Famiglie per la Pace Mondiale e l'Unificazione
Un chiaro esempio di distorsione mediatica: nell'ottobre 2023, la BBC ha diffuso il titolo: “Il Giappone chiede al tribunale di sciogliere la Chiesa dei 'Moonies' per l'omicidio di Shinzo Abe”. Due aspetti risultano immediatamente evidenti: in primo luogo, l'impiego del termine “Moonies”, che costituisce un'espressione offensiva nei confronti della comunità religiosa. In secondo luogo, il titolo collega la chiesa a un omicidio.
L'assassino dell'ex premier Shinzo Abe era una persona isolata, che ha agito per ragioni personali, senza alcuna connessione organizzativa con la chiesa. Tuttavia, il titolo ha di fatto rappresentato la comunità come responsabile.
Poiché la notizia proveniva da una delle fonti mediatiche più autorevoli a livello internazionale, le conseguenze negative si sono estese a livello mondiale. Quello che era iniziato come un evento tragico si è trasformato in una campagna di stampa protrattasi per un triennio. Non si tratta di giornalismo d’inchiesta, ma di una diffamazione orchestrata attraverso i titoli dei media.
Modelli globali: pregiudizi dei media → repressione → perdita di libertà
Questo schema si ripete costantemente da una regione all'altra: i pregiudizi dei mezzi d’informazione generano stigma, che a sua volta spinge lo Stato a intervenire, causando repressione e, infine, la perdita delle libertà individuali.
• Giappone: in seguito all'omicidio di Abe, migliaia di articoli hanno preso di mira la comunità religiosa. Funzionari governativi, avvocati anti-sette e i media mainstream hanno creato un muro di ostilità e le voci dei fedeli sono state sistematicamente escluse.
• Corea del Sud: anche le grandi chiese tradizionali sono state oggetto di campagne diffamatorie. Ancora più allarmante è il caso della dott.ssa Hak Ja Han Moon, 82 anni, fondatrice di iniziative interreligiose, che è stata posta in custodia preventiva poche settimane dopo un intervento cardiaco. Gran parte della stampa ha riproposto stereotipi anziché mettere in discussione la misura adottata.
• Nigeria e Africa subsahariana: dal 2019 al 2023, quasi 56.000 persone hanno perso la vita e 21.000 sono state rapite a causa di atti di violenza di matrice religiosa, soprattutto cristiani. Tuttavia, i media occidentali hanno costantemente ridotto queste atrocità a semplici "scontri etnici" o "conflitti tra agricoltori e pastori". Questo silenzio, questo rifiuto di definire il genocidio per quello che è, non rappresenta neutralità, ma complicità.
• Cina: il Partito Comunista ha perfezionato l'arte della propaganda di Stato. I musulmani uiguri, i buddisti tibetani, i seguaci del Falun Gong e le chiese domestiche cristiane non registrate sono etichettati come "sette" o "terroristi". Una volta bollati, vengono privati dei loro diritti, detenuti o costretti a sottoporsi a "rieducazione". I media statali trasformano la persecuzione in politica ufficiale e la propaganda in verità assoluta.
• Ungheria: nel 2011 il governo Orbán ha revocato il riconoscimento legale a oltre 300 chiese e la maggior parte dei media ha descritto questa misura come una “riforma”. Quando lo stesso governo ha successivamente preso di mira il giornalismo indipendente, i giornalisti hanno compreso troppo tardi che l'offensiva contro la religione aveva preparato il terreno per l'attacco alla stampa.
• India: nel 2024 le organizzazioni cristiane hanno documentato oltre 800 casi di aggressioni e arresti illegali. A Manipur, la violenza settaria ha provocato lo sfollamento di 60.000 persone e la distruzione di quasi 400 chiese. La maggior parte dei media indiani ha definito la situazione una “questione di ordine pubblico”, evitando di parlare di persecuzione religiosa.
Cosa dobbiamo fare? Una responsabilità condivisa
I giornalisti devono accertare i fatti prima della pubblicazione, astenersi dall'uso di etichette discriminatorie e consentire alle minoranze di esprimersi in prima persona.
• Le redazioni devono considerare i titoli come impegni presi con i lettori e non come strumenti per ottenere un impatto sensazionalistico.
• Le autorità di controllo e le emittenti pubbliche hanno il compito vigilare sui pregiudizi strutturali e garantire che i media finanziati con risorse pubbliche rispondano alle esigenze di tutta la collettività.
• Le organizzazioni religiose e la società civile devono svolgere un ruolo attivo nell'osservare le narrazioni mediatiche, rispondere con obiettività e diffondere esperienze costruttive di riconciliazione, solidarietà umanitaria e dialogo interreligioso.
Se i circuiti ostili sommergono le redazioni di contenuti distorti, i sostenitori di un'informazione libera possono contrapporre un'ondata di verità e speranza.
Considerazioni finali
Non intendiamo zittire le voci critiche. Il controllo, condotto con onestà e imparzialità, è essenziale per la democrazia. Tuttavia, una sorveglianza che si spinge oltre i limiti dell’equità si trasforma in diffamazione. Quando i pregiudizi dei media prendono di mira le minoranze religiose, non solo arrecano un danno a quelle comunità, ma compromettono anche il nucleo morale della democrazia stessa. Una stampa libera dovrebbe proteggere i più vulnerabili, non esporli a rischi e dovrebbe contestare il potere, non assecondarlo.
Come disse Mahatma Gandhi: “La vera misura di qualsiasi società si trova nel modo in cui tratta i suoi membri più vulnerabili”. Quando i media tacciono di fronte alle ingiustizie, il loro silenzio si trasforma in complicità. Desidero esprimere il mio apprezzamento alla Federazione per la Pace Universale USA e a IMAP per aver promosso questo importante confronto e per avergli dato una dimensione internazionale.
Vi ringrazio per la cortese attenzione.

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