Mag. Inge Tolson
Introduzione
Sto lavorando da diversi anni nel campo dell'educazione e della terapia per le famiglie e sto facendo interventi ed organizzando seminari su genitorialità, vita di coppia e vita in famiglia. Negli gli ultimi 4 anni ho lavorato come consulente per i giovani e in questo impegno ho sperimentato i risultati delle famiglie disfunzionali, in cui i giovani cercano la realizzazione dei loro desideri interiori al di fuori della loro famiglia e a causa della situazione emotiva difficile, agiscono con aggressività, vengono facilmente coinvolti in attività sessuali, cercano di evadere prendendo droghe o alcool, etc. Il percorso ci è fin troppo famigliare. La mia preoccupazione principale è la famiglia e ed il mio desiderio e la mia meta sono quelli di sostenere e affiancare coppie e genitori affinché possono stabilire rapporti profondi e stabili e famiglie felici. Come la vedo io, la famiglia è il posto migliore per apprendere ed acquisire la capacità di creare e mantenere la pace e rapporti di cuore.
Sono sposata da oltre 18 anni e sono veramente grata per il rapporto completo che vivo con mio marito Mark. Il nostro rapporto ha aggiunto incredibile guarigione, calore, comprensione, ricchezza e crescita alle nostre vite. Siamo dei genitori orgogliosi di tre meravigliosi ragazzi, che ci aiutano a sviluppare il potenziale del nostro cuore e diventare persone autentiche e capaci di amare, quali siamo destinati ad essere.
Tutti desideriamo la pace, ma una pace che è molto di più che soltanto l'assenza di conflitti, lotte o discussioni. La vera pace è caratterizzata da un'atmosfera di buona volontà, accettazione, apprezzamento, affetto, incorag-giamento, compassione, generosità, comprensione, rispetto, dignità, empatia, onestà. In questo stato pos-siamo rilassarci, sentirci liberi di essere la persona che siamo veramente e possiamo fare errori, imparare, crescere e realizzare il nostro potenziale.
Perché allora è cosi difficile creare pace nella nostra vita quotidiana? Per questo tipo di pace abbiamo bisogno di agire, vedere, pensare e sentire con il nostro cuore. Il cuore non è stato il principio che ha guidato le ere passate, altrimenti la storia non sarebbe così piena di spargimento di sangue, emozioni , concetti ed azioni distruttive.
Nella mia comprensione, si è aperta una nuova era di guarigione e di cuore, questo significa che il vero amore, la vera genitorialità e la pace possono essere realizzati. Ma, nonostante questa transizione in atto, dobbiamo liberarci dei vecchi modelli e concetti che non sono in accordo con il nostro cuore e dobbiamo costruire nuovi modelli di pensare, sentire e di volontà guidati dal cuore. Questo richiede tempo e sforzo continuo. Magari leggiamo testi sulla crescita e lo sviluppo spirituale del cuore e pensiamo "Sì, voglio seguire il mio cuore" ma poi nella frenesia delle nostre vite quotidiane con tutte le sue richieste scivoliamo facilmente indietro nei vecchi modelli di comportamento.
Quando ho cominciato a lavorare con gruppi di genitori insieme a Siegfried Klammsteiner, abbiamo detto ai genitori che devono essere disponibili a lavorare sul rapporto con il loro partner, i loro figli e sull'educazione almeno per due anni. Ci vuole tempo per acquisire una nuova comprensione ma ci vuole ancora più tempo per creare nuovi modelli. Con un gruppo stiamo per iniziare il quarto anno e loro non vedono l'ora di continuare. Vedono i cambiamenti positivi che hanno avuto luogo nelle loro famiglie ma sono consapevoli del fatto che hanno bisogno di più tempo e sostegno per acquisire le capacità ed i modelli necessari a creare e mantenere rapporti profondi e diventare i genitori che desiderano essere.
Cos'è il cuore. Quando qualcuno ci dice di vivere seguendo il nostro cuore siamo completamente d'accordo, noi sentiamo profondamente che è vero e che è questo che vogliamo, ma per essere in grado di realizzarlo abbiamo bisogno di una comprensione più profonda del cuore e del funzionamento di tutti nostri aspetti interiori.
Il cuore è il centro degli aspetti essenziali interni dell'essere umano: emozione, intelletto e volontà.
Il cuore è l'aspetto originale, autentico e più essenziale della personalità umana. Il cuore è il centro del nostro essere e la fonte dell'amore. Attraverso il nostro cuore siamo collegati con Dio, nostro Creatore ed il regno dell'amore di Dio. Noi portiamo nel nostro cuore l'essenza e la natura divina, il piano e l'ordine divini.
Gli aspetti del nostro Cuore: 1. bisogni e atteggiamenti, 2. desideri e sogni, 3. valori e principi, 4. visione e motivazione, con al centro l’amore.
I bisogni sono l'aspetto centrale del cuore. Noi abbiamo bisogno di rapporti per ricevere e dare amore , includendo tutti gli aspetti dell'amore: essere accettati incondizionatamente, fiducia, affetto, empatia, rispetto, apprezzamento, comprensione, realizzare il nostro potenziale e trovare il nostro ruolo nella vita, etc. Questi bisogni sono come la forza motivante dietro le nostre azioni e la nostra ricerca di coltivare rapporti profondi, trovare il significato della vita e dare un contributo sostanziale al mondo. Fino a che i nostri veri bisogni interiori non sono realizzati ci sentiamo vuoti e insoddisfatti. I figli dipendono molto dai loro genitori affinché i loro bisogni a ogni livello del loro sviluppo vengano soddisfatti e così diventino capaci, da adulti, di accedere al loro cuore e di fare buon uso della loro libertà e responsabilità, come il seme di un girasole che ha il potenziale di diventare un bellissimo girasole che produce semi nuovi quando riceve tutto quello di cui ha bisogno dal suo ambiente.
Con un atteggiamento di cuore ci occupiamo degli altri, prendiamo i loro ed i nostri bisogni sul serio e sia-mo capaci di avere empatia e comprensione. L'atteggiamento di cuore ci aiuta a vedere il potenziale e le qualità dell'altra persona e di me stessa, e sostenerci l’uno l'altro, impegnandoci a diventare la persona che siamo destinati a essere. L'atteggiamento di cuore viene espresso in modo bellissimo attraverso il vero amore dei genitori, quando i genitori mettono i bisogni dei figli al primo posto davanti ai propri bisogni e danno incondizionatamente. Nel nostro cuore ci sono desideri e sogni. Desideriamo vivere in una famiglia e in un rapporto di coppia piena d'amore, sogniamo un mondo dove le persone vivono insieme come fratelli e sorelle, desideriamo essere un buon marito o moglie, padre o madre pieni di amore e cura, sogniamo grandi realizzazioni personali, etc. I nostri sogni attivano le nostre risorse e il nostro considerevole potenziale di creatività e intelletto.
Nel nostro cuore ci sono valori universali ed il principio di creazione che devono essere applicati perché i bisogni possano essere realizzati. In tutto il mondo vengono apprezzati valori come la vera amicizia, una buona famiglia, il servizio, la compassione, la fedeltà, l'onestà, etc. I bisogni, i desideri e i valori più profondi per la nostra vita, per un rapporto pieno d'amore verso il nostro partner e i nostri figli, per una vita di servizio, per un mondo dove i bisogni essenziali interiori ed esteriori dell'essere umano vengono realizzati. Creano le visioni per la nostra vita. Queste visioni creano la motivazione e l'energia per la loro realizzazione.
Una delle principale confusioni del mondo di oggi è causata dal fatto che le persone non fanno differenza tra cuore ed emozioni. Quando le persone parlano secolarmente di amore, parlano spesso di emozioni. Ma il vero amore è molto di più dell'emozione. Le emozioni cambiano, non sono stabili, non si può basare un rapporto sulle emozioni soltanto. In un rapporto di coppia, la moglie può avere emozioni molto positive verso il marito e pensare che lo ama molto. Ma poi le emozioni cambiano e magari a causa di aspettative non realizzate, possono svilupparsi sentimenti di sfiducia. Come conseguenza, lei trova difficile amarlo incondizionatamente e può cominciare a pensare che non lo ama più. Tante volte le persone dicono di fare quello che uno sente. Questo è pericoloso, se le emozioni sono il centro e non sono guidate dal cuore. Questi tre aspetti, emozione, intelletto e volontà sono come dei figli. Loro hanno bisogno di un centro. Quando vengono guidati e uniti dal cuore sono strumenti meravigliosi che ci aiutano a vivere la nostra vita al massimo.
Per sviluppare il potenziale e il programma immagazzinato nel nostro cuore dobbiamo essere in grado di accedere al nostro cuore. Ma questo accesso può essere bloccato dal nostro intelletto, dai nostri preconcetti e convinzioni, dalle nostre emozioni e dalla nostra volontà. Rispetto a ciò, le emozioni sono la cosa più fondamentale. Per questo motivo analizzerò di più quest’ultime. Se le emozioni prendono il controllo e diventano soggetto non siamo capaci di pensare chiaramente e il cuore viene bloccato. Agiamo guidati dalle nostre emozioni e in queste situazioni l'intelletto fa il servo delle emozioni e provvede, in seguito, a fornire giustificazioni alle azioni.
Prima di avere figli non potevo immaginare di perdere la pazienza. Ma quando i nostri figli non obbedivano potevo diventare così furiosa da rimanere sconvolta di me stessa! I figli si spaventavano con questo tipo di eruzioni emotive che risultavano dalle grida. Agivo guidata dalle mie emozioni, in quel momento non ero capace di capire come sentivano i miei figli e di che cosa avevano bisogno. Soltanto dopo che ho imparato a trattare le mie emozioni in maniera costruttiva e a cambiare, andando al livello del cuore, ho potuto smettere di gridare, essere capace di mantenere un atteggiamento di amore anche in situazioni difficili e diventare la madre che desideravo essere.
Qual è un buon metodo di trattare con le emozioni? Le emozioni non vogliono essere giudicate, condannate, represse, rifiutate o ignorate. Vogliono essere percepite, accettate, permesse, nominate, espresse con parole e comprese. Spesso ho sperimentato questo quando ho dato consigli a persone disoccupate: quello che desideravano di più era l'occasione di esprimere le loro frustrazioni e preoccupazioni e sentire che erano accettati e compresi. Dopo erano grati ed erano più capaci di pensare in modo positivo e creativo. Magari tutte le madri hanno sperimentato una volta una situazione simile alla mia, quando circa due anni fa la mia seconda figlia tornava da scuola e gridava: "Odio quell'insegnante!" In quella situazione avrei potuto spiegare che lei non doveva odiare etc. e darle una spiegazione sull'amore e il rispetto. Invece le ho dato la mia completa attenzione e ho detto: "Vedo che sei veramente arrabbiata. Cos'è successo?" Dopodichè lei è esplosa e ha condiviso che si sentiva trattata ingiustamente e questo l'aveva ferita profondamente. Ma, poi, ha continuato e ha condiviso quella che era la vera causa del suo essere profondamente arrabbiata: la sua amica l'aveva delusa! Soltanto prendendo tempo e essendo in empatia con lei ho potuto scoprire cosa la preoccupava di più. Lei si sentiva capita e ci sentivamo molto vicine una all'altra. Dopo essersi calmata, lei ha cominciato a pensare cosa poteva fare in quella situazione. Le emozioni non spariscono semplicemente ignorandole o sopprimendole. Non sono un male in sé stesse ma possono portare ad azioni malvagie. Le emozioni non sono il problema, ma il problema si crea quando vengono espresse in maniera distruttiva come ignorare, sarcasmo, denigrare, creare muri, violenza con parole e con azioni, stuzzicare etc. Ricordo molto bene le parole di una signora anziana di 77 anni: "Tutti pensano che sono molto pacifica, non ho nemici, vado d'accordo con tutti, ho imparato a non insistere sulle cose … ma poi mi sorprendo quando mi arrabbio spesso per cose minime - così non mi considero pacifica!"
Le emozioni possono aprire o bloccare la via per il cuore. Sono in una posizione cruciale. Se sentiamo positivamente verso qualcuno è facile investire in quella persona. Se abbiamo emozioni negative come rabbia, frustrazione etc. faremo fatica a continuare ad amare quella persona incondizionatamente. Fino a che non abbiamo un'idea e una strategia chiara su come trattare le forti emozioni negative, loro limiteranno molto l'accesso al nostro cuore. Spesso il nostro problema è che non abbiamo imparato a essere consapevoli e trattare le nostre emozioni in maniera adeguata. Se elaboriamo le nostre emozioni, anche le più insignificanti, in maniera giusta, essendo consapevoli di loro, identificandole e verbalizzandole, esprimendo come ci sentiamo (usando frasi con "io") in un rapporto di comprensione possiamo far "scoppiare il palloncino". Se trattiamo noi stessi e le nostre emozioni in maniera amorevole e rispettosa, esse possono diventare nostre amiche e farci capire quali aspetti hanno bisogno di guarigione. La maggior parte delle persone porta con sé dolorose emozioni represse come solitudine, ferite, trascuratezza, colpa, paura, rabbia e lacrime non versate che hanno origine nelle esperienze durante l'infanzia e la loro vita, o sono state assorbite o ereditate. Fino a che non cominciamo a elaborarlo, questo "zaino emotivo" avrà un effetto negativo sulle nostre vite. Se nei nostri rapporti di coppia sviluppiamo una cultura di condivisione e comprensione onesta, allora anche le emozioni più difficili possono essere guarite. Per questo motivo un rapporto basato sul vero amore ha questo tipo di forza di guarigione e può essere così liberatorio. In questa maniera possiamo trattare noi stessi con un atteggiamento di cuore, prendere responsabilità per le nostre emozioni, vedere che la causa è dentro di noi e che sono state soltanto scatenate dal nostro partner. E così importante realizzare un' "igiene emotiva" nella nostra vita quotidiana, in modo che emozioni difficili non abbiano la possibilità di svilupparsi, per poi essere liberate in maniera dannosa, rovinando i nostri rapporti, ferendo le persone care intorno a noi o noi stessi attraverso malattie o dipendenze.
Noi tutti - uomini e donne ugualmente - vogliamo condividere quello che sentiamo, la gioia e le difficoltà. E facile condividere i nostri sentimenti e le nostre esperienze positive. E molto più difficile condividere le nostre battaglie interiori e le nostre emozioni negative e per farlo abbiamo bisogno di un atmosfera di amore, compassione e comprensione e la sicurezza che il nostro partner non ci giudicherà ma ci ascolterà con empatia.
Noi donne abbiamo un vantaggio storico nel campo delle emozioni perché fino adesso le donne e le ragazze generalmente potevano esprimere apertamente le emozioni e di conseguenza facevano meno fatica a parlare dei loro sentimenti. Penso che per questo motivo è importante che promuoviamo attivamente un clima di condivisione.
All'inizio del nostro matrimonio, mio marito erigeva semplicemente un muro attorno a sé quando attraversava un momento difficile. Lui aveva difficoltà di parlare delle sue emozioni perché era duro per lui articolarle e qualche volta non capiva consciamente cosa succedesse dentro di lui. Dopo anni di sforzi da parte di entrambi, lui è molto più in contatto con i suoi sentimenti ed è capace di condividerli spontaneamente. Per nostro figlio era più difficile che per le sorelle, dopo essere tornato da scuola, condividere il fatto di aver dovuto affrontare una situazione difficile, di sentirsi ferito, imbarazzato etc. Ho dovuto investire più tempo, attenzione ed energia affinché lui imparasse a condividere le cose appena possibile e non andare in giro a lungo tenendosi dentro quello che lo disturbava. Non sarebbe servito chiedendo a lui "Come stai? Com'è andata a scuola?" Invece ho dovuto indovinare dal suo linguaggio del corpo e con la mia intuizione cosa sentiva: "Posso vedere che sei triste: sembra che hai avuto una mattinata difficile, etc." Poi rispondeva immediatamente "No, non è quello" o "Sì, .." e poi di solito cominciava a condividere quello che gli era successo. Adesso è normale per lui tornare a casa e raccontare tutte le cose emozionanti ma anche i problemi che ha dovuto affrontare, così dopo è libero di concentrarsi sui compiti o le altre cose. I ragazzi condividono normalmente liberamente quando sentono che siamo liberi di ascoltare e quando c'è un'atmosfera di pace. Siamo molto abituati a usare il nostro intelletto, giudicare, dare consigli, analizzare etc. Ma in una situazione emotiva è essenziale ascoltare prima con empatia. Un bambino, se è arrabbiato e vuole condividere, ma riceve solo un consiglio o la madre addirittura vuole dirgli come deve sentirsi, si chiuderà in se stesso e non sarà in grado di ascoltare quello che i genitori cercano di dirgli. Alla fine smetterà di condividere e cercherà di elaborare da solo queste emozioni. Prima devono calmare le loro emozioni e poi possono ascoltare e accettare.
L'empatia crea una forte vicinanza nei rapporti. Le situazioni emotive difficili sono i momenti nei quali i nostri figli hanno veramente bisogno di noi. Durante il periodo di crescita i nostri figli sperimentano emozioni forti come la gelosia, che porta alla rivalità tra fratelli, etc. Spesso quando sono ancora piccoli possono picchiare il fratello o la sorella perché non hanno ancora imparato a esprimere le loro emozioni in maniera appropriata. Qui tocca a noi genitori aiutarli. Così i figli imparano che non è un problema se abbiamo emozioni o lotte difficili. Il problema esiste quando non siamo capaci di gestire situazioni difficili in una maniera pacifica, basata su una buona comunicazione.
Così, ci sono innumerevoli situazioni nelle quali i figli hanno la possibilità di imparare a risolvere i conflitti in maniera pacifica che poi saranno in grado di applicare nella loro vita futura e al di fuori della famiglia. Allora possono capire che quando due persone diverse s'incontrano è normale affrontare situazioni difficili e che questo non significa che non si amano ma che le emozioni difficili sono un'opportunità di crescita, di appro-fondire la comprensione e di sviluppare intimità e unità.
La vera conoscenza sociale è una conoscenza di cuore e comincia con la capacità di creare buoni rapporti e un'atmosfera pacifica realizzando modelli di pensieri, sentimenti e azioni con il cuore al centro. Il migliore posto di allenamento è la famiglia. Su questa base possiamo andare fuori nella società e portare compassione, riconciliazione e guarigione.
Mag. Inge Tolson
Pedagogista e consulente di famiglia
Istituto per la conoscenza sociale
Lienz (Austria)
Relazione presentata durante un convegno mondiale della WFWPI (Federazione delle Donne per la Pace nel Mondo Internazionale) in Austria che aveva come tema: Donne come costruttrici di ponti: applicando una cultura di cuore e di pace
1 giugno 2008
Una grave omissione a danno di tutti i disabili
Del Dott. Franco Previte
http://digilander.libero.it/CristianiperServire
Il 6 dicembre 2006 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (nella Sixty-first Session Distr. General A/61/611) ha adottato la “Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità”, un Documento di valenza internazionale sottoscritto da 191 Paesi aderenti all’ONU ed anche per l’Italia dall’Ex Ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero e dal Sottosegretario dello stesso Dicastero. La “Convenzione” è stata elaborata con la ferma intenzione di sostituire le politiche caritatevoli e di welfare dei vari Paesi obbligati ad abolire leggi che costituiscono forme di discriminazione nei confronti dei “diversamente abili”.
Infatti la “Convenzione” non tutela formalmente e concretamente il diritto di “ malato”, perché la “Cart” segna un distacco da un approccio medico-assistenziale ad un approccio legato ai soli diritti umani.
Quindi un impegno condiviso e costante nella difesa della dignità e dei diritti, anche quello del diritto alla vita, che si esplica attraverso una assistenza concreta nella promozione individuale e sociale delle persone portatrici di ogni genere di disabilità.
Purtroppo nella “Convenzione” non sono emerse “norme specifiche” verso i malati psichici, che come “tali”, non possono partecipare alle attività sociali e culturali, continuando a trovare ostacoli, anche in Italia nella legislazione ( legge 180 e 833 del 1978) che impedisce, in maniera pratica e prioritaria al vivere sociale soffrendo di continue violazioni dei loro diritti che si trascinano da ben 30 anni, e quello che non è condivisibile è il volere associare il malato fisico con il malato mentale. Infatti per il primo sussistono possibilità di inserimento sociale e lavorativo, nel secondo si possono attuare cure specifiche, ma non si possono prevedere né tempi di recupero, né proposizioni di intendimenti lavorativi che richiedono coesione di intelletto e responsabilità.
Oltre 450 milioni di persone nel mondo, soffrono di affezioni mentali, neurologiche od a causa di problemi comportamentali, ed il 64% degli Stati membri dell’ONU non ha mai emanato alcuna legge in “materia” o possiede una normativa che può essere considerata superata.
Un aspetto, non ultimo, non affrontato dalla “Convenzione”, riguarda il “progetto di vita” che emerge con vera drammaticità, quando viene il momento del “dopo di noi” sfiorato dall’art. 12 punto 5, cioè l’assenza della sicurezza economica di quanti devono proseguire il vivere quotidiano, dopo la morte dei genitori o parenti del “malato”, e del “durante”, che in Italia con euro 246,73 al mese consente solo di sopravvivere.
Il nostro Paese doveva procedere alla ratifica della “Convenzione”entro il 2007, perché secondo notizie dei mass media, l’allora Ministro Ferrero si era “impegnato a ridurre i tempi ed a promuovere le indispensabili misure legislative per la concreta approvazione dell’Accordo”.
Ma il provvedimento legislativo di ratifica da sottoporre all’approvazione del Parlamento entro il 2007 d’iniziativa del Governo Prodi, non vi è stato, per costituire principi, obiettivi e regole in sintonia con la “Convenzione”.
Ratificare quel Testo Giuridico Internazionale costituisce il passaggio obbligatorio per giungere alla effettiva entrata in vigore dei 50 articoli che definiscono traguardi e politiche anche di natura nazionali, indispensabili per regole chiare sulla non discriminazione e la promozione delle pari opportunità, elementi necessari per adottare dei veri e propri doveri pratici, impegnando all’art. 4 gli Stati, come l’Italia, “ad adottare appropriate misure legislative”, che per i malati psichici mancano da ben 30 anni!
Il 23 marzo 2007 con lettera da noi inviata al Segretario Generale della Nazioni Unite dr. Ban Ki-Moon avevamo richiesto l’indizione di una “Giornata Mondiale sulla Salute Mentale” e per inserire un emendamento alla “Convenzione” per il riconoscimento giuridico della malattia mentale.
Ci fu risposto ( Vittoria Beria-Secretariat for the Convention of Righys of Persons with Disabilities Division for Social Policy and Development DESA United Nations Secretariat 2 UN Plaza, Room DC2-1374 New York, NY 10017 USA 5 aprile 2007), che questi emendamenti devono essere presentati da uno Stato membro delle Nazioni Unite, Italia compresa, come pure quella per l’istituzione di “Giornata Mondiale sulla salute mentale”.
Si chiede al Governo Berlusconi di voler considerare prioritario nei 100 giorni di Governo:
1.) la ratifica della “Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità”, (Distr. General A/61/611);
2.) emendamento dove viene riconosciuto il termine giuridico-sociale di handicappato mentale ( come recita la legge italiana art.104/1992), perché l’Italia, quale membro delle Nazioni Unite può proporlo in base all’art.47 della “Convenzione”
3.) richiesta indizione di una “Giornata Mondiale sulla salute mentale”.
http://digilander.libero.it/CristianiperServire
Il 6 dicembre 2006 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (nella Sixty-first Session Distr. General A/61/611) ha adottato la “Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità”, un Documento di valenza internazionale sottoscritto da 191 Paesi aderenti all’ONU ed anche per l’Italia dall’Ex Ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero e dal Sottosegretario dello stesso Dicastero. La “Convenzione” è stata elaborata con la ferma intenzione di sostituire le politiche caritatevoli e di welfare dei vari Paesi obbligati ad abolire leggi che costituiscono forme di discriminazione nei confronti dei “diversamente abili”.
Infatti la “Convenzione” non tutela formalmente e concretamente il diritto di “ malato”, perché la “Cart” segna un distacco da un approccio medico-assistenziale ad un approccio legato ai soli diritti umani.
Quindi un impegno condiviso e costante nella difesa della dignità e dei diritti, anche quello del diritto alla vita, che si esplica attraverso una assistenza concreta nella promozione individuale e sociale delle persone portatrici di ogni genere di disabilità.
Purtroppo nella “Convenzione” non sono emerse “norme specifiche” verso i malati psichici, che come “tali”, non possono partecipare alle attività sociali e culturali, continuando a trovare ostacoli, anche in Italia nella legislazione ( legge 180 e 833 del 1978) che impedisce, in maniera pratica e prioritaria al vivere sociale soffrendo di continue violazioni dei loro diritti che si trascinano da ben 30 anni, e quello che non è condivisibile è il volere associare il malato fisico con il malato mentale. Infatti per il primo sussistono possibilità di inserimento sociale e lavorativo, nel secondo si possono attuare cure specifiche, ma non si possono prevedere né tempi di recupero, né proposizioni di intendimenti lavorativi che richiedono coesione di intelletto e responsabilità.
Oltre 450 milioni di persone nel mondo, soffrono di affezioni mentali, neurologiche od a causa di problemi comportamentali, ed il 64% degli Stati membri dell’ONU non ha mai emanato alcuna legge in “materia” o possiede una normativa che può essere considerata superata.
Un aspetto, non ultimo, non affrontato dalla “Convenzione”, riguarda il “progetto di vita” che emerge con vera drammaticità, quando viene il momento del “dopo di noi” sfiorato dall’art. 12 punto 5, cioè l’assenza della sicurezza economica di quanti devono proseguire il vivere quotidiano, dopo la morte dei genitori o parenti del “malato”, e del “durante”, che in Italia con euro 246,73 al mese consente solo di sopravvivere.
Il nostro Paese doveva procedere alla ratifica della “Convenzione”entro il 2007, perché secondo notizie dei mass media, l’allora Ministro Ferrero si era “impegnato a ridurre i tempi ed a promuovere le indispensabili misure legislative per la concreta approvazione dell’Accordo”.
Ma il provvedimento legislativo di ratifica da sottoporre all’approvazione del Parlamento entro il 2007 d’iniziativa del Governo Prodi, non vi è stato, per costituire principi, obiettivi e regole in sintonia con la “Convenzione”.
Ratificare quel Testo Giuridico Internazionale costituisce il passaggio obbligatorio per giungere alla effettiva entrata in vigore dei 50 articoli che definiscono traguardi e politiche anche di natura nazionali, indispensabili per regole chiare sulla non discriminazione e la promozione delle pari opportunità, elementi necessari per adottare dei veri e propri doveri pratici, impegnando all’art. 4 gli Stati, come l’Italia, “ad adottare appropriate misure legislative”, che per i malati psichici mancano da ben 30 anni!
Il 23 marzo 2007 con lettera da noi inviata al Segretario Generale della Nazioni Unite dr. Ban Ki-Moon avevamo richiesto l’indizione di una “Giornata Mondiale sulla Salute Mentale” e per inserire un emendamento alla “Convenzione” per il riconoscimento giuridico della malattia mentale.
Ci fu risposto ( Vittoria Beria-Secretariat for the Convention of Righys of Persons with Disabilities Division for Social Policy and Development DESA United Nations Secretariat 2 UN Plaza, Room DC2-1374 New York, NY 10017 USA 5 aprile 2007), che questi emendamenti devono essere presentati da uno Stato membro delle Nazioni Unite, Italia compresa, come pure quella per l’istituzione di “Giornata Mondiale sulla salute mentale”.
Si chiede al Governo Berlusconi di voler considerare prioritario nei 100 giorni di Governo:
1.) la ratifica della “Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità”, (Distr. General A/61/611);
2.) emendamento dove viene riconosciuto il termine giuridico-sociale di handicappato mentale ( come recita la legge italiana art.104/1992), perché l’Italia, quale membro delle Nazioni Unite può proporlo in base all’art.47 della “Convenzione”
3.) richiesta indizione di una “Giornata Mondiale sulla salute mentale”.
PARLANDO DI POESIA
di Renato Piccioni
Come poter definire esaustivamente il concetto letterario di “Poesia”?
È forse il pensiero filosofico che ha dato all’uomo il concetto dell’espressione poetica dal suo pensiero stesso ?
Perché concettualmente, è la Poesia l’espressione letteraria che, servendosi della “parola”, sia nel suo etimo che nella costruzione sintetica del pensiero, induce con la sonorità della parola stessa ad essere canto espressivo dell’animo e del suo stesso esistere, quale spiritualità nella materialità dell’uomo.
Come nella musica, anche nella poesia, la misura metronomica fa evolvere il pensiero in canto e quindi asserve la musicalità della parola alle vibrazioni del suono, come misura matematica.
I versi di una poesia si qualificavano numericamente in sillabe fino alla rivoluzione dei novecentisti che riportarono la poesia all’espressionismo ellenico tornando a valorizzare il verso libero ancorché musicalmente supportato dal suono sillabico della misura di una cesura rispettosa della musicalità del canto dei fonemi.
I concetti espressi in poesia sono di per se l’intimo sofisma che l’animo o se volete il pensiero spirituale di ognuno può cantare.
Le tematiche possono essere le più varie, ma sempre dalla spiritualità prende la sua genesi in quanto è il “pensiero” in collegamento con il “cuore” che recepisce l’ispirazione a creare i ritmi del canto poetico.
La poesia può diventare proiezione di una rivelazione del pensiero proprio del poeta o recepito, da questi, da elaborazioni altrui, ma introitato e, quindi, reso fruibile in quanto comprensibile, ma difficilmente esaustivamente spiegabile se non in lunghi ed estenuanti trattati.
Un esempio eclatante è un verso del Poeta Giuseppe Ungaretti che, in tre parole, ha espresso una vastità enorme del pensiero umano quando scrisse :-
M’illumino d’immenso
Tutti conoscono il verso, tutti ne hanno parlato, tutti hanno cercato di darne un resoconto che fosse completo, tutti continuano a discettarne esprimendo anche relazioni in contrapposizione le une con le altre, ma nessuno c’è riuscito appieno a farlo, perché nel suo ermetismo, l’Ungaretti, è stato completo ed esaustivo di per se, nel suo breve verso più di ogni trattato che lo possa riguardare.
La sola lettura di quel verso-poesia, porta ogni lettore a profonde riflessioni per una considerazione ed una rivelazione data da una ricerca dell’intimo umano che non sarà mai definitiva, perché soggettivo è l’incipit che da quel verso ognuno riceve, ma sarà sempre foriera di una evoluzione continua della ricerca innovativa del proprio pensiero in relazione al verso stesso.
Ogni poeta con la sua poetica, guida il fruitore ad una ricerca di se stesso, perché nel pensiero poetico tutti possono riconoscersi e riconoscervi la propria esigenza di conoscenza spirituale.
La materialità umana è il “contenitore” dello spirito che ha sede nel cuore, ed il cuore connesso al cervello, cioè alla sede del “pensiero”, fa dell’uomo un “continuum” con il Creatore che ne ha concessa la facoltà.
Il materialista che non ha fede in Dio è come un claudicante che vuol vincere una corsa, tal come una persona che abbia fede, ma non tiene in conto il dualismo della creazione spirituale con la materia, che lo farà altrettanto claudicante e, quindi, perdente della corsa alla conoscenza.
Corpo e anima, spirito e materia, sono il complesso unico della creazione che, essendo foriera di intelletto e quindi di curiosità per aprirsi alla conoscenza, completa il suo corso con l’elevazione la letteratura in genere ma la poesia in particolare, e l’arte sublime del comporre musica a tutti i livelli.
È auspicabile che l’educazione culturale dei popoli sia più attenta all’ incremento della spiritualità senza per questo abbandonare la via della pragmaticità che rende benefici al vivere e convivere, ma con il rispetto delle esigenze e dello spirito e del corpo in egual misura.
Per quanto attiene ai concetti ispiratori e regolatori del fare poesia, come tutto nella vita, è in continuo evolversi e divenire, per cui sempre troveremo gli ispirati innovatori che ci saranno maestri, come lo furono fin dalla notte dei tempi quanti, con le loro opere letterarie lasciateci in eredità, hanno contribuito ad ampliare il nostro bagaglio culturale.
Come poter definire esaustivamente il concetto letterario di “Poesia”?
È forse il pensiero filosofico che ha dato all’uomo il concetto dell’espressione poetica dal suo pensiero stesso ?
Perché concettualmente, è la Poesia l’espressione letteraria che, servendosi della “parola”, sia nel suo etimo che nella costruzione sintetica del pensiero, induce con la sonorità della parola stessa ad essere canto espressivo dell’animo e del suo stesso esistere, quale spiritualità nella materialità dell’uomo.
Come nella musica, anche nella poesia, la misura metronomica fa evolvere il pensiero in canto e quindi asserve la musicalità della parola alle vibrazioni del suono, come misura matematica.
I versi di una poesia si qualificavano numericamente in sillabe fino alla rivoluzione dei novecentisti che riportarono la poesia all’espressionismo ellenico tornando a valorizzare il verso libero ancorché musicalmente supportato dal suono sillabico della misura di una cesura rispettosa della musicalità del canto dei fonemi.
I concetti espressi in poesia sono di per se l’intimo sofisma che l’animo o se volete il pensiero spirituale di ognuno può cantare.
Le tematiche possono essere le più varie, ma sempre dalla spiritualità prende la sua genesi in quanto è il “pensiero” in collegamento con il “cuore” che recepisce l’ispirazione a creare i ritmi del canto poetico.
La poesia può diventare proiezione di una rivelazione del pensiero proprio del poeta o recepito, da questi, da elaborazioni altrui, ma introitato e, quindi, reso fruibile in quanto comprensibile, ma difficilmente esaustivamente spiegabile se non in lunghi ed estenuanti trattati.
Un esempio eclatante è un verso del Poeta Giuseppe Ungaretti che, in tre parole, ha espresso una vastità enorme del pensiero umano quando scrisse :-
M’illumino d’immenso
Tutti conoscono il verso, tutti ne hanno parlato, tutti hanno cercato di darne un resoconto che fosse completo, tutti continuano a discettarne esprimendo anche relazioni in contrapposizione le une con le altre, ma nessuno c’è riuscito appieno a farlo, perché nel suo ermetismo, l’Ungaretti, è stato completo ed esaustivo di per se, nel suo breve verso più di ogni trattato che lo possa riguardare.
La sola lettura di quel verso-poesia, porta ogni lettore a profonde riflessioni per una considerazione ed una rivelazione data da una ricerca dell’intimo umano che non sarà mai definitiva, perché soggettivo è l’incipit che da quel verso ognuno riceve, ma sarà sempre foriera di una evoluzione continua della ricerca innovativa del proprio pensiero in relazione al verso stesso.
Ogni poeta con la sua poetica, guida il fruitore ad una ricerca di se stesso, perché nel pensiero poetico tutti possono riconoscersi e riconoscervi la propria esigenza di conoscenza spirituale.
La materialità umana è il “contenitore” dello spirito che ha sede nel cuore, ed il cuore connesso al cervello, cioè alla sede del “pensiero”, fa dell’uomo un “continuum” con il Creatore che ne ha concessa la facoltà.
Il materialista che non ha fede in Dio è come un claudicante che vuol vincere una corsa, tal come una persona che abbia fede, ma non tiene in conto il dualismo della creazione spirituale con la materia, che lo farà altrettanto claudicante e, quindi, perdente della corsa alla conoscenza.
Corpo e anima, spirito e materia, sono il complesso unico della creazione che, essendo foriera di intelletto e quindi di curiosità per aprirsi alla conoscenza, completa il suo corso con l’elevazione la letteratura in genere ma la poesia in particolare, e l’arte sublime del comporre musica a tutti i livelli.
È auspicabile che l’educazione culturale dei popoli sia più attenta all’ incremento della spiritualità senza per questo abbandonare la via della pragmaticità che rende benefici al vivere e convivere, ma con il rispetto delle esigenze e dello spirito e del corpo in egual misura.
Per quanto attiene ai concetti ispiratori e regolatori del fare poesia, come tutto nella vita, è in continuo evolversi e divenire, per cui sempre troveremo gli ispirati innovatori che ci saranno maestri, come lo furono fin dalla notte dei tempi quanti, con le loro opere letterarie lasciateci in eredità, hanno contribuito ad ampliare il nostro bagaglio culturale.
Il trofeo della pace
Mondo intero - 12.4.2008
Si gioca sui campi della Dominante a Monza e su quelli dei comuni di Agrate, Villasanta, Brugherio e Cologno Monzese. Si chiude il 15 giugno
Scritto da
Alessandro Baretti
Le parole stanno a zero se i significati che veicolano non sono sostenuti dai fatti. Qualche mese fa, nel corso di una conferenza stampa, è capitato di ascoltare Don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera (associazione che promuove la lotta contro le mafie), denunciare il fatto che a organizzare diversi dibattiti contro la mafia fossero gli stessi appartenenti alle cosche. “Perché le parole stanno a zero” trapelava da chi in quei dibattiti si truccava da accusatore mascherando inequivocabili i tratti dell’accusato.
Premessa utile a introdurre il senso - e i significati - del “Trofeo della Pace”, campionato di calcio a 7 quest’anno alla sua terza edizione. Le finalità dell’ente organizzatore, la sezione di Monza della federazione internazionale interreligiosa per la pace nel mondo presieduta da Carlo Chierico, sono la promozione dei diritti umani, l’integrazione tra differenti gruppi etnici che abitano un medesimo territorio, e la pace. Parole costrette a rimanere un ideale invito alla fratellanza se non fossero sostenute da una serie di iniziative che danno sostanza e significato al messaggio. Federazione interreligiosa, s’è detto. E allora al torneo partecipano, dal 30 marzo scorso all’8 giugno, rappresentative che realmente fotografano alcune tra le innumerevoli confessioni religiose presenti sulla terra: tre italiane, una mista del Sud Africa, il Perù e la Bolivia (cattolici o spirituali laici), il Tibet (buddisti), due egiziane, l’Algeria, il Senegal, il Marocco, una mista del Nord Africa e il Bangladesh (musulmani e induisti riferendosi all’ultima nazione citata), e ancora l’Ucraina (cristiani ortodossi). Perché innanzitutto dal confronto con “altre” religioni, o dalla semplice osservazione ripulita dai pregiudizi, può svilupparsi un’autentica spinta a desiderare la convivenza tra differenti confessioni.
A proposito di diritti umani è carica di significati la partecipazione al “Trofeo della Pace” del Tibet. Al di là dell’opportunità o meno di boicottare i Giochi Olimpici di Pechino 2008 in risposta all’occupazione cinese del territorio tibetano, e al successivo tentativo della Cina di annullare il tessuto sociale, culturale e religioso della popolazione che lo abita, resta evidente che in Tibet il governo di Pechino eserciti un'illegittima politica di espansione. E la partecipazione al Torneo dei ragazzi tibetani porta con sé la riflessione in merito al sostanziale disinteresse di larga parte della comunità politica internazionale a proposito della questione tibetana.
Nell’ambito del rispetto dei diritti umani rientrano anche i diritti del lavoratore. In tal senso è significativa la scelta dei palloni da utilizzare durante le partite: sono messi a disposizione dall’ente “Diritti in gioco”, che si batte contro lo sfruttamento minorile sul lavoro. Le cuciture dei palloni non saranno insomma frutto del lavoro di bambini, come invece è successo in eventi sportivi ben più importanti.
E’ una forma di educazione, un “semplice” appello alla sensibilità altrui, ma anche la decisione di sostituire immediatamente il giocatore che bestemmia in campo contribuisce a dare un senso al Torneo. Altre le violenze, anche verbali, da annullare prima della bestemmia, ma è ovvio che nell’ambito di un torneo promosso da un’associazione interreligiosa possa stonare una partita di pallone giocata con l’eco di continue imprecazioni a sfondo religioso. Un “vaffa” qui e là sarà sufficiente a sfogare le piccole tensioni che genera una partita...
Si gioca sui campi della Dominante a Monza e su quelli dei comuni di Agrate, Villasanta, Brugherio e Cologno Monzese. Si chiude il 15 giugno, una settimana dopo la fine del torneo programmata l’8, con una festa alla cascina Costa Alta del parco di Monza. Intanto, domenica 30 marzo, si è svolta la giornata inaugurale del torneo. Sul campo della Dominante l'Egitto1 ha sconfitto per 7-4 Italia2. Mentre alla cascina Bassa si è svolta la festa d'apertura con la condivisione di cibo etnico preparato dagli stessi partecipanti. Domenica 6 aprile infine si sono giocate altre tre partite: Italia1-Bolivia 4-4; Egitto2-Bangladesh 6-3; Italia Cral-Tibet 10-4.
Si gioca sui campi della Dominante a Monza e su quelli dei comuni di Agrate, Villasanta, Brugherio e Cologno Monzese. Si chiude il 15 giugno
Scritto da
Alessandro Baretti
Le parole stanno a zero se i significati che veicolano non sono sostenuti dai fatti. Qualche mese fa, nel corso di una conferenza stampa, è capitato di ascoltare Don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera (associazione che promuove la lotta contro le mafie), denunciare il fatto che a organizzare diversi dibattiti contro la mafia fossero gli stessi appartenenti alle cosche. “Perché le parole stanno a zero” trapelava da chi in quei dibattiti si truccava da accusatore mascherando inequivocabili i tratti dell’accusato.
Premessa utile a introdurre il senso - e i significati - del “Trofeo della Pace”, campionato di calcio a 7 quest’anno alla sua terza edizione. Le finalità dell’ente organizzatore, la sezione di Monza della federazione internazionale interreligiosa per la pace nel mondo presieduta da Carlo Chierico, sono la promozione dei diritti umani, l’integrazione tra differenti gruppi etnici che abitano un medesimo territorio, e la pace. Parole costrette a rimanere un ideale invito alla fratellanza se non fossero sostenute da una serie di iniziative che danno sostanza e significato al messaggio. Federazione interreligiosa, s’è detto. E allora al torneo partecipano, dal 30 marzo scorso all’8 giugno, rappresentative che realmente fotografano alcune tra le innumerevoli confessioni religiose presenti sulla terra: tre italiane, una mista del Sud Africa, il Perù e la Bolivia (cattolici o spirituali laici), il Tibet (buddisti), due egiziane, l’Algeria, il Senegal, il Marocco, una mista del Nord Africa e il Bangladesh (musulmani e induisti riferendosi all’ultima nazione citata), e ancora l’Ucraina (cristiani ortodossi). Perché innanzitutto dal confronto con “altre” religioni, o dalla semplice osservazione ripulita dai pregiudizi, può svilupparsi un’autentica spinta a desiderare la convivenza tra differenti confessioni.
A proposito di diritti umani è carica di significati la partecipazione al “Trofeo della Pace” del Tibet. Al di là dell’opportunità o meno di boicottare i Giochi Olimpici di Pechino 2008 in risposta all’occupazione cinese del territorio tibetano, e al successivo tentativo della Cina di annullare il tessuto sociale, culturale e religioso della popolazione che lo abita, resta evidente che in Tibet il governo di Pechino eserciti un'illegittima politica di espansione. E la partecipazione al Torneo dei ragazzi tibetani porta con sé la riflessione in merito al sostanziale disinteresse di larga parte della comunità politica internazionale a proposito della questione tibetana.
Nell’ambito del rispetto dei diritti umani rientrano anche i diritti del lavoratore. In tal senso è significativa la scelta dei palloni da utilizzare durante le partite: sono messi a disposizione dall’ente “Diritti in gioco”, che si batte contro lo sfruttamento minorile sul lavoro. Le cuciture dei palloni non saranno insomma frutto del lavoro di bambini, come invece è successo in eventi sportivi ben più importanti.
E’ una forma di educazione, un “semplice” appello alla sensibilità altrui, ma anche la decisione di sostituire immediatamente il giocatore che bestemmia in campo contribuisce a dare un senso al Torneo. Altre le violenze, anche verbali, da annullare prima della bestemmia, ma è ovvio che nell’ambito di un torneo promosso da un’associazione interreligiosa possa stonare una partita di pallone giocata con l’eco di continue imprecazioni a sfondo religioso. Un “vaffa” qui e là sarà sufficiente a sfogare le piccole tensioni che genera una partita...
Si gioca sui campi della Dominante a Monza e su quelli dei comuni di Agrate, Villasanta, Brugherio e Cologno Monzese. Si chiude il 15 giugno, una settimana dopo la fine del torneo programmata l’8, con una festa alla cascina Costa Alta del parco di Monza. Intanto, domenica 30 marzo, si è svolta la giornata inaugurale del torneo. Sul campo della Dominante l'Egitto1 ha sconfitto per 7-4 Italia2. Mentre alla cascina Bassa si è svolta la festa d'apertura con la condivisione di cibo etnico preparato dagli stessi partecipanti. Domenica 6 aprile infine si sono giocate altre tre partite: Italia1-Bolivia 4-4; Egitto2-Bangladesh 6-3; Italia Cral-Tibet 10-4.
LA POESIA DELLA PACE
Anna Maria Bracale Ceruti
La pace, un bene che dovrebbe essere prerogativa di tutte le nazioni, di tutti gli uomini, di tutti i cuori, perché non c’è stato d’animo più appagante del sentirsi in pace con se stessi e con il prossimo. Chi coltiva la pace sorride, opera con gioia, la comunica. E’, così facendo, contribuisce al bene dell’umanità. Dovrebbe essere la nostra stessa condizione ad affratellarci e additarci sentieri verso convivenze pacifiche, pressati come siamo dalle urgenze del villaggio globale, realtà di questo millennio.
Il mio io si nutre di sentimenti profondi; non potrei scrivere se, al momento di riempire il foglio, il mio cuore ne fosse lontano. Infatti in poesia non si può barare, non esprimi solo le tue opinioni, ma emozioni che sono alimentate dai tuoi pensieri dalle tue riflessioni sul senso dell’esistere, filtrate dai sentimenti. L’ispirazione collima con le istanze del momento e con le voci della tua epoca. La presa di coscienza della situazione contingente del mondo guida la tua mano, e fa sì che tu possa essere interprete della storia.
Ogni epoca ha generato poeti che si sono ispirati alla pace. Voglio ricordarne uno, Carrera Andrade, voce altissima del mondo ispanoamericano del ‘900. I suoi versi mi fecero traboccare di passione quando li lessi, e per celebrarlo ho inserito una citazione nella mia poesia “Bandiera come Arcobaleno”.
La sua scrittura, pervasa di nostalgia per la sua terra, raggiunse il culmine nel periodo della seconda guerra mondiale. Egli lanciò un grande messaggio di fraternità, facendo sua l’ispirazione suprema dell’uomo alla pace universale, e additandola con l’incisività della parola poetica.
BANDIERA COME ARCOBALENO
Bandiera come arcobaleno
sventola l’annuncio
di altra guerra
sette i colori
le armi della pace
a ricomporre luce
batte come ali
in attesa di virare
quando interdette
tacciono le voci
ma altre incalzano
dai rotoli del tempo
una per tutte
è di Carrera Andrade
“Sobre mi corazòn firman los pueblos
un tratado de paz hasta la muerte”
di pace è fatto il cuore
e i suoi segreti.
Anna Maria Bracale Ceruti
La pace, un bene che dovrebbe essere prerogativa di tutte le nazioni, di tutti gli uomini, di tutti i cuori, perché non c’è stato d’animo più appagante del sentirsi in pace con se stessi e con il prossimo. Chi coltiva la pace sorride, opera con gioia, la comunica. E’, così facendo, contribuisce al bene dell’umanità. Dovrebbe essere la nostra stessa condizione ad affratellarci e additarci sentieri verso convivenze pacifiche, pressati come siamo dalle urgenze del villaggio globale, realtà di questo millennio.
Il mio io si nutre di sentimenti profondi; non potrei scrivere se, al momento di riempire il foglio, il mio cuore ne fosse lontano. Infatti in poesia non si può barare, non esprimi solo le tue opinioni, ma emozioni che sono alimentate dai tuoi pensieri dalle tue riflessioni sul senso dell’esistere, filtrate dai sentimenti. L’ispirazione collima con le istanze del momento e con le voci della tua epoca. La presa di coscienza della situazione contingente del mondo guida la tua mano, e fa sì che tu possa essere interprete della storia.
Ogni epoca ha generato poeti che si sono ispirati alla pace. Voglio ricordarne uno, Carrera Andrade, voce altissima del mondo ispanoamericano del ‘900. I suoi versi mi fecero traboccare di passione quando li lessi, e per celebrarlo ho inserito una citazione nella mia poesia “Bandiera come Arcobaleno”.
La sua scrittura, pervasa di nostalgia per la sua terra, raggiunse il culmine nel periodo della seconda guerra mondiale. Egli lanciò un grande messaggio di fraternità, facendo sua l’ispirazione suprema dell’uomo alla pace universale, e additandola con l’incisività della parola poetica.
BANDIERA COME ARCOBALENO
Bandiera come arcobaleno
sventola l’annuncio
di altra guerra
sette i colori
le armi della pace
a ricomporre luce
batte come ali
in attesa di virare
quando interdette
tacciono le voci
ma altre incalzano
dai rotoli del tempo
una per tutte
è di Carrera Andrade
“Sobre mi corazòn firman los pueblos
un tratado de paz hasta la muerte”
di pace è fatto il cuore
e i suoi segreti.
Anna Maria Bracale Ceruti
AMBASCIATORI DI PACE ? CHI SONO ?
di Renato Piccioni
Quando fui nominato “Ambasciatore di Pace” dal rappresentante dell’Universal Peace Federation, fui sorpreso dell’onore che mi veniva fatto con questo inatteso riconoscimento.
Provai la sensazione di essere stato richiesto di essere particolare, all’interno del sociale in cui avrei vissuto immerso totalmente.
Ma ho anche realizzato che dovevo solo continuare ad essere quello di sempre che proprio con il mio modo di vivere la vita, ero stato considerato un esempio etico e quindi, una guida, a quanti mi conoscevano e stimavano già.
Ero stato chiamato, per essere esempio di persona di “Pace”, ed è necessario che nel mio intimo io debba contenere la pace nel mio spirito, nel profondo del mio intimo, congiuntamente al senso di servizio per il bene del prossimo.
Maggiormente importante è che l’Ambasciatore di Pace, non tenga primieramente in conto il suo”Ego”, ma abbia constante l’attenzione al prossimo, ai suoi bisogni, ed anche operare per alleviarne pene e necessità di vita.
Deve coltivare un altruismo attivo, e non sterile a parole, ma confortato da opere e fatti, che è cosa che fa di ogni persona un “Ambasciatore di Pace”.
Vivere nella società con la sensibilità che proviene dall’amore che si dona all’altro in forma altruistica in quanto lo considera “Fratello in Dio”.
Dimentica di notare le differenze biologiche dovute all’etnia, ma quindi, e non solo perciò, pronto a supportare i differenti “Bisogni”, le Speranze, il Desiderio di vivere una vita nel rispetto della dignità umana, e fare di queste esigenze il proprio vademecum per cancellare quelle diversità, che il passato storico dell’umanità, ha messo in essere per ragioni di sfruttamento dell’uomo sull’uomo solo per ragioni di “mercato”, quindi del puro ignobile egoismo perverso e cieco alle ragioni che vogliono gli uomini tutti riconoscibili come “eguali con pari dignità, diritti e doveri”.
Ecco che l’Ambasciatore di Pace, diventa il fulcro sul quale, la leva fa perno per un progresso umano fatto di rispetto di tutti per ognuno, e di ognuno nel rispetto di tutti.
Le armi che l’Ambasciatore di Pace deve mettere in campo sono, il rispetto, l’amore, il senso di fratellanza, la disponibilità, il concetto di eguaglianza a prescindere dal colore della pelle, dallo stato economico, dal progresso civile in cui ogni popolo opera, dalla fede religiosa alla quale si rapporta, ma essere membro sollecito nel sentirsi parte di ogni popolo, a prescindere dall’idioma con cui si esprime, dagli usi e costumi dovuti alla patria di appartenenza.
L’Ambasciatore di Pace, può e deve trasmettere il concetto di “Pace” fra gli uomini, non solo con l’esempio del suo tenore di vita etico e morale, ma con la condivisione delle sue conoscenze per aiutare ad elevarsi a coloro che non le posseggono, perchè uno dei mali profondi di un qualsiasi popolo è nella non conoscenza dei valori espressi da una cultura, che non può ne deve essere solo riservata ad una elite, che ne fa arma di sfruttamento.
Un Ambasciatore di Pace, non deve fare proselitismo, ma deve accettare che “l’Altro” possa e debba conservare la sua fede diventando “Il Migliore” nell’ambito di quella fede, ma pieno di rispetto e comprensione per ogni credo che possa risultare diverso dal suo.
L’Ambasciatore di Pace, è colui che con il suo esempio lascia che le divisioni storico-politiche, finiscano per non trovare più la ragione d’essere.
L’ambasciatore di Pace, deve avere animo predisposto alla generosità, alla comprensione, ad avere e coltivare un animo di “Charitas”, nell’accezione profonda del suo significato latino di amore fatto di accoglienza con il sorriso, fatto di condivisione per capire, fatto in poche parole d’amore, perchè là dove l’amore mancasse , tutto il resto non avrebbe porte aperte per entrare in contatto con il senso profondo dell’animo.
E l’Anima, ha per certo il compito di fornire l’energia spirituale e vitale ad un corpo, ma costituisce la parte migliore della vita di ciascuno, in quanto, è la “Scintilla Divina” con la quale Dio ha voluto distinguere l’Uomo, dal resto delle creature viventi parte della Creazione.
É compito preciso di ogni “Ambasciatore di Pace” fare, della propria anima, il faro del concetto base della realizzazione di una umanità in cui la Pace dovrà costituire l’avvento della ragione principale della Creazione, in quanto Dio, ha si creato l’uomo, ma per farne erede di tutta la sua opera divina, che da Dio la riceve in momentaneo prestito, e, quindi, non potrà possederla, ma ha il dovere primario di migliorarla per passarla, poi, in eredità alle future generazioni.
Il compito dell’Ambasciatore di Pace, se lo si guarda con timore di non esserne all’altezza, sembrerà una missione impossibile, e potrebbe anche esserlo, ma solo se non lo si affronta con la formula semplice che con l’amore che si possiede, lasciamo che ne diventi il maestro, ed allora quali allievi diligenti faremo tutto quanto saremo amorevolmente disposti a dare, senza mai nulla chiedere, e come sempre ci renderemo conto che è l’amore che compie il miracolo e noi gli Ambasciatori di Pace, siamo solo chiamati a darne semplicemente testimonianza educatrice, quale unico insostituibile tramite.
Cav. RENATO PICCIONI
Superno Ordo Equestris Templi
Ambasciatore di Pace
Presidente Accademia Culturale Sammarinese “Le Tre Catella”
Quando fui nominato “Ambasciatore di Pace” dal rappresentante dell’Universal Peace Federation, fui sorpreso dell’onore che mi veniva fatto con questo inatteso riconoscimento.
Provai la sensazione di essere stato richiesto di essere particolare, all’interno del sociale in cui avrei vissuto immerso totalmente.
Ma ho anche realizzato che dovevo solo continuare ad essere quello di sempre che proprio con il mio modo di vivere la vita, ero stato considerato un esempio etico e quindi, una guida, a quanti mi conoscevano e stimavano già.
Ero stato chiamato, per essere esempio di persona di “Pace”, ed è necessario che nel mio intimo io debba contenere la pace nel mio spirito, nel profondo del mio intimo, congiuntamente al senso di servizio per il bene del prossimo.
Maggiormente importante è che l’Ambasciatore di Pace, non tenga primieramente in conto il suo”Ego”, ma abbia constante l’attenzione al prossimo, ai suoi bisogni, ed anche operare per alleviarne pene e necessità di vita.
Deve coltivare un altruismo attivo, e non sterile a parole, ma confortato da opere e fatti, che è cosa che fa di ogni persona un “Ambasciatore di Pace”.
Vivere nella società con la sensibilità che proviene dall’amore che si dona all’altro in forma altruistica in quanto lo considera “Fratello in Dio”.
Dimentica di notare le differenze biologiche dovute all’etnia, ma quindi, e non solo perciò, pronto a supportare i differenti “Bisogni”, le Speranze, il Desiderio di vivere una vita nel rispetto della dignità umana, e fare di queste esigenze il proprio vademecum per cancellare quelle diversità, che il passato storico dell’umanità, ha messo in essere per ragioni di sfruttamento dell’uomo sull’uomo solo per ragioni di “mercato”, quindi del puro ignobile egoismo perverso e cieco alle ragioni che vogliono gli uomini tutti riconoscibili come “eguali con pari dignità, diritti e doveri”.
Ecco che l’Ambasciatore di Pace, diventa il fulcro sul quale, la leva fa perno per un progresso umano fatto di rispetto di tutti per ognuno, e di ognuno nel rispetto di tutti.
Le armi che l’Ambasciatore di Pace deve mettere in campo sono, il rispetto, l’amore, il senso di fratellanza, la disponibilità, il concetto di eguaglianza a prescindere dal colore della pelle, dallo stato economico, dal progresso civile in cui ogni popolo opera, dalla fede religiosa alla quale si rapporta, ma essere membro sollecito nel sentirsi parte di ogni popolo, a prescindere dall’idioma con cui si esprime, dagli usi e costumi dovuti alla patria di appartenenza.
L’Ambasciatore di Pace, può e deve trasmettere il concetto di “Pace” fra gli uomini, non solo con l’esempio del suo tenore di vita etico e morale, ma con la condivisione delle sue conoscenze per aiutare ad elevarsi a coloro che non le posseggono, perchè uno dei mali profondi di un qualsiasi popolo è nella non conoscenza dei valori espressi da una cultura, che non può ne deve essere solo riservata ad una elite, che ne fa arma di sfruttamento.
Un Ambasciatore di Pace, non deve fare proselitismo, ma deve accettare che “l’Altro” possa e debba conservare la sua fede diventando “Il Migliore” nell’ambito di quella fede, ma pieno di rispetto e comprensione per ogni credo che possa risultare diverso dal suo.
L’Ambasciatore di Pace, è colui che con il suo esempio lascia che le divisioni storico-politiche, finiscano per non trovare più la ragione d’essere.
L’ambasciatore di Pace, deve avere animo predisposto alla generosità, alla comprensione, ad avere e coltivare un animo di “Charitas”, nell’accezione profonda del suo significato latino di amore fatto di accoglienza con il sorriso, fatto di condivisione per capire, fatto in poche parole d’amore, perchè là dove l’amore mancasse , tutto il resto non avrebbe porte aperte per entrare in contatto con il senso profondo dell’animo.
E l’Anima, ha per certo il compito di fornire l’energia spirituale e vitale ad un corpo, ma costituisce la parte migliore della vita di ciascuno, in quanto, è la “Scintilla Divina” con la quale Dio ha voluto distinguere l’Uomo, dal resto delle creature viventi parte della Creazione.
É compito preciso di ogni “Ambasciatore di Pace” fare, della propria anima, il faro del concetto base della realizzazione di una umanità in cui la Pace dovrà costituire l’avvento della ragione principale della Creazione, in quanto Dio, ha si creato l’uomo, ma per farne erede di tutta la sua opera divina, che da Dio la riceve in momentaneo prestito, e, quindi, non potrà possederla, ma ha il dovere primario di migliorarla per passarla, poi, in eredità alle future generazioni.
Il compito dell’Ambasciatore di Pace, se lo si guarda con timore di non esserne all’altezza, sembrerà una missione impossibile, e potrebbe anche esserlo, ma solo se non lo si affronta con la formula semplice che con l’amore che si possiede, lasciamo che ne diventi il maestro, ed allora quali allievi diligenti faremo tutto quanto saremo amorevolmente disposti a dare, senza mai nulla chiedere, e come sempre ci renderemo conto che è l’amore che compie il miracolo e noi gli Ambasciatori di Pace, siamo solo chiamati a darne semplicemente testimonianza educatrice, quale unico insostituibile tramite.
Cav. RENATO PICCIONI
Superno Ordo Equestris Templi
Ambasciatore di Pace
Presidente Accademia Culturale Sammarinese “Le Tre Catella”
Un Giorno di Pace in Kenya
Rev. Frederick Wakhisi, Segretario Generale UPF-Kenya
Come risposta alla recente crisi in Kenya, l’UPF-Africa ha riunito insieme nel Centro Internazionale di Conferenze a Nairobi un gruppo di 800 leaders della società keniota per considerare urgentemente la visione principale, i principi ed i programmi dell’UPF che possono contribuire ad una pacifica risoluzione dei conflitti.
La conferenza, sponsorizzata dai Veterani del Kenya per la Pace, con il sostegno delle corporazioni locali, è stata tenuta nello stesso giorno in cui il parlamento keniota era in riunione con lo scopo specifico di portare un termine allo stallo politico e all’agitazione civile che ha colpito la nazione fin dalle dispute presidenziali per le elezioni del 27 dicembre 2007.
La soluzione è stata progettata in consultazione con l’ex Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan, che è stato chiamato per stabilire un’alleanza governativa. Quindi, in sostegno al Presidente e Vicepresidente, ci sarà ora un Primo Ministro e due deputati Primi Ministri. Lo sfidante del Presidente Mwai, l’Onorevole Raila Odinga è stato nominato Primo Ministro Designato il 18 marzo.
Il Segretario Generale della UPF Dr. Thomas G. Walsh è diventato il primo visitatore straniero, dopo lo storico accordo di pace, a convocare l’On. Raila Odinga e la Sig.ra Ida Odinga, che sono stati ambedue coinvolti nel lavoro della UPF durante il corso degli ultimi anni. Il nuovo primo ministro ha spiegato che ha trovato i principi di pace della UPF “molto utili”, in un tempo di crisi disperata.
La conferenza di due giorni è stata l’ultima delle serie di Conferenze Internazionale per la Leadership in corso, tenute sul tema “Verso un nuovo paradigma di Leadership e Buon Governo per la Pace e lo Sviluppo.” Fra i presentatori v’erano il Dr. Walsh, l’Amministratore Fiduciario della Fondazione del Kenia Mahatma Ghandi, Dr. Manu Chandaria, il Presidente di “Realizing the Dream” Martin Luther King III, Insu Choi della Federazione Internazionale dei Giovani per la Pace nel Mondo, il Segretario Generale della UPF-Africa Rev. Mwalagho Kililo e il Presidente della UPF del Kenya Dr. Hee Sun Ji.
Il Dr. Chandaria ha parlato di Mahatma Ghandi, dell’ispirazione per la fondazione e lo sviluppo dell’Università di Nairobi. In onore alla presenza di Martin Luther King III, ha posto l’accento sull’influenza di Gandhi sull’importante guida non violenta sui diritti civili del Dr. Martin Luther King Jr.
Martin Luther King ha parlato sull’eredità non violenta di suo padre e sua madre e dell’ideale di una “amorevole comunità” di pace. Come presidente dell’Associazione “Realizing the Dream”, il Dr. King ha invitato i 1000 partecipanti della ILC a diventare Ambasciatori di Pace. Ha dichiarato: “A volte dobbiamo assumere delle prese di posizione non perché esse sono politiche o popolari, ma perché sono giuste.” Ha aggiunto che dobbiamo imparare a “guidare con amore”, ed espresso appassionatamente il bisogno di una visione interreligiosa e della sfida di trasformare i sogni in realtà. Inoltre King ha elogiato la decisione del Presidente Kibaki e dell’On. Odinga di formare una coalizione governativa.
In particolare la UPF-Africa e la UPF-Kenya si stanno sviluppando in modi sostanziali e molto incoraggianti. Inoltre, le Conferenze Internazionali sulla Leadership continuano ad essere una forza principale per promuovere un buon governo di pace. Nel dialogo con diversi parlamentari, il Dr. Walsh e il Rev. Kikilo hanno riportato l’esistenza di uno spirito di grande speranza e di risoluzione a lavorare per un futuro prosperoso e pacifico del Kenya.
Come risposta alla recente crisi in Kenya, l’UPF-Africa ha riunito insieme nel Centro Internazionale di Conferenze a Nairobi un gruppo di 800 leaders della società keniota per considerare urgentemente la visione principale, i principi ed i programmi dell’UPF che possono contribuire ad una pacifica risoluzione dei conflitti.
La conferenza, sponsorizzata dai Veterani del Kenya per la Pace, con il sostegno delle corporazioni locali, è stata tenuta nello stesso giorno in cui il parlamento keniota era in riunione con lo scopo specifico di portare un termine allo stallo politico e all’agitazione civile che ha colpito la nazione fin dalle dispute presidenziali per le elezioni del 27 dicembre 2007.
La soluzione è stata progettata in consultazione con l’ex Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan, che è stato chiamato per stabilire un’alleanza governativa. Quindi, in sostegno al Presidente e Vicepresidente, ci sarà ora un Primo Ministro e due deputati Primi Ministri. Lo sfidante del Presidente Mwai, l’Onorevole Raila Odinga è stato nominato Primo Ministro Designato il 18 marzo.
Il Segretario Generale della UPF Dr. Thomas G. Walsh è diventato il primo visitatore straniero, dopo lo storico accordo di pace, a convocare l’On. Raila Odinga e la Sig.ra Ida Odinga, che sono stati ambedue coinvolti nel lavoro della UPF durante il corso degli ultimi anni. Il nuovo primo ministro ha spiegato che ha trovato i principi di pace della UPF “molto utili”, in un tempo di crisi disperata.
La conferenza di due giorni è stata l’ultima delle serie di Conferenze Internazionale per la Leadership in corso, tenute sul tema “Verso un nuovo paradigma di Leadership e Buon Governo per la Pace e lo Sviluppo.” Fra i presentatori v’erano il Dr. Walsh, l’Amministratore Fiduciario della Fondazione del Kenia Mahatma Ghandi, Dr. Manu Chandaria, il Presidente di “Realizing the Dream” Martin Luther King III, Insu Choi della Federazione Internazionale dei Giovani per la Pace nel Mondo, il Segretario Generale della UPF-Africa Rev. Mwalagho Kililo e il Presidente della UPF del Kenya Dr. Hee Sun Ji.
Il Dr. Chandaria ha parlato di Mahatma Ghandi, dell’ispirazione per la fondazione e lo sviluppo dell’Università di Nairobi. In onore alla presenza di Martin Luther King III, ha posto l’accento sull’influenza di Gandhi sull’importante guida non violenta sui diritti civili del Dr. Martin Luther King Jr.
Martin Luther King ha parlato sull’eredità non violenta di suo padre e sua madre e dell’ideale di una “amorevole comunità” di pace. Come presidente dell’Associazione “Realizing the Dream”, il Dr. King ha invitato i 1000 partecipanti della ILC a diventare Ambasciatori di Pace. Ha dichiarato: “A volte dobbiamo assumere delle prese di posizione non perché esse sono politiche o popolari, ma perché sono giuste.” Ha aggiunto che dobbiamo imparare a “guidare con amore”, ed espresso appassionatamente il bisogno di una visione interreligiosa e della sfida di trasformare i sogni in realtà. Inoltre King ha elogiato la decisione del Presidente Kibaki e dell’On. Odinga di formare una coalizione governativa.
In particolare la UPF-Africa e la UPF-Kenya si stanno sviluppando in modi sostanziali e molto incoraggianti. Inoltre, le Conferenze Internazionali sulla Leadership continuano ad essere una forza principale per promuovere un buon governo di pace. Nel dialogo con diversi parlamentari, il Dr. Walsh e il Rev. Kikilo hanno riportato l’esistenza di uno spirito di grande speranza e di risoluzione a lavorare per un futuro prosperoso e pacifico del Kenya.
Il trauma dello Zimbabwe
di Giorgio Gasperoni
Nonostante una crescente pressione da parte delle potenze occidentali di intervenire nella crisi elettorale dello Zimbabwe, il loro coinvolgimento rimane una remota possibilità.
Al Summit dell’Unione Africana tenutasi presso le Nazioni Unite lo scorso 16 Aprile sia l’Inghilterra che gli Stati Uniti avevano fatto presente la necessità della presenza delle N.U. in Zimbabwe per superare lo stallo della situazione ma la loro azione si era venuta a scontrare con la reazione negativa della maggioranza dei membri dell’Unione Africana.
“La questione deve essere presa in considerazione dal governo dello Zimbabwe” affermava il Presidente del Sud Africa, Thabo Mbeki. Il governo del Presidente Robert Mugabe sosteneva che il ritardo nel rendere pubblici i risultati delle elezioni del 29 Marzo era causato da anomalie avvenute durante la conta delle schede. La commissione elettorale nazionale sosteneva che non poteva rendere pubblici i risultati fino a che un riconteggio parziale delle schede non sarà ultimato.
Ma il movimento di opposizione per un cambiamento democratico(MDC) aveva rifiutato la spiegazione del governo e sosteneva che il riconteggio era una strategia per coprire la sconfitta del partito di governo.
In una dichiarazione, il leader del MDC, Morgan Tsvangirai affermava che Mbeki non è qualificato a tenere una posizione di mediatore. Tsvangirai ha pure accusato il governo Mugabe di commettere grosse violazioni dei diritti umani e ha chiesto alle N.U. di sottoporre il caso alla Corte Internazionale sui Crimini (ICC).
Mbeki e Mugabe sono vecchi compagni rivoluzionari nella loro lotta contro le regole dell’Apartheid in Sud Africa e Zimbabwe, conosciuto come Rhodesia, prima della sua indipendenza. Mbeki, che con la sua nazione, presiede al momento il Consiglio di Sicurezza dei 15 Stati Membri, affermava che il SADC (Sviluppo delle Comunità dell’Africa del Sud) è in grado di far fronte alla situazione di crisi in Zimbabwe. Il SADC era in attesa che venissero resi pubblici i risultati delle elezioni.
“Se la situazione si deteriorasse e la pace e la sicurezza fossero in pericolo, allora la questione dovrebbe essere esaminata dal Consiglio di Sicurezza” aveva detto Mbeki ai giornalisti. Ma aveva anche aggiunto che “la soluzione è nelle mani del popolo dello Zimbabwe”.
La proposta di rifare le elezioni, veniva respinta dall’opposizione in quanto essi affermano che, loro, le elezioni le hanno vinte, come affermava Morgan Tsvangirai, che subito dopo le elezioni si era portato in Botswana.
In risposta, il governo Mugabe lo aveva accusato di fare il gioco delle nazioni occidentali. Sia gli USA che l’Inghilterra come la Commissione Europea volevano l’immediata pubblicazione dei risultati elettorali del 29 Marzo. Il Segretario di Stato americano, Condoleezza Rice aveva descritto la situazione deprecabile ed aveva criticato aspramente la posizione dell’UA: “E’ ora che l’Africa reagisca”, affermava la Rice, “dov’è la preoccupazione dell’UA e delle nazioni limitrofe allo Zimbabwe di ciò che sta realmente accadendo in quel paese?”
Il primo ministro britannico, Gordon Brown aveva anch’egli rilasciato una dichiarazione nella quale affermava che il mondo deve fermare Mugabe dal rubare le elezioni ed aveva aggiunto che è necessario un monitoraggio delle N.U. sulla situazione. “Nessuno crede”, affermava al Summit N.U.-UA, “che fra coloro che erano presenti ai seggi elettorali, il presidente Mugabe avesse vinto le elezioni. Una elezione rubata non è assolutamente una elezione democratica”.
In disaccordo con gli USA e la GB al Summit, due altre nazioni con diritto di veto, sono la Russia e la Cina. Si sono astenute dal fare dichiarazioni pubbliche al Summit. Comunque, diplomatici di entrambe le nazioni affermavano però che le organizzazioni regionali come l’UA mostrano più determinazione a risolvere i problemi africani.
Il leader dell’opposizione in Zimbabwe chiede che la comunità internazionale blocchi l’invio di armi alla sua nazione, anche se, al riguardo, non c’è alcuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza riguardo l’embargo di armi allo Zimbabwe.
Il Segretario Generale delle N.U., Ban Ki-Moon si era tenuto in gran parte neutrale: dichiarava però che “le autorità dello Zimbabwe e le nazioni della regione avevano insistito che queste problematiche venissero risolte dalla regione. Ma la Comunità Internazionale continua ad aspettare azioni concrete”.
“La credibilità del processo democratico in Africa potrebbe essere messo in discussione in questa situazione”, affermava al Summit Ban Ki-moon, “se ci fosse un secondo turno elettorale, deve essere condotto in modo trasparente e corretto, con osservatori internazionali”.
Ora la data per un secondo turno elettorale è stata fissata per il 27 Giugno. Speriamo che quanto si auspica il Segretario Generale dell’ONU, Ban ki Moon, avvenga davvero anche se le minacce e gli arresti verso gli esponenti dell’opposizione continuano ad avvenire nell’avvicinarsi della data delle elezioni.
Nonostante una crescente pressione da parte delle potenze occidentali di intervenire nella crisi elettorale dello Zimbabwe, il loro coinvolgimento rimane una remota possibilità.
Al Summit dell’Unione Africana tenutasi presso le Nazioni Unite lo scorso 16 Aprile sia l’Inghilterra che gli Stati Uniti avevano fatto presente la necessità della presenza delle N.U. in Zimbabwe per superare lo stallo della situazione ma la loro azione si era venuta a scontrare con la reazione negativa della maggioranza dei membri dell’Unione Africana.
“La questione deve essere presa in considerazione dal governo dello Zimbabwe” affermava il Presidente del Sud Africa, Thabo Mbeki. Il governo del Presidente Robert Mugabe sosteneva che il ritardo nel rendere pubblici i risultati delle elezioni del 29 Marzo era causato da anomalie avvenute durante la conta delle schede. La commissione elettorale nazionale sosteneva che non poteva rendere pubblici i risultati fino a che un riconteggio parziale delle schede non sarà ultimato.
Ma il movimento di opposizione per un cambiamento democratico(MDC) aveva rifiutato la spiegazione del governo e sosteneva che il riconteggio era una strategia per coprire la sconfitta del partito di governo.
In una dichiarazione, il leader del MDC, Morgan Tsvangirai affermava che Mbeki non è qualificato a tenere una posizione di mediatore. Tsvangirai ha pure accusato il governo Mugabe di commettere grosse violazioni dei diritti umani e ha chiesto alle N.U. di sottoporre il caso alla Corte Internazionale sui Crimini (ICC).
Mbeki e Mugabe sono vecchi compagni rivoluzionari nella loro lotta contro le regole dell’Apartheid in Sud Africa e Zimbabwe, conosciuto come Rhodesia, prima della sua indipendenza. Mbeki, che con la sua nazione, presiede al momento il Consiglio di Sicurezza dei 15 Stati Membri, affermava che il SADC (Sviluppo delle Comunità dell’Africa del Sud) è in grado di far fronte alla situazione di crisi in Zimbabwe. Il SADC era in attesa che venissero resi pubblici i risultati delle elezioni.
“Se la situazione si deteriorasse e la pace e la sicurezza fossero in pericolo, allora la questione dovrebbe essere esaminata dal Consiglio di Sicurezza” aveva detto Mbeki ai giornalisti. Ma aveva anche aggiunto che “la soluzione è nelle mani del popolo dello Zimbabwe”.
La proposta di rifare le elezioni, veniva respinta dall’opposizione in quanto essi affermano che, loro, le elezioni le hanno vinte, come affermava Morgan Tsvangirai, che subito dopo le elezioni si era portato in Botswana.
In risposta, il governo Mugabe lo aveva accusato di fare il gioco delle nazioni occidentali. Sia gli USA che l’Inghilterra come la Commissione Europea volevano l’immediata pubblicazione dei risultati elettorali del 29 Marzo. Il Segretario di Stato americano, Condoleezza Rice aveva descritto la situazione deprecabile ed aveva criticato aspramente la posizione dell’UA: “E’ ora che l’Africa reagisca”, affermava la Rice, “dov’è la preoccupazione dell’UA e delle nazioni limitrofe allo Zimbabwe di ciò che sta realmente accadendo in quel paese?”
Il primo ministro britannico, Gordon Brown aveva anch’egli rilasciato una dichiarazione nella quale affermava che il mondo deve fermare Mugabe dal rubare le elezioni ed aveva aggiunto che è necessario un monitoraggio delle N.U. sulla situazione. “Nessuno crede”, affermava al Summit N.U.-UA, “che fra coloro che erano presenti ai seggi elettorali, il presidente Mugabe avesse vinto le elezioni. Una elezione rubata non è assolutamente una elezione democratica”.
In disaccordo con gli USA e la GB al Summit, due altre nazioni con diritto di veto, sono la Russia e la Cina. Si sono astenute dal fare dichiarazioni pubbliche al Summit. Comunque, diplomatici di entrambe le nazioni affermavano però che le organizzazioni regionali come l’UA mostrano più determinazione a risolvere i problemi africani.
Il leader dell’opposizione in Zimbabwe chiede che la comunità internazionale blocchi l’invio di armi alla sua nazione, anche se, al riguardo, non c’è alcuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza riguardo l’embargo di armi allo Zimbabwe.
Il Segretario Generale delle N.U., Ban Ki-Moon si era tenuto in gran parte neutrale: dichiarava però che “le autorità dello Zimbabwe e le nazioni della regione avevano insistito che queste problematiche venissero risolte dalla regione. Ma la Comunità Internazionale continua ad aspettare azioni concrete”.
“La credibilità del processo democratico in Africa potrebbe essere messo in discussione in questa situazione”, affermava al Summit Ban Ki-moon, “se ci fosse un secondo turno elettorale, deve essere condotto in modo trasparente e corretto, con osservatori internazionali”.
Ora la data per un secondo turno elettorale è stata fissata per il 27 Giugno. Speriamo che quanto si auspica il Segretario Generale dell’ONU, Ban ki Moon, avvenga davvero anche se le minacce e gli arresti verso gli esponenti dell’opposizione continuano ad avvenire nell’avvicinarsi della data delle elezioni.
Quale futuro per lo Zimbabwe
di Giorgio Gasperoni
Dopo più di due mesi dalle elezioni in Zimbabwe, il governo in carica del Presidente Robert Mugabe non aveva ancora rilasciato i risultati delle elezioni, che nelle convinzioni di molti osservatori indipendenti, vinte dal Leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai.
Il popolo dello Zimbabwe voleva un annuncio dei risultati ufficiali. Ora che il secondo turno delle elezioni è stato fissato per il 27 Giugno 2008, non sarà facile da prevedere se Mugabe lascerà il potere in caso di sconfitta. Sfortunatamente, l’escalation della violenza e della repressione promossa dal governo verso i dissidenti fa capire che la nazione è sul punto di cadere nel caos.
Le elezioni del 29 Marzo scorso sono state contrassegnate da corruzione e brutalità. Torture e violenze sono state perpetrate sui membri dell’opposizione e dei loro potenziali elettori. Le loro proprietà sono state distrutte e le comunità terrorizzate. Tsvangirai stesso è stato portato davanti ai giudici all’inizio dell’anno. Il suo volto mostrava zone completamente tumefatte a causa dei colpi ricevuti dalla polizia. Nonostante queste grandi intimidazioni, le elezioni di fine Marzo, secondo gli osservatori internazionali, hanno prodotto una chiara vittoria per il leader dell’opposizione.
Lenin dichiarò che il potere dipende dalle canne dei fucili. Questa triste constatazione si verifica in tutte le nazioni dove ci sono violente rivoluzioni e governi antidemocratici. I tiranni e i loro accoliti non rilasciano il potere facilmente. È normalmente così per tutti coloro il cui potere politico è basato fondamentalmente sull’uso della forza.
Robert Mugabe ha guidato lo Zimbabwe come presidente dal 1987, ma come primo ministro già dal 1980. Ha conquistato il potere come membro preminente dello ZANU (Unione nazionale africana dello Zimbabwe), la guerriglia di opposizione che portò alla caduta dei bianchi in Rhodesia(oggi Zimbabwe).
La politica di Mugabe ha fatto sì che la comunità internazionale applicasse delle sanzioni nei confronti della nazione e la situazione nello Zimbabwe è peggiorata notevolmente negli ultimi vent’anni. Ciò nonostante, le nazioni limitrofe non vedono di buon occhio l’intervento esterno, anche se animato da buone intenzioni, perché potrebbe peggiorare piuttosto che migliorare la situazione. Potrebbe scoppiare una guerra civile ed allagarsi oltre i confini territoriali dello Zimbabwe ed avere un’escalation fuori controllo.
In ultima analisi, la situazione che si creerà dipenderà interamente dalle decisioni di Mugabe. Lui e il suo esercito, dovrebbero rispettare le decisioni del popolo e mettersi da parte.
Repressione e tortura non sono gli strumenti per la legittimare il potere. Il governo, dopotutto, esiste per servire il popolo della nazione e non per schiacciarlo.
Dopo più di due mesi dalle elezioni in Zimbabwe, il governo in carica del Presidente Robert Mugabe non aveva ancora rilasciato i risultati delle elezioni, che nelle convinzioni di molti osservatori indipendenti, vinte dal Leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai.
Il popolo dello Zimbabwe voleva un annuncio dei risultati ufficiali. Ora che il secondo turno delle elezioni è stato fissato per il 27 Giugno 2008, non sarà facile da prevedere se Mugabe lascerà il potere in caso di sconfitta. Sfortunatamente, l’escalation della violenza e della repressione promossa dal governo verso i dissidenti fa capire che la nazione è sul punto di cadere nel caos.
Le elezioni del 29 Marzo scorso sono state contrassegnate da corruzione e brutalità. Torture e violenze sono state perpetrate sui membri dell’opposizione e dei loro potenziali elettori. Le loro proprietà sono state distrutte e le comunità terrorizzate. Tsvangirai stesso è stato portato davanti ai giudici all’inizio dell’anno. Il suo volto mostrava zone completamente tumefatte a causa dei colpi ricevuti dalla polizia. Nonostante queste grandi intimidazioni, le elezioni di fine Marzo, secondo gli osservatori internazionali, hanno prodotto una chiara vittoria per il leader dell’opposizione.
Lenin dichiarò che il potere dipende dalle canne dei fucili. Questa triste constatazione si verifica in tutte le nazioni dove ci sono violente rivoluzioni e governi antidemocratici. I tiranni e i loro accoliti non rilasciano il potere facilmente. È normalmente così per tutti coloro il cui potere politico è basato fondamentalmente sull’uso della forza.
Robert Mugabe ha guidato lo Zimbabwe come presidente dal 1987, ma come primo ministro già dal 1980. Ha conquistato il potere come membro preminente dello ZANU (Unione nazionale africana dello Zimbabwe), la guerriglia di opposizione che portò alla caduta dei bianchi in Rhodesia(oggi Zimbabwe).
La politica di Mugabe ha fatto sì che la comunità internazionale applicasse delle sanzioni nei confronti della nazione e la situazione nello Zimbabwe è peggiorata notevolmente negli ultimi vent’anni. Ciò nonostante, le nazioni limitrofe non vedono di buon occhio l’intervento esterno, anche se animato da buone intenzioni, perché potrebbe peggiorare piuttosto che migliorare la situazione. Potrebbe scoppiare una guerra civile ed allagarsi oltre i confini territoriali dello Zimbabwe ed avere un’escalation fuori controllo.
In ultima analisi, la situazione che si creerà dipenderà interamente dalle decisioni di Mugabe. Lui e il suo esercito, dovrebbero rispettare le decisioni del popolo e mettersi da parte.
Repressione e tortura non sono gli strumenti per la legittimare il potere. Il governo, dopotutto, esiste per servire il popolo della nazione e non per schiacciarlo.
L’insicurezza sul cibo crescerà
Un sistema agri-culturista internazionale deve essere “più sostenibile e su scala ridotta, più orientato ai bisogni locali” con meno enfasi su una catena multinazionale di approvvigionamento dominata e orientata alla produzione per l’esportazione
La decisione di qualche mese fa del Presidente Bush di aumentare di 200 milioni di dollari gli aiuti alimentari degli Stati Uniti, e il richiamo del Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon per una maggiore produzione di grano, evidenziano l’enorme e difficile sfida che gli analisti politici mondiali affrontano: un’insicurezza di cibo a lungo termine nelle aree più povere del mondo.
L’ondata di proteste sul cibo che vanno dai Caraibi sino all’Asia ha attirato l’attenzione delle prime pagine di molti notiziari.
Egitto, Camerun, Costa d’Avorio, Senegal, Burkina Faso, Etiopia, Indonesia, Madagascar e Haiti – e queste solo nell’ultimo mese. In Pakistan e Tailandia, truppe sono state dispiegate per proteggere i negozi alimentari dai saccheggi.
Recentemente, il Segretario Generale per la Difesa delle Filippine, Gilberto Teodoro, è stato messo nella condizione di negare le notizie di scontri all’aumentare dei costi del cibo e i prezzi mondiali del riso che hanno toccato nei mesi scorsi un tetto record che durava da 19 anni.
“Non vediamo nessuna minaccia immediata alla sicurezza nazionale, sia legata a questa crisi del riso o a qualcos’altro,” ha detto ad una conferenza stampa, secondo il Philippine Daily Inquirer.
Ma a detta di esperti, delle tendenze profonde nei mercati globali, che non mostrano alcun segnale di diminuire, continueranno ad aumentare i prezzi del cibo.
La domanda per bio-carburanti alternativi al petrolio oramai a $150 al barile continuerà a richiedere la produzione di etanolo ed aumentare il prezzo del granturco. I gusti di una vasta classe di consumatori ricchi in India e Cina cambiano, e ciò continuerà a tenere la domanda di grano alta – per nutrire il bestiame e i bovini per il latte. Sembra proprio che molti paesi manterranno alti i prezzi del riso.
Ed è incombente la minaccia che un po’ alla volta il graduale maggiore impatto del surriscaldamento globale comincerà a ridurre i terreni coltivabili, rendendo la terra più desertica e più probabili le alluvioni.
Il direttore generale dell’Organizzazione per il Cibo e l’Agricoltura delle Nazioni Unite, Jaques Diouf, ha detto che il prezzo del cibo è aumentato del 45% negli ultimi nove mesi, e che “ci sono delle gravi carenze di riso, frumento e granturco.”
Ban Ki-moon ha parlato di una “rapida escalation della crisi di reperibilità del cibo nel mondo,” che, dice, “ha raggiunto proporzioni d’emergenza.”
Funzionari statunitensi dicono che Bush ha deciso di distribuire i 200 milioni di dollari presi da un “Fondo Umanitario governativo” tramite l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale “per soddisfare i bisogni di aiuti alimentari all’estero”.
I soldi andranno a colmare l’ammanco nei programmi statunitensi per le emergenze di aiuti alimentari, causati dal crescere dei prezzi “e usati per soddisfare i bisogni inaspettati di aiuti alimentari in Africa e altrove,” secondo una dichiarazione della Casa Bianca.
Ma 200 milioni di dollari, anche se aggiunti ai 2.1 miliardi di dollari stanziati dall’USAID ogni anno, sono relativamente una cifra insignificante di fronte alle dimensioni del problema.
Per i paesi più poveri, affamati, a basso reddito e con deficit alimentare come l’ Africa, la FAO stima che la loro spesa sull’importazione dei cereali crescerà del 74% quest’anno.
Questo, nonostante l’aumento previsto della produzione di frumento – che l’organizzazione ammette, dipendente dalle condizioni climatiche favorevoli.
E la prospettiva al di là di quest’anno non è più favorevole.
“Abbiamo bisogno […] di un significativo aumento di produttività a lungo termine nella produzione alimentare di frumento,” dice Ban, osservando che gli effetti della crisi stanno eliminando gli effetti positivi di anni di progressi nella riduzione della povertà.
Ha anche chiamato la comunità internazionale a “operare in maniera urgente e combinata al fine di scongiurare implicazioni politiche e di sicurezza più vaste di questa crisi crescente.”
La linea di fondo, dice Katarina Wahlberg, coordinatrice del programma sociale e di politiche economiche del filo-liberale Forum Politico Globale, è che nel corso degli ultimi decenni, come risultato della liberalizzazione del commercio e di politiche di aggiustamento strutturali, paesi in via di sviluppo sono diventati importatori; allo stesso tempo agli stati più fragili mancano i mezzi necessari per intervenire nei mercati alimentari per aiutare i loro cittadini più affamati.
“Cedendo alla pressione dell’Organizzazione del Mercato Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, i paesi poveri hanno smantellato tariffe ed altre barriere al mercato, consentendo a grandi strutture agro-alimentari sovvenzionate da paesi più ricchi di minare la produzione agri-culturale locale,” ha detto Wahlberg.
“In certa misura, aiuti alimentari – nella forma di prodotti sovvenzionati di beni svalutati in paesi ricchi – svolgono anche loro un certo ruolo.
Wahlberg ha detto che il fattore più importante dietro l’attuale impennata di prezzi alimentari è la rapida e crescente domanda di bio-carburanti come etanolo, particolarmente in Europa e negli Stati Uniti.
“Un numero crescente di dirigenti politici e analisti si oppongono fortemente alla conversione di cibo in carburante,” ha detto, insistendo sul fatto che la produzione di bio-carburante “causa danni ambientali e velocizza il surriscaldamento globale”.
“La produzione di etanolo negli Stati Uniti usa grande quantità di granoturco, fertilizzante, pesticidi e acqua, e molti analisti considerano il suo impatto ambientale piuttosto negativo”. In Indonesia, Malesia e Brasile, migliaia di acri di foresta pluviale sono stati distrutti per la coltivazione di olio di palma e canne da zucchero per la produzione di bio-carburanti.
Sebbene autorità statunitensi propagandino alternative al granturco per la produzione di etanolo, diverse critiche hanno messo in rilievo ed ammonito che l’idea è una mal mascherata iniziativa per sostenere i prezzi del grano a favore degli agricoltori americani.
Per far fronte alle sfide a lungo termine, Wahlberg ha detto a United Press International, un sistema agri-culturista internazionale deve essere “più sostenibile e su scala ridotta, più orientato ai bisogni locali” con meno enfasi su una catena multinazionale di approvvigionamento dominata e orientata alla produzione per l’esportazione.
Ha anche aggiunto che i cambiamenti climatici rimangono la più importante sfida a lungo termine.
La decisione di qualche mese fa del Presidente Bush di aumentare di 200 milioni di dollari gli aiuti alimentari degli Stati Uniti, e il richiamo del Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon per una maggiore produzione di grano, evidenziano l’enorme e difficile sfida che gli analisti politici mondiali affrontano: un’insicurezza di cibo a lungo termine nelle aree più povere del mondo.
L’ondata di proteste sul cibo che vanno dai Caraibi sino all’Asia ha attirato l’attenzione delle prime pagine di molti notiziari.
Egitto, Camerun, Costa d’Avorio, Senegal, Burkina Faso, Etiopia, Indonesia, Madagascar e Haiti – e queste solo nell’ultimo mese. In Pakistan e Tailandia, truppe sono state dispiegate per proteggere i negozi alimentari dai saccheggi.
Recentemente, il Segretario Generale per la Difesa delle Filippine, Gilberto Teodoro, è stato messo nella condizione di negare le notizie di scontri all’aumentare dei costi del cibo e i prezzi mondiali del riso che hanno toccato nei mesi scorsi un tetto record che durava da 19 anni.
“Non vediamo nessuna minaccia immediata alla sicurezza nazionale, sia legata a questa crisi del riso o a qualcos’altro,” ha detto ad una conferenza stampa, secondo il Philippine Daily Inquirer.
Ma a detta di esperti, delle tendenze profonde nei mercati globali, che non mostrano alcun segnale di diminuire, continueranno ad aumentare i prezzi del cibo.
La domanda per bio-carburanti alternativi al petrolio oramai a $150 al barile continuerà a richiedere la produzione di etanolo ed aumentare il prezzo del granturco. I gusti di una vasta classe di consumatori ricchi in India e Cina cambiano, e ciò continuerà a tenere la domanda di grano alta – per nutrire il bestiame e i bovini per il latte. Sembra proprio che molti paesi manterranno alti i prezzi del riso.
Ed è incombente la minaccia che un po’ alla volta il graduale maggiore impatto del surriscaldamento globale comincerà a ridurre i terreni coltivabili, rendendo la terra più desertica e più probabili le alluvioni.
Il direttore generale dell’Organizzazione per il Cibo e l’Agricoltura delle Nazioni Unite, Jaques Diouf, ha detto che il prezzo del cibo è aumentato del 45% negli ultimi nove mesi, e che “ci sono delle gravi carenze di riso, frumento e granturco.”
Ban Ki-moon ha parlato di una “rapida escalation della crisi di reperibilità del cibo nel mondo,” che, dice, “ha raggiunto proporzioni d’emergenza.”
Funzionari statunitensi dicono che Bush ha deciso di distribuire i 200 milioni di dollari presi da un “Fondo Umanitario governativo” tramite l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale “per soddisfare i bisogni di aiuti alimentari all’estero”.
I soldi andranno a colmare l’ammanco nei programmi statunitensi per le emergenze di aiuti alimentari, causati dal crescere dei prezzi “e usati per soddisfare i bisogni inaspettati di aiuti alimentari in Africa e altrove,” secondo una dichiarazione della Casa Bianca.
Ma 200 milioni di dollari, anche se aggiunti ai 2.1 miliardi di dollari stanziati dall’USAID ogni anno, sono relativamente una cifra insignificante di fronte alle dimensioni del problema.
Per i paesi più poveri, affamati, a basso reddito e con deficit alimentare come l’ Africa, la FAO stima che la loro spesa sull’importazione dei cereali crescerà del 74% quest’anno.
Questo, nonostante l’aumento previsto della produzione di frumento – che l’organizzazione ammette, dipendente dalle condizioni climatiche favorevoli.
E la prospettiva al di là di quest’anno non è più favorevole.
“Abbiamo bisogno […] di un significativo aumento di produttività a lungo termine nella produzione alimentare di frumento,” dice Ban, osservando che gli effetti della crisi stanno eliminando gli effetti positivi di anni di progressi nella riduzione della povertà.
Ha anche chiamato la comunità internazionale a “operare in maniera urgente e combinata al fine di scongiurare implicazioni politiche e di sicurezza più vaste di questa crisi crescente.”
La linea di fondo, dice Katarina Wahlberg, coordinatrice del programma sociale e di politiche economiche del filo-liberale Forum Politico Globale, è che nel corso degli ultimi decenni, come risultato della liberalizzazione del commercio e di politiche di aggiustamento strutturali, paesi in via di sviluppo sono diventati importatori; allo stesso tempo agli stati più fragili mancano i mezzi necessari per intervenire nei mercati alimentari per aiutare i loro cittadini più affamati.
“Cedendo alla pressione dell’Organizzazione del Mercato Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, i paesi poveri hanno smantellato tariffe ed altre barriere al mercato, consentendo a grandi strutture agro-alimentari sovvenzionate da paesi più ricchi di minare la produzione agri-culturale locale,” ha detto Wahlberg.
“In certa misura, aiuti alimentari – nella forma di prodotti sovvenzionati di beni svalutati in paesi ricchi – svolgono anche loro un certo ruolo.
Wahlberg ha detto che il fattore più importante dietro l’attuale impennata di prezzi alimentari è la rapida e crescente domanda di bio-carburanti come etanolo, particolarmente in Europa e negli Stati Uniti.
“Un numero crescente di dirigenti politici e analisti si oppongono fortemente alla conversione di cibo in carburante,” ha detto, insistendo sul fatto che la produzione di bio-carburante “causa danni ambientali e velocizza il surriscaldamento globale”.
“La produzione di etanolo negli Stati Uniti usa grande quantità di granoturco, fertilizzante, pesticidi e acqua, e molti analisti considerano il suo impatto ambientale piuttosto negativo”. In Indonesia, Malesia e Brasile, migliaia di acri di foresta pluviale sono stati distrutti per la coltivazione di olio di palma e canne da zucchero per la produzione di bio-carburanti.
Sebbene autorità statunitensi propagandino alternative al granturco per la produzione di etanolo, diverse critiche hanno messo in rilievo ed ammonito che l’idea è una mal mascherata iniziativa per sostenere i prezzi del grano a favore degli agricoltori americani.
Per far fronte alle sfide a lungo termine, Wahlberg ha detto a United Press International, un sistema agri-culturista internazionale deve essere “più sostenibile e su scala ridotta, più orientato ai bisogni locali” con meno enfasi su una catena multinazionale di approvvigionamento dominata e orientata alla produzione per l’esportazione.
Ha anche aggiunto che i cambiamenti climatici rimangono la più importante sfida a lungo termine.
Quale futuro per la produzione di cibo nel mondo
di Giorgio Gasperoni
All’incirca una persona ogni otto – più di ottocento milioni di persone – ogni giorno sono affamate. Più di 60 milioni sono bambini. Molti altri sono in una situazione di costante insicurezza per il reperimento del cibo quotidiano. Le immagini di bambini che muoiono di fame nel terzo mondo sono così comuni che spesso hanno un piccolissimo effetto sulla nostra moderna e raffreddata sensibilità. La malnutrizione è così diffusa che raramente fa notizia.
Una fame cronica è la piaga di molte nazioni. Il WFP (il programma per il cibo mondiale) delle N.U. ammette di non essere finanziato a sufficienza per le dimensioni del problema.
Governi generosi ed associazioni umanitarie sembrano impotenti nel fare di più di quello che stanno già facendo per i popoli bisognosi. In tante realtà i problemi, temporaneamente, possono essere mitigati con degli aiuti ma il problema essenziale rimane immutato.
All’inizio del 2008 la crisi globale del cibo è notevolmente peggiorata. Anche i prezzi dei prodotti principali sono cresciuti al di là delle possibilità del potere di acquisto di grandi quantità di gente. Potreste e tumulti sono scoppiati un po’ in tutto il mondo. Molte cause dei problemi sono stati identificati , inclusa l’eccessiva ricollocazione delle aziende produttrici verso i prodotti per l’export piuttosto che per il mercato domestico. Programmi per il Bio-carburante, immagazzinamento di derrate alimentari, l’impatto di speculatori che giocano sul futuro dei prodotti, l’aumento della popolazione, i disastri naturali e il fallimento dei prodotti.
Qualunque siano le cause a breve termine, sta diventando chiaro che la competizione per le risorse mondiali potrebbe raggiungere un punto critico. Devono essere fatti degli sforzi globali concentrandosi principalmente sul miglioramento della produzione e distribuzione. Non è più sufficiente accettare la fame e la miseria come una presenza malevola presso popolazioni meno fortunate. La popolazione mondiale sta crescendo, le richieste non diminuiranno e la scarsità di cibo può influenzare anche le nazioni più sviluppate. La sicurezza del cibo è emersa e forse sarà il primo fra i problemi che preoccuperanno e avranno la nostra attenzione nel 21° secolo.
All’incirca una persona ogni otto – più di ottocento milioni di persone – ogni giorno sono affamate. Più di 60 milioni sono bambini. Molti altri sono in una situazione di costante insicurezza per il reperimento del cibo quotidiano. Le immagini di bambini che muoiono di fame nel terzo mondo sono così comuni che spesso hanno un piccolissimo effetto sulla nostra moderna e raffreddata sensibilità. La malnutrizione è così diffusa che raramente fa notizia.
Una fame cronica è la piaga di molte nazioni. Il WFP (il programma per il cibo mondiale) delle N.U. ammette di non essere finanziato a sufficienza per le dimensioni del problema.
Governi generosi ed associazioni umanitarie sembrano impotenti nel fare di più di quello che stanno già facendo per i popoli bisognosi. In tante realtà i problemi, temporaneamente, possono essere mitigati con degli aiuti ma il problema essenziale rimane immutato.
All’inizio del 2008 la crisi globale del cibo è notevolmente peggiorata. Anche i prezzi dei prodotti principali sono cresciuti al di là delle possibilità del potere di acquisto di grandi quantità di gente. Potreste e tumulti sono scoppiati un po’ in tutto il mondo. Molte cause dei problemi sono stati identificati , inclusa l’eccessiva ricollocazione delle aziende produttrici verso i prodotti per l’export piuttosto che per il mercato domestico. Programmi per il Bio-carburante, immagazzinamento di derrate alimentari, l’impatto di speculatori che giocano sul futuro dei prodotti, l’aumento della popolazione, i disastri naturali e il fallimento dei prodotti.
Qualunque siano le cause a breve termine, sta diventando chiaro che la competizione per le risorse mondiali potrebbe raggiungere un punto critico. Devono essere fatti degli sforzi globali concentrandosi principalmente sul miglioramento della produzione e distribuzione. Non è più sufficiente accettare la fame e la miseria come una presenza malevola presso popolazioni meno fortunate. La popolazione mondiale sta crescendo, le richieste non diminuiranno e la scarsità di cibo può influenzare anche le nazioni più sviluppate. La sicurezza del cibo è emersa e forse sarà il primo fra i problemi che preoccuperanno e avranno la nostra attenzione nel 21° secolo.
SAFARI CINESE IN AFRICA
Impetuosa se non inarrestabile l’avanzata della Cina nel continente africano: oro nero ed altro gli obiettivi primari di Pechino.
di Carlo Alberto Tabacchi
Il “Drago cinese” conquista terreno e mercati in Africa, investendo massicciamente attraverso accordi commerciali, dichiarazioni di partnership e di amicizia e sostegno reciproco; nel frattempo, Stati Uniti, Russia ed Europa restano distratti (ma, per quanto tempo ancora?).
Dal 2001 al 2005 il commercio sino-africano è aumentato del 270%; grazie a questa “iniezione asiatica di aiuti”. Nel 2005 l’Africa ha registrato una crescita del Pil complessivo del 5,2%. Alla base del forte interscambio economico-commerciale sono presenti logiche più pragmatiche che non la fratellanza tra popoli oppressi o la lotta contro tutti gli imperialismi, come spesso venivano sbandierati negli anni ’60 dai responsabili politici comunisti. Pechino investe in Africa per poter colmare la propria sete e fame di petrolio e materie prime. A questo scopo, ha adottato una strategia tanto semplice quanto spregiudicata: impegnarsi senza interferire negli affari interni dei propri clienti e difenderli all’occorrenza davanti alle condanne più o meno esplicite della comunità internazionale; Sudan e Zimbabwe rappresentano esempi alquanto evidenti di tale prassi.
Quindi, non importa verificare l’etica delle Leadership alla guida degli esecutivi, non si sottilizza sulla tutela dei diritti umani o sul tasso di corruzione: si guarda praticamente alla convenienza economica, alle concessioni di appalti per progetti infrastrutturali, si mira essenzialmente alle ricchezze minerarie e non. Ad esempio, tra i primi 10 fornitori petroliferi di Pechino, nel 2005 figurano l’Angola (2°), Sudan (7°), Congo Brazzaville (8°), Guinea Equatoriale (9°): tutti paesi che, se non allergici allo stato di diritto, con la democrazia hanno poco a che fare. Come si evince, gli interessi reciproci risultano piuttosto intensi: da un lato un vasto paese assetato di energia e materie prime, dall’altro un continente un po’ dimenticato che custodisce proprio ciò che oggi serve alla Cina: oltre al petrolio, gas, rame, uranio, alluminio, manganese, legname.
Non dimentichiamo che Pechino, vedendo la grave instabilità petrolifera del Medio Oriente, area di influenza e scontro tra Stati Uniti e Russia, ha cominciato dagli anni ’90 ad importare ingenti quantitativi di greggio africano. La diplomazia petrolifera di Pechino ha due targets precisi: nel breve periodo, assicurare rifornimenti per la dinamica crescita interna; nel lungo periodo, posizionarsi come attore globale nei mercati internazionali. Pertanto, la Cina rimane l’acquirente privilegiato ed ideale delle risorse naturali africane: salda subito in contanti e vende ai diversi governi locali tecnologie, know-how industriale ed armi (generalmente leggere).
Altro dossier scottante è che la Cina sostiene pubblicamente 3 candidati – Nigeria in primis, Egitto e Sud Africa – per un seggio permanente presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, pur riconoscendo che la decisione finale resta nelle mani dell’Unione Africana.
Sotto l’aspetto più squisitamente diplomatico, solo 5 nazioni africane mantengono attualmente relazioni ufficiali con Taipei (capitale di Taiwan).
Come accennato prima, non si può trascurare la legittimazione da parte del gigante asiatico, di abusi e violazioni nel settore dei diritti umani, nelle pratiche antidemocratiche e nella vendita di armi ad “amici poco affidabili” come Sudan e Zimbabwe, soggetti ad embargo da parte degli Stati Uniti ed Unione Europea. Per Pechino non esistono espressioni colorite ed ormai famose come “rogue countries” oppure “axes of evil” che possono contraddistinguere alcune nazioni africane.
In conclusione, mentre l’Unione Europea rimane dormiente o pericolosamente assente, l’approccio cinese persegue 3 fattori piuttosto chiari: nuovi mercati ed opportunità di investimento, diplomazia e cooperazione di sviluppo ed una partnership strategica.
di Carlo Alberto Tabacchi
Il “Drago cinese” conquista terreno e mercati in Africa, investendo massicciamente attraverso accordi commerciali, dichiarazioni di partnership e di amicizia e sostegno reciproco; nel frattempo, Stati Uniti, Russia ed Europa restano distratti (ma, per quanto tempo ancora?).
Dal 2001 al 2005 il commercio sino-africano è aumentato del 270%; grazie a questa “iniezione asiatica di aiuti”. Nel 2005 l’Africa ha registrato una crescita del Pil complessivo del 5,2%. Alla base del forte interscambio economico-commerciale sono presenti logiche più pragmatiche che non la fratellanza tra popoli oppressi o la lotta contro tutti gli imperialismi, come spesso venivano sbandierati negli anni ’60 dai responsabili politici comunisti. Pechino investe in Africa per poter colmare la propria sete e fame di petrolio e materie prime. A questo scopo, ha adottato una strategia tanto semplice quanto spregiudicata: impegnarsi senza interferire negli affari interni dei propri clienti e difenderli all’occorrenza davanti alle condanne più o meno esplicite della comunità internazionale; Sudan e Zimbabwe rappresentano esempi alquanto evidenti di tale prassi.
Quindi, non importa verificare l’etica delle Leadership alla guida degli esecutivi, non si sottilizza sulla tutela dei diritti umani o sul tasso di corruzione: si guarda praticamente alla convenienza economica, alle concessioni di appalti per progetti infrastrutturali, si mira essenzialmente alle ricchezze minerarie e non. Ad esempio, tra i primi 10 fornitori petroliferi di Pechino, nel 2005 figurano l’Angola (2°), Sudan (7°), Congo Brazzaville (8°), Guinea Equatoriale (9°): tutti paesi che, se non allergici allo stato di diritto, con la democrazia hanno poco a che fare. Come si evince, gli interessi reciproci risultano piuttosto intensi: da un lato un vasto paese assetato di energia e materie prime, dall’altro un continente un po’ dimenticato che custodisce proprio ciò che oggi serve alla Cina: oltre al petrolio, gas, rame, uranio, alluminio, manganese, legname.
Non dimentichiamo che Pechino, vedendo la grave instabilità petrolifera del Medio Oriente, area di influenza e scontro tra Stati Uniti e Russia, ha cominciato dagli anni ’90 ad importare ingenti quantitativi di greggio africano. La diplomazia petrolifera di Pechino ha due targets precisi: nel breve periodo, assicurare rifornimenti per la dinamica crescita interna; nel lungo periodo, posizionarsi come attore globale nei mercati internazionali. Pertanto, la Cina rimane l’acquirente privilegiato ed ideale delle risorse naturali africane: salda subito in contanti e vende ai diversi governi locali tecnologie, know-how industriale ed armi (generalmente leggere).
Altro dossier scottante è che la Cina sostiene pubblicamente 3 candidati – Nigeria in primis, Egitto e Sud Africa – per un seggio permanente presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, pur riconoscendo che la decisione finale resta nelle mani dell’Unione Africana.
Sotto l’aspetto più squisitamente diplomatico, solo 5 nazioni africane mantengono attualmente relazioni ufficiali con Taipei (capitale di Taiwan).
Come accennato prima, non si può trascurare la legittimazione da parte del gigante asiatico, di abusi e violazioni nel settore dei diritti umani, nelle pratiche antidemocratiche e nella vendita di armi ad “amici poco affidabili” come Sudan e Zimbabwe, soggetti ad embargo da parte degli Stati Uniti ed Unione Europea. Per Pechino non esistono espressioni colorite ed ormai famose come “rogue countries” oppure “axes of evil” che possono contraddistinguere alcune nazioni africane.
In conclusione, mentre l’Unione Europea rimane dormiente o pericolosamente assente, l’approccio cinese persegue 3 fattori piuttosto chiari: nuovi mercati ed opportunità di investimento, diplomazia e cooperazione di sviluppo ed una partnership strategica.
Era Post-ideologica della Globalizzazione
Esperti a confronto
Prof. Antonio Saccà
Si è tenuto a Roma presso la sede della “Interreligious and International Federation for World Peace”, un convegno sulle prospettive dell’era post-ideologica della globalizzazione. Che vi sia bisogno di fermarci a considerare l’andamento del mondo, per così dire, appare ormai indispensabile, giacché spesso sentiamo di correre all’impazzata, perfino, di precipitare. Una prima riflessione, a riguardo, nel convegno, l’ha svolta Antonio Stango, Segretario Generale dell’Italian Helsinki Commette, impegnato nella difesa dei diritti umani. Per Stango oggi l’uomo tende a uno sviluppo aberrante, intacca anche i fattori primari della vita, l’aria, l’acqua, perfino. C’è un uso aberrante, si diceva, di automobili, di traffico incontrollato, non c’è un’economia abbinata all’ecologia. In quanto alla “risorsa” uomo, ormai vi è il riconoscimento della difesa dei diritti umani. Vi sono degli organismi sovrannazionali che hanno competenze superiori agli stati stessi. Fino a pochi decenni fa c’erano solo i tribunali dei vincitori che giudicavano i vinti. Spesso, tuttavia, i criminali furono risparmiati. Il Segretario Generale dell’Italian Helsinki Commette fa l’esempio dello stalinismo che non fu giudicato solo perché si riteneva che la Russia avesse vinto la Seconda Guerra Mondiale. Il 17 luglio 1998 fu approvato lo Statuto della Corte Penale Internazionale. Crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra sono l’oggetto di tale struttura. Stango evidenzia che può raggiungersi la potenza economica senza rispetto dei diritti umani: è il caso della Cina, alla quale non si riesce di contrapporsi per le sue dimensioni economiche, militari. Lo stesso per l’Iran, che Stango giudica il peggiore regime del mondo odierno. Per quel che riguarda l’Italia, considerava problematiche, difettose le condizioni della Giustizia penale e civile, drammatico il sovraffollamento delle carceri e la mancanza di operatori nazionali per la reintegrazione del carcerato, dispendiosa l’ospedalizzazione.
L’intervento del Professor Giovanni Palmerio, docente di economia alla LUMSA(Libera Università Maria Ss. Assunta di Roma), era specificamente rivolto al campo economico. Palmerio iniziava con lo smentire alcuni dati ritenuti scontati, certi. Comunemente si dice che Cina e India tra dieci anni saranno grandi potenze mondiali. I mass media lo sottolineano, indicando che il basso costo del lavoro permette loro di esportare tanto. Ma, proseguiva Palmerio, il Paese che occupa il primo posto al mondo per esportazione è la Germania, prodotti a tecnologia avanzata, dopo viene l’Italia mentre gli USA esportano armi e finanza. Dal 1972 fino ad oggi importano più di quanto esportano. Gli USA non hanno problemi di pagare in quanto stampano e creano i dollari. Ma il debito pubblico americano è enorme. La metà è posseduto da residenti e l’altra, in una larga quota, è posseduta da banche centrali straniere. Il Giappone, che ne detiene maggiormente, compra dollari per evitare la svalutazione, inoltre aiuta i paesi del sud est asiatico (Vietnam, Cambogia…). Molte imprese costruttrici sono giapponesi. Le opere riguardano infrastrutture, ad esempio reti fognarie, in questo campo sono attive ditte tedesche ed italiane. I giapponesi non vogliono ammettere il male fatto a tali paesi, ma li aiutano molto. Il Giappone e la Germania hanno un tenore di vita elevato e Welfare efficiente. Non hanno ambizione geopolitica e militare. Permangono, però, nell’insieme planetario squilibri gravi, aggiungeva Palmerio. Alcune aree restano in grande depressione. In specie, l’Africa. La depressione dipende dal livello culturale e dal bisogno di investimenti pesanti (fogne, reti idriche, reti elettriche…), altri paesi necessitano solo di investimenti leggeri. Ai paesi sviluppati occorrono cereali e petrolio. Quest’ultimo aumenta di costo anche perché cresce l’uso. Detto tutto questo, per superare gli squilibri occorre che i paesi sviluppati investano più risorse per aiutare quelli non sviluppati.
Il Prof. Antonio Saccà nel suo intervento, ha espresso una sua analisi sulla situazione complicata in cui siamo pervenuti e l’inadeguatezza dei rimedi suggeriti per risolvere l’eccesso di importazioni dai paesi che le producono a basso costo, pericolo reale, quand’anche qualche paese sviluppato è capace di esportare. Si è parlato ad esempio alla tassazione dei prodotti cinesi. Ma i cinesi resterebbero a guardare? Non aumenteremo il mercato nero? Non bloccheremmo merci cinesi prodotte con capitali occidentali? Il Prof. Saccà, diceva, che siamo in presenza della contro-globalizzazione. Pensavamo di impossessarci della Cina e della Russia, immettendo i capitali e usando la loro forza lavoro per avere materie prime e forza lavoro a basso costo. La globalizzazione sembrava l’Eldorado, produrre a bassissimi costi in Cina ed esportare in America per avere profitti immensi; ottenere petrolio o gas a poco prezzo in Russia…
Ma è avvenuto l’imprevisto, i paesi che ricevevano capitali, come la Cina, iniziarono a produrre per i “propri” interessi, la Russia impedì ai capitali esteri di neocolonizzarla. E’ questa la contro-
globalizzazione. Delocalizziamo imprese e capitali ma non necessariamente a nostro vantaggio.
Le nostre economie cominciano a diventare irregolari, tentano la via delle attività speculative, con gravi rischi per gli investitori, forzano i consumi e l’indebitamento dei consumatori, precarizzano il lavoro per non pagare ferie, assistenze, licenziamenti, in paesi come gli Stati Uniti si giunge a una politica che sbocca nella guerra, del resto certi armamenti, tipo lo “scudo spaziale” non vengono concepite e realizzate per venderle. A tal punto, se vogliamo evitare la guerra e la lotta sociale, Saccà ritiene indispensabile: la ricerca di energie alternative per ovviare all’accanimento del possesso del petrolio che finisce con il pervenire al conflitto militare; ed è necessario che i lavoratori non continuino a chiedere miglioramenti al capitalista, il quale, con una immane disponibilità di mano d’opera, nazionale e straniera, legale e illegale, e in una situazione di competitività strenua, nulla vuole e, in parte, nulla può concedere. L’estremo pericolo per le nostre economie, concludeva, è la criminalizzazione del profitto, il profitto criminale.
L’intervento conclusivo di Giuseppe Calì, presidente dell’Interreligious and International Federation for World Peace-italia, riportava la problematica economica a quella etica sul fondamento dei principi della Federazione. Calì evidenziava che senza un indirizzo etico l’economia precipita nell’individualismo edonistico. Al dunque, se vogliamo seguire il modello familiare, solidale avremo un certo modello economico, se ci volgiamo all’egoismo avremo un’altra specie di economia. E’ la scelta morale che precede i modelli operativi. Calì considerava opportuno considerare modelli economici partecipativi e solidali. Senza la determinazione alla solidarietà mondiale difficile o impossibile risolvere le crisi. Ovviamente, in forme più riferibili all’UPF, sosteneva Calì, occorrerebbe un rinnovamento della spiritualità e del riconoscimento di costituire ”un’unica famiglia umana di Dio”.
E’ il caso di aggiungere che vi è stata una intensa discussione problematica.
Prof. Antonio Saccà
Si è tenuto a Roma presso la sede della “Interreligious and International Federation for World Peace”, un convegno sulle prospettive dell’era post-ideologica della globalizzazione. Che vi sia bisogno di fermarci a considerare l’andamento del mondo, per così dire, appare ormai indispensabile, giacché spesso sentiamo di correre all’impazzata, perfino, di precipitare. Una prima riflessione, a riguardo, nel convegno, l’ha svolta Antonio Stango, Segretario Generale dell’Italian Helsinki Commette, impegnato nella difesa dei diritti umani. Per Stango oggi l’uomo tende a uno sviluppo aberrante, intacca anche i fattori primari della vita, l’aria, l’acqua, perfino. C’è un uso aberrante, si diceva, di automobili, di traffico incontrollato, non c’è un’economia abbinata all’ecologia. In quanto alla “risorsa” uomo, ormai vi è il riconoscimento della difesa dei diritti umani. Vi sono degli organismi sovrannazionali che hanno competenze superiori agli stati stessi. Fino a pochi decenni fa c’erano solo i tribunali dei vincitori che giudicavano i vinti. Spesso, tuttavia, i criminali furono risparmiati. Il Segretario Generale dell’Italian Helsinki Commette fa l’esempio dello stalinismo che non fu giudicato solo perché si riteneva che la Russia avesse vinto la Seconda Guerra Mondiale. Il 17 luglio 1998 fu approvato lo Statuto della Corte Penale Internazionale. Crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra sono l’oggetto di tale struttura. Stango evidenzia che può raggiungersi la potenza economica senza rispetto dei diritti umani: è il caso della Cina, alla quale non si riesce di contrapporsi per le sue dimensioni economiche, militari. Lo stesso per l’Iran, che Stango giudica il peggiore regime del mondo odierno. Per quel che riguarda l’Italia, considerava problematiche, difettose le condizioni della Giustizia penale e civile, drammatico il sovraffollamento delle carceri e la mancanza di operatori nazionali per la reintegrazione del carcerato, dispendiosa l’ospedalizzazione.
L’intervento del Professor Giovanni Palmerio, docente di economia alla LUMSA(Libera Università Maria Ss. Assunta di Roma), era specificamente rivolto al campo economico. Palmerio iniziava con lo smentire alcuni dati ritenuti scontati, certi. Comunemente si dice che Cina e India tra dieci anni saranno grandi potenze mondiali. I mass media lo sottolineano, indicando che il basso costo del lavoro permette loro di esportare tanto. Ma, proseguiva Palmerio, il Paese che occupa il primo posto al mondo per esportazione è la Germania, prodotti a tecnologia avanzata, dopo viene l’Italia mentre gli USA esportano armi e finanza. Dal 1972 fino ad oggi importano più di quanto esportano. Gli USA non hanno problemi di pagare in quanto stampano e creano i dollari. Ma il debito pubblico americano è enorme. La metà è posseduto da residenti e l’altra, in una larga quota, è posseduta da banche centrali straniere. Il Giappone, che ne detiene maggiormente, compra dollari per evitare la svalutazione, inoltre aiuta i paesi del sud est asiatico (Vietnam, Cambogia…). Molte imprese costruttrici sono giapponesi. Le opere riguardano infrastrutture, ad esempio reti fognarie, in questo campo sono attive ditte tedesche ed italiane. I giapponesi non vogliono ammettere il male fatto a tali paesi, ma li aiutano molto. Il Giappone e la Germania hanno un tenore di vita elevato e Welfare efficiente. Non hanno ambizione geopolitica e militare. Permangono, però, nell’insieme planetario squilibri gravi, aggiungeva Palmerio. Alcune aree restano in grande depressione. In specie, l’Africa. La depressione dipende dal livello culturale e dal bisogno di investimenti pesanti (fogne, reti idriche, reti elettriche…), altri paesi necessitano solo di investimenti leggeri. Ai paesi sviluppati occorrono cereali e petrolio. Quest’ultimo aumenta di costo anche perché cresce l’uso. Detto tutto questo, per superare gli squilibri occorre che i paesi sviluppati investano più risorse per aiutare quelli non sviluppati.
Il Prof. Antonio Saccà nel suo intervento, ha espresso una sua analisi sulla situazione complicata in cui siamo pervenuti e l’inadeguatezza dei rimedi suggeriti per risolvere l’eccesso di importazioni dai paesi che le producono a basso costo, pericolo reale, quand’anche qualche paese sviluppato è capace di esportare. Si è parlato ad esempio alla tassazione dei prodotti cinesi. Ma i cinesi resterebbero a guardare? Non aumenteremo il mercato nero? Non bloccheremmo merci cinesi prodotte con capitali occidentali? Il Prof. Saccà, diceva, che siamo in presenza della contro-globalizzazione. Pensavamo di impossessarci della Cina e della Russia, immettendo i capitali e usando la loro forza lavoro per avere materie prime e forza lavoro a basso costo. La globalizzazione sembrava l’Eldorado, produrre a bassissimi costi in Cina ed esportare in America per avere profitti immensi; ottenere petrolio o gas a poco prezzo in Russia…
Ma è avvenuto l’imprevisto, i paesi che ricevevano capitali, come la Cina, iniziarono a produrre per i “propri” interessi, la Russia impedì ai capitali esteri di neocolonizzarla. E’ questa la contro-
globalizzazione. Delocalizziamo imprese e capitali ma non necessariamente a nostro vantaggio.
Le nostre economie cominciano a diventare irregolari, tentano la via delle attività speculative, con gravi rischi per gli investitori, forzano i consumi e l’indebitamento dei consumatori, precarizzano il lavoro per non pagare ferie, assistenze, licenziamenti, in paesi come gli Stati Uniti si giunge a una politica che sbocca nella guerra, del resto certi armamenti, tipo lo “scudo spaziale” non vengono concepite e realizzate per venderle. A tal punto, se vogliamo evitare la guerra e la lotta sociale, Saccà ritiene indispensabile: la ricerca di energie alternative per ovviare all’accanimento del possesso del petrolio che finisce con il pervenire al conflitto militare; ed è necessario che i lavoratori non continuino a chiedere miglioramenti al capitalista, il quale, con una immane disponibilità di mano d’opera, nazionale e straniera, legale e illegale, e in una situazione di competitività strenua, nulla vuole e, in parte, nulla può concedere. L’estremo pericolo per le nostre economie, concludeva, è la criminalizzazione del profitto, il profitto criminale.
L’intervento conclusivo di Giuseppe Calì, presidente dell’Interreligious and International Federation for World Peace-italia, riportava la problematica economica a quella etica sul fondamento dei principi della Federazione. Calì evidenziava che senza un indirizzo etico l’economia precipita nell’individualismo edonistico. Al dunque, se vogliamo seguire il modello familiare, solidale avremo un certo modello economico, se ci volgiamo all’egoismo avremo un’altra specie di economia. E’ la scelta morale che precede i modelli operativi. Calì considerava opportuno considerare modelli economici partecipativi e solidali. Senza la determinazione alla solidarietà mondiale difficile o impossibile risolvere le crisi. Ovviamente, in forme più riferibili all’UPF, sosteneva Calì, occorrerebbe un rinnovamento della spiritualità e del riconoscimento di costituire ”un’unica famiglia umana di Dio”.
E’ il caso di aggiungere che vi è stata una intensa discussione problematica.
I Cinquanta anni del Tibet sotto la Cina
1959 – 2008
di Geshe Gedun Tharchin
I tibetani, per antica tradizione, non penserebbero mai di essere cinesi, né potrebbero mai immaginare che il Tibet sia parte della Cina
Nell’anno 2008 la Cina ospita i giochi olimpici, con la promessa di una maggior tutela dei diritti umani all’interno del paese. Il Tibet è divenuto il problema principale a livello internazionale, in quanto tale nazione è stata occupata integralmente dalla Cina dal 1959. A causa del massiccio e rapido flusso di immigrazione cinese nell’area tibetana, i tibetani stessi sono divenuti una minoranza etnica nello stesso Tibet e si prospetta ora il rischio della perdita della loro cultura e della loro identità nazionale. L’unica possibilità di salvezza per il Tibet è che le olimpiadi del 2008 possano condizionare il governo cinese, spingendolo a garantire maggiore rispetto per la cultura e il popolo tibetani.
Quindi, l’intero mondo sta osservando le autorità cinesi riguardo alla promessa fatta dal governo cinese in cambio della possibilità di ospitare a Pechino i giochi olimpici del 2008. Ma mentre il momento in cui questi si svolgeranno si avvicina, la repressione in Tibet si sta ancora inasprendo, e pertanto molte persone in tutto il mondo hanno cercato di intervenire nella situazione ancora irrisolta tra il Tibet e la Cina. In fine, i tibetani sia all’interno che all’esterno del patria hanno perso la pazienza, manifestando la loro esasperazione il 14 marzo 2008.
La verità è che il Tibet e la Cina sono stati paesi confinanti per secoli. Durante il VII e l’VIII secolo le dinastie tibetane inflissero alla Cina una dura sconfitta. La principessa Wen Chen sposò il sovrano tibetano Song Tsen Gam Po e per sua volontà venne realizzato a Lhasa il tempio Ra Mo Che. Vi è a Lhasa un altro tempio edificato per volontà di una principessa nepalese che sposò anch’ella il medesimo re. In quel periodo sia il dinasta della Cina che quello del Nepal erano orgogliosi che le loro principesse avessero sposato il re del Tibet, anche perché ciò assicurava sicurezza per i loro stati.
Successivamente un’altra principessa cinese sposò un re del Tibet. In queste epoche le relazioni fra i due paesi si basavano sul reciproco rispetto e sulla valutazione delle rispettive potenze militari. Come testimonianza del loro comune accordo, vennero eretti tre pilastri lapidei in tre luoghi differenti: presso la capitale del Tibet, presso la capitale della Cina e lungo il confine tra i due stati. Essi recavano iscritti epigrafi concernenti i sentimenti di reciproca solidarietà tra i due paesi. Un verso molto famoso dei pilastri recita: “rGYA rGYA YUL NA sKYID, BOD BOD YUL NA sKYID”, che significa “I Cinesi sono felici in Cina e i Tibetani sono felici in Tibet”. Sulla base di questo evento storico i tibetani hanno sempre sostenuto di non essere cinesi e possedere la propria identità nazionale, differente da quella cinese.
La prima invasione del Tibet fu compiuta da Genghis Khan nel 1209 e in un secondo momento il Khan mongolo assunse il comando dell’Impero Cinese e i mongoli ereditarono il lignaggio della dinastia cinese. Più tardi, quando i cinesi liberarono dai mongoli il loro impero, riacquisendone il controllo, la Cina iniziò a rivendicare tutti i territori che erano stati sotto il dominio mongolo, affermando che fossero suoi! Questa è l’unica ragione per cui la Cina sostiene tuttora che il Tibet le appartenga.
I tibetani, per antica tradizione, non penserebbero mai di essere cinesi, né potrebbero mai immaginare che il Tibet sia parte della Cina: questo è ciò che prova istintivamente il popolo tibetano. Quindi penso che la lotta per la liberazione del Tibet sia una tendenza naturale della gente tibetana.
La storia ha provato che i tibetani non possono essere felici sotto le autorità cinesi, né i cinesi possono essere felici sotto un governo tibetano. Il conflitto si è protratto nei secoli ed è parte della vicenda storica di entrambe le nazioni. Questa battaglia deve andare fino in fondo, portando ad una vittoria assoluta o ad una sconfitta assoluta: in altre parole, questa battaglia durerà finché vi saranno tibetani. È una questione che sarà portata avanti di generazione in generazione, in quanto parte della storia umana.
Il dialogo può essere la soluzione? Esiste un grande ostacolo tradizionale perché la Cina e il Tibet abbiano un dialogo costruttivo. C’è un detto tibetano che afferma: “la Cina fallisce nei suoi intenti per eccesso di sospetto e il Tibet a causa della troppa aspettativa”. L’attuale dialogo sino-tibetano è iniziato con l’incontro tra Mao Zedong e il Dalai Lama a Pechino nel 1954 ed è proseguito fino al 2007 senza raggiungere gli obiettivi di nessuna delle due parti. Quindi è evidente che il detto era vero. Sembra quindi inutile cercare di risolvere il conflitto sino-tibetano attraverso il dialogo.
Forse una possibilità potrebbe essere che lo sviluppo economico-politico possa provocare un cambiamento radicale nello status sociale delle persone tibetane nel futuro, tuttavia non può modificare la storia passata del Tibet.
Resta un’altra questione importante, concernente le famiglie di rifugiati tibetani che hanno vissuto in India o in Nepal negli ultimi 50 anni sotto l’Amministrazione Centrale Tibetana di Dharamsala: quale sarà il loro futuro? Devono continuare ad aspettare che il Tibet divenga libero rinunciando ai diritti derivanti dal possesso della cittadinanza locale o dovrebbero integrarsi con i cittadini locali?
di Geshe Gedun Tharchin
I tibetani, per antica tradizione, non penserebbero mai di essere cinesi, né potrebbero mai immaginare che il Tibet sia parte della Cina
Nell’anno 2008 la Cina ospita i giochi olimpici, con la promessa di una maggior tutela dei diritti umani all’interno del paese. Il Tibet è divenuto il problema principale a livello internazionale, in quanto tale nazione è stata occupata integralmente dalla Cina dal 1959. A causa del massiccio e rapido flusso di immigrazione cinese nell’area tibetana, i tibetani stessi sono divenuti una minoranza etnica nello stesso Tibet e si prospetta ora il rischio della perdita della loro cultura e della loro identità nazionale. L’unica possibilità di salvezza per il Tibet è che le olimpiadi del 2008 possano condizionare il governo cinese, spingendolo a garantire maggiore rispetto per la cultura e il popolo tibetani.
Quindi, l’intero mondo sta osservando le autorità cinesi riguardo alla promessa fatta dal governo cinese in cambio della possibilità di ospitare a Pechino i giochi olimpici del 2008. Ma mentre il momento in cui questi si svolgeranno si avvicina, la repressione in Tibet si sta ancora inasprendo, e pertanto molte persone in tutto il mondo hanno cercato di intervenire nella situazione ancora irrisolta tra il Tibet e la Cina. In fine, i tibetani sia all’interno che all’esterno del patria hanno perso la pazienza, manifestando la loro esasperazione il 14 marzo 2008.
La verità è che il Tibet e la Cina sono stati paesi confinanti per secoli. Durante il VII e l’VIII secolo le dinastie tibetane inflissero alla Cina una dura sconfitta. La principessa Wen Chen sposò il sovrano tibetano Song Tsen Gam Po e per sua volontà venne realizzato a Lhasa il tempio Ra Mo Che. Vi è a Lhasa un altro tempio edificato per volontà di una principessa nepalese che sposò anch’ella il medesimo re. In quel periodo sia il dinasta della Cina che quello del Nepal erano orgogliosi che le loro principesse avessero sposato il re del Tibet, anche perché ciò assicurava sicurezza per i loro stati.
Successivamente un’altra principessa cinese sposò un re del Tibet. In queste epoche le relazioni fra i due paesi si basavano sul reciproco rispetto e sulla valutazione delle rispettive potenze militari. Come testimonianza del loro comune accordo, vennero eretti tre pilastri lapidei in tre luoghi differenti: presso la capitale del Tibet, presso la capitale della Cina e lungo il confine tra i due stati. Essi recavano iscritti epigrafi concernenti i sentimenti di reciproca solidarietà tra i due paesi. Un verso molto famoso dei pilastri recita: “rGYA rGYA YUL NA sKYID, BOD BOD YUL NA sKYID”, che significa “I Cinesi sono felici in Cina e i Tibetani sono felici in Tibet”. Sulla base di questo evento storico i tibetani hanno sempre sostenuto di non essere cinesi e possedere la propria identità nazionale, differente da quella cinese.
La prima invasione del Tibet fu compiuta da Genghis Khan nel 1209 e in un secondo momento il Khan mongolo assunse il comando dell’Impero Cinese e i mongoli ereditarono il lignaggio della dinastia cinese. Più tardi, quando i cinesi liberarono dai mongoli il loro impero, riacquisendone il controllo, la Cina iniziò a rivendicare tutti i territori che erano stati sotto il dominio mongolo, affermando che fossero suoi! Questa è l’unica ragione per cui la Cina sostiene tuttora che il Tibet le appartenga.
I tibetani, per antica tradizione, non penserebbero mai di essere cinesi, né potrebbero mai immaginare che il Tibet sia parte della Cina: questo è ciò che prova istintivamente il popolo tibetano. Quindi penso che la lotta per la liberazione del Tibet sia una tendenza naturale della gente tibetana.
La storia ha provato che i tibetani non possono essere felici sotto le autorità cinesi, né i cinesi possono essere felici sotto un governo tibetano. Il conflitto si è protratto nei secoli ed è parte della vicenda storica di entrambe le nazioni. Questa battaglia deve andare fino in fondo, portando ad una vittoria assoluta o ad una sconfitta assoluta: in altre parole, questa battaglia durerà finché vi saranno tibetani. È una questione che sarà portata avanti di generazione in generazione, in quanto parte della storia umana.
Il dialogo può essere la soluzione? Esiste un grande ostacolo tradizionale perché la Cina e il Tibet abbiano un dialogo costruttivo. C’è un detto tibetano che afferma: “la Cina fallisce nei suoi intenti per eccesso di sospetto e il Tibet a causa della troppa aspettativa”. L’attuale dialogo sino-tibetano è iniziato con l’incontro tra Mao Zedong e il Dalai Lama a Pechino nel 1954 ed è proseguito fino al 2007 senza raggiungere gli obiettivi di nessuna delle due parti. Quindi è evidente che il detto era vero. Sembra quindi inutile cercare di risolvere il conflitto sino-tibetano attraverso il dialogo.
Forse una possibilità potrebbe essere che lo sviluppo economico-politico possa provocare un cambiamento radicale nello status sociale delle persone tibetane nel futuro, tuttavia non può modificare la storia passata del Tibet.
Resta un’altra questione importante, concernente le famiglie di rifugiati tibetani che hanno vissuto in India o in Nepal negli ultimi 50 anni sotto l’Amministrazione Centrale Tibetana di Dharamsala: quale sarà il loro futuro? Devono continuare ad aspettare che il Tibet divenga libero rinunciando ai diritti derivanti dal possesso della cittadinanza locale o dovrebbero integrarsi con i cittadini locali?
Perché il Tibet viva
di Piero Verni
Il problema tibetano è molto semplice, pur nella sua drammatica complessità. Il dominio cinese, in oltre sessant’anni di repressioni, non è riuscito a normalizzare il popolo tibetano né all’interno né all’esterno del Tibet
In queste ore nelle strade di Lhasa, pattugliata da oltre 20.000 soldati cinesi e da una cinquantina di blindati dell’Armata Rossa, decine e decine di prigionieri politici tibetani sfilano sui carri dell’esercito di Pechino ammanettati e a testa bassa mentre dagli altoparlanti una voce metallica intima a quanti non sono stati ancora arrestati di consegnarsi prima che sia troppo tardi. E sempre in queste ore sono stati affissi sui muri della cosiddetta Regione Autonoma del Tibet e delle contee e aree tibetane incorporate nelle province del Sichuan e del Gansu, manifesti in cui si avverte la popolazione che ogni assembramento verrà immediatamente sciolto con la forza dalla Polizia Armata che ha l’ordine di sparare sulla folla.
Questo è la situazione del Tibet odierno, governato da quella Cina che si sta gioiosamente preparando a celebrare la sua parata olimpica pronta ad incassare il plauso e la meraviglia del mondo per le sue conquiste e le sue scintillanti vetrine. Quella Cina autorefenrenziale che parla di sé come di una “società armoniosa” che grazie al “socialismo di mercato” è proiettata verso un futuro di superpotenza economica e grazie alla forza dei suoi muscoli (pochi giorni or sono Pechino ha aumentato del 18% il suo già oneroso budget per le spese militari) anche di superpotenza politica.
In un’intervista rilasciata alla giornalista Ursula Gauthier e pubblicata in gennaio dal settimanale francese le Nouvel Observateur, il Dalai Lama affermava che nel corso dell’ultimo incontro che i suoi inviati avevano avuto nel giugno 2007 con alcuni dirigenti cinesi, questi ultimi avevano “puramente e semplicemente negato l’esistenza di un problema tibetano”.
Adesso quei dirigenti dovranno ricredersi. Adesso, che a Lhasa sono esplose incontenibili la rabbia, la frustrazione, il furore delle donne e degli uomini del Tibet esasperati da oltre cinquant’anni di giogo coloniale brutale e inflessibile. Adesso, che a Labrang, Ngaba, Ganja, Machu e in altre località del Tibet storico si susseguono manifestazioni e proteste invariabilmente represse nel sangue. Adesso, che ovunque nel mondo si manifesta la disperazione del popolo tibetano.
L’orrore della carneficina di Lhasa. L’orrore delle fotografie dei cadaveri degli assassinati dalle pallottole cinesi sparate ad altezza d’uomo. L’orrore dei rastrellamenti, delle incarcerazioni indiscriminate, delle torture. Tutto questo dimostra che esiste un problema tibetano. Esiste per Pechino ma esiste anche per la diplomazia internazionale che fatica a rimanere muta, cieca e sorda (come certamente vorrebbe) di fronte alla tragedia che si sta consumando sul Tetto del Mondo.
E il problema tibetano è molto semplice, pur nella sua drammatica complessità. Il dominio cinese, in oltre sessant’anni di repressioni, non è riuscito a normalizzare il popolo tibetano né all’interno né all’esterno del Tibet. Le immagini che in questi giorni stanno circolando sui circuiti televisivi e sulla Rete, ci fanno vedere come la protesta sia portata avanti principalmente da giovani e giovanissimi. Che si tratti di laici o di monaci, si tratta sempre di persone che non erano nemmeno nate nel 1959. Che nonostante tutta la retorica e la disinformazione cinese continuano ad essere fedeli all’identità tibetana e non si piegano al pugno di ferro di Pechino. Che continuano a sperare e a lottare per un Tibet libero. Per rangzen, il termine tibetano che designa l’indipendenza così come quello sanscrito swaraj di gandhiana memoria.
Non a caso “Rise up, resist, return” (Insorgi, Resisti, Ritorna) è lo slogan principale di quella “Marcia Verso il Tibet” che cinque organizzazioni della diaspora tibetana hanno fatto partire da Dharamsala il 10 marzo e che attualmente, dopo un primo stop provocato dalla polizia indiana che il 13 marzo aveva arrestato i primi cento marciatori, è ripresa e proprio oggi ha lasciato lo stato indiano dell’Himachal Pradesh ed è entrata in quello del Punjab puntando verso Nuova Delhi. Oggi il popolo tibetano sente che l’occasione olimpica mette come non mai la Repubblica Popolare Cinese sotto i riflettori dell’opinione pubblica internazionale e questa consapevolezza, insieme alla sempre più forte disperazione, ha acceso una scintilla che a Lhasa come a Dharamsala, come in tanti altri luoghi ha convinto i tibetani ad agire. Credo sia importante sottolineare il peso che proprio la “Marcia Verso il Tibet” intrapresa dagli esuli in India ha avuto e continua ad avere per la situazione tibetana. Anche se sono da escludere le capacità organizzative di cui parlano i cinesi, che accusano la “cricca del Dalai Lama” di essere la responsabile dell’insurrezione di questi giorni, è però molto probabile che le notizie della “Marcia” diffuse in Tibet attraverso un passaparola di telefonate, Sms, Mms, lettere (non Internet perché in Tibet la comunicazione telematica è strettamente controllata dall’apparato poliziesco), ascolti collettivi dei programmi di Radio FreeAsia, siano state per i tibetani una ulteriore spinta a protestare. E infatti tra il 10 e il 13 marzo, mentre in India la “Marcia Verso il Tibet” si snodava lungo le strade dell’Himachal Pradesh, a Lhasa cominciavano a tenersi le prime manifestazioni. Dapprima sparuti gruppi di monaci poi masse sempre più ingenti di laici e religiosi, sono scese nelle strade della capitale tibetana per protestare contro l’occupazione cinese.
Sarà bene ricordarlo. Si è trattato per almeno tre giorni di manifestazioni assolutamente pacifiche dove non è volata nemmeno una pietra ma si sono uditi solo slogan e preghiere. Nonostante questo Pechino ha risposto immediatamente con la solita brutalità e durezza. Manifestanti arrestati e torturati in prigione, asfissianti controlli di polizia, monasteri assediati per impedire ai monaci di uscire. Ed è a questo punto che la collera dei tibetani è esplosa incontenibile contro ogni segno visibile della presenza cinese. I simboli dell’occupante (negozi, edifici, automobili) sono stati presi a sassate, divelti e a volte dati alle fiamme. In qualche sporadico caso a fare le spese della frustrazione tibetana sono stati anche alcuni coloni cinesi. I nodi di decenni di vite vissute come cittadini di terza classe nel proprio Paese, decenni di angherie, umiliazioni, sofferenze, discriminazioni sono infine venuti al pettine.
E’ difficile capire cosa stia passando nella testa della nomenclatura cinese in questo momento. Difficile stabilire se il segnale che sta arrivando loro dalle vie e dalle piazze di Lhasa, dai monasteri e dai villaggi dell’Amdo (luogo natale dell’attuale Dalai Lama) e del Kham, perfino da alcuni insediamenti dei nomadi, li farà recedere dalla posizione di totale chiusura in cui si sono autorinchiusi. Difficile capire se almeno qualcuno nelle stanze dei palazzi del potere di Zhongnanhai stia rimpiangendo di non aver dato ascolto e spazio alla posizione moderata e disponibile del Dalai Lama. Di aver sempre sempre chiuso in faccia la porta alla richiesta di dialogo del Dalai Lama. Di aver detto sprezzantemente ai suoi inviati che “non esiste alcun problema tibetano”.
Di almeno una cosa però adesso, grazie all’eroismo e al sacrificio di centinaia di persone, possiamo essere certi. Hu Jintao, Wen Jiabao e gli altri autocrati di Pechino hanno dovuto prendere atto che esiste un “problema tibetano”. A caldo stanno dando la colpa alla “cricca del Dalai” ma non si deve escludere che possano aver compreso come in realtà stanno le cose. Ed ora si trovano di fronte ad un bivio. Possono illudersi di pensare di risolvere il problema con ancora più repressione, ancora più torture, ancora più condanne a morte, ancora più coloni oppure, realisticamente, comprendere una buona volta l’irriducibilità della questione tibetana. Probabilmente è per loro l’ultima spiaggia. Perché se non ottiene almeno una modesta apertura di credito, la ragionevole politica del Dalai Lama non avrà più alcuna chance agli occhi del suo popolo che già oggi, nonostante l’immensa devozione che lo circonda sul piano religioso, politicamente non convince settori significativi della sua gente.
Nei prossimi giorni vedremo cosa accadrà nel Paese delle Nevi. E’ di pochi istanti fa la notizia che il Dalai Lama, come gesto estremo per porre termine alla carneficina e in risposta alle accuse cinesi di essere il mandante delle manifestazioni, si è dichiarato disponibile a dare le “dimissioni” dalla guida del suo governo. Si tratta probabilmente di una minaccia indirizzata ai dirigenti cinesi affinché gli consentano di poter continuare a chiedere al suo martoriato popolo moderazione. Nei fini e nei mezzi. Dubito che possa essere ascoltato con autentica sincerità da quanti hanno ancora le mani lorde del sangue di centinaia di vittime e non smettono di ricoprire l’Oceano di Saggezza di insulti e contumelie. Comunque vadano le cose però, ritengo che sia indispensabile che continui in India il movimento gandhiano della “Marcia Verso il Tibet” che potrebbe divenire per la questione tibetana, quello che la “Marcia del sale” del Mahatma Gandhi rappresentò per la lotta di liberazione dell’India. E’ fondamentale che la vitalità, l’energia, l’entusiasmo, che la “Marcia Verso il Tibet” sta suscitando tra i tibetani e i loro sostenitori internazionali non si spengano e anzi vengano continuamente alimentati. Solo così infatti le donne e gli uomini del Tibet, dentro e fuori il loro Paese, potranno trovare la forza, l’energia, l’ispirazione per continuare la lotta senza soccombere ai demoni della rabbia cieca, della disperazione e del furore. Solo così la scintilla della battaglia per un Tibet libero potrà rimanere ben viva e visibile a tutti. Anche ai cinesi di buona volontà.
Perché il Tibet viva.
Il problema tibetano è molto semplice, pur nella sua drammatica complessità. Il dominio cinese, in oltre sessant’anni di repressioni, non è riuscito a normalizzare il popolo tibetano né all’interno né all’esterno del Tibet
In queste ore nelle strade di Lhasa, pattugliata da oltre 20.000 soldati cinesi e da una cinquantina di blindati dell’Armata Rossa, decine e decine di prigionieri politici tibetani sfilano sui carri dell’esercito di Pechino ammanettati e a testa bassa mentre dagli altoparlanti una voce metallica intima a quanti non sono stati ancora arrestati di consegnarsi prima che sia troppo tardi. E sempre in queste ore sono stati affissi sui muri della cosiddetta Regione Autonoma del Tibet e delle contee e aree tibetane incorporate nelle province del Sichuan e del Gansu, manifesti in cui si avverte la popolazione che ogni assembramento verrà immediatamente sciolto con la forza dalla Polizia Armata che ha l’ordine di sparare sulla folla.
Questo è la situazione del Tibet odierno, governato da quella Cina che si sta gioiosamente preparando a celebrare la sua parata olimpica pronta ad incassare il plauso e la meraviglia del mondo per le sue conquiste e le sue scintillanti vetrine. Quella Cina autorefenrenziale che parla di sé come di una “società armoniosa” che grazie al “socialismo di mercato” è proiettata verso un futuro di superpotenza economica e grazie alla forza dei suoi muscoli (pochi giorni or sono Pechino ha aumentato del 18% il suo già oneroso budget per le spese militari) anche di superpotenza politica.
In un’intervista rilasciata alla giornalista Ursula Gauthier e pubblicata in gennaio dal settimanale francese le Nouvel Observateur, il Dalai Lama affermava che nel corso dell’ultimo incontro che i suoi inviati avevano avuto nel giugno 2007 con alcuni dirigenti cinesi, questi ultimi avevano “puramente e semplicemente negato l’esistenza di un problema tibetano”.
Adesso quei dirigenti dovranno ricredersi. Adesso, che a Lhasa sono esplose incontenibili la rabbia, la frustrazione, il furore delle donne e degli uomini del Tibet esasperati da oltre cinquant’anni di giogo coloniale brutale e inflessibile. Adesso, che a Labrang, Ngaba, Ganja, Machu e in altre località del Tibet storico si susseguono manifestazioni e proteste invariabilmente represse nel sangue. Adesso, che ovunque nel mondo si manifesta la disperazione del popolo tibetano.
L’orrore della carneficina di Lhasa. L’orrore delle fotografie dei cadaveri degli assassinati dalle pallottole cinesi sparate ad altezza d’uomo. L’orrore dei rastrellamenti, delle incarcerazioni indiscriminate, delle torture. Tutto questo dimostra che esiste un problema tibetano. Esiste per Pechino ma esiste anche per la diplomazia internazionale che fatica a rimanere muta, cieca e sorda (come certamente vorrebbe) di fronte alla tragedia che si sta consumando sul Tetto del Mondo.
E il problema tibetano è molto semplice, pur nella sua drammatica complessità. Il dominio cinese, in oltre sessant’anni di repressioni, non è riuscito a normalizzare il popolo tibetano né all’interno né all’esterno del Tibet. Le immagini che in questi giorni stanno circolando sui circuiti televisivi e sulla Rete, ci fanno vedere come la protesta sia portata avanti principalmente da giovani e giovanissimi. Che si tratti di laici o di monaci, si tratta sempre di persone che non erano nemmeno nate nel 1959. Che nonostante tutta la retorica e la disinformazione cinese continuano ad essere fedeli all’identità tibetana e non si piegano al pugno di ferro di Pechino. Che continuano a sperare e a lottare per un Tibet libero. Per rangzen, il termine tibetano che designa l’indipendenza così come quello sanscrito swaraj di gandhiana memoria.
Non a caso “Rise up, resist, return” (Insorgi, Resisti, Ritorna) è lo slogan principale di quella “Marcia Verso il Tibet” che cinque organizzazioni della diaspora tibetana hanno fatto partire da Dharamsala il 10 marzo e che attualmente, dopo un primo stop provocato dalla polizia indiana che il 13 marzo aveva arrestato i primi cento marciatori, è ripresa e proprio oggi ha lasciato lo stato indiano dell’Himachal Pradesh ed è entrata in quello del Punjab puntando verso Nuova Delhi. Oggi il popolo tibetano sente che l’occasione olimpica mette come non mai la Repubblica Popolare Cinese sotto i riflettori dell’opinione pubblica internazionale e questa consapevolezza, insieme alla sempre più forte disperazione, ha acceso una scintilla che a Lhasa come a Dharamsala, come in tanti altri luoghi ha convinto i tibetani ad agire. Credo sia importante sottolineare il peso che proprio la “Marcia Verso il Tibet” intrapresa dagli esuli in India ha avuto e continua ad avere per la situazione tibetana. Anche se sono da escludere le capacità organizzative di cui parlano i cinesi, che accusano la “cricca del Dalai Lama” di essere la responsabile dell’insurrezione di questi giorni, è però molto probabile che le notizie della “Marcia” diffuse in Tibet attraverso un passaparola di telefonate, Sms, Mms, lettere (non Internet perché in Tibet la comunicazione telematica è strettamente controllata dall’apparato poliziesco), ascolti collettivi dei programmi di Radio FreeAsia, siano state per i tibetani una ulteriore spinta a protestare. E infatti tra il 10 e il 13 marzo, mentre in India la “Marcia Verso il Tibet” si snodava lungo le strade dell’Himachal Pradesh, a Lhasa cominciavano a tenersi le prime manifestazioni. Dapprima sparuti gruppi di monaci poi masse sempre più ingenti di laici e religiosi, sono scese nelle strade della capitale tibetana per protestare contro l’occupazione cinese.
Sarà bene ricordarlo. Si è trattato per almeno tre giorni di manifestazioni assolutamente pacifiche dove non è volata nemmeno una pietra ma si sono uditi solo slogan e preghiere. Nonostante questo Pechino ha risposto immediatamente con la solita brutalità e durezza. Manifestanti arrestati e torturati in prigione, asfissianti controlli di polizia, monasteri assediati per impedire ai monaci di uscire. Ed è a questo punto che la collera dei tibetani è esplosa incontenibile contro ogni segno visibile della presenza cinese. I simboli dell’occupante (negozi, edifici, automobili) sono stati presi a sassate, divelti e a volte dati alle fiamme. In qualche sporadico caso a fare le spese della frustrazione tibetana sono stati anche alcuni coloni cinesi. I nodi di decenni di vite vissute come cittadini di terza classe nel proprio Paese, decenni di angherie, umiliazioni, sofferenze, discriminazioni sono infine venuti al pettine.
E’ difficile capire cosa stia passando nella testa della nomenclatura cinese in questo momento. Difficile stabilire se il segnale che sta arrivando loro dalle vie e dalle piazze di Lhasa, dai monasteri e dai villaggi dell’Amdo (luogo natale dell’attuale Dalai Lama) e del Kham, perfino da alcuni insediamenti dei nomadi, li farà recedere dalla posizione di totale chiusura in cui si sono autorinchiusi. Difficile capire se almeno qualcuno nelle stanze dei palazzi del potere di Zhongnanhai stia rimpiangendo di non aver dato ascolto e spazio alla posizione moderata e disponibile del Dalai Lama. Di aver sempre sempre chiuso in faccia la porta alla richiesta di dialogo del Dalai Lama. Di aver detto sprezzantemente ai suoi inviati che “non esiste alcun problema tibetano”.
Di almeno una cosa però adesso, grazie all’eroismo e al sacrificio di centinaia di persone, possiamo essere certi. Hu Jintao, Wen Jiabao e gli altri autocrati di Pechino hanno dovuto prendere atto che esiste un “problema tibetano”. A caldo stanno dando la colpa alla “cricca del Dalai” ma non si deve escludere che possano aver compreso come in realtà stanno le cose. Ed ora si trovano di fronte ad un bivio. Possono illudersi di pensare di risolvere il problema con ancora più repressione, ancora più torture, ancora più condanne a morte, ancora più coloni oppure, realisticamente, comprendere una buona volta l’irriducibilità della questione tibetana. Probabilmente è per loro l’ultima spiaggia. Perché se non ottiene almeno una modesta apertura di credito, la ragionevole politica del Dalai Lama non avrà più alcuna chance agli occhi del suo popolo che già oggi, nonostante l’immensa devozione che lo circonda sul piano religioso, politicamente non convince settori significativi della sua gente.
Nei prossimi giorni vedremo cosa accadrà nel Paese delle Nevi. E’ di pochi istanti fa la notizia che il Dalai Lama, come gesto estremo per porre termine alla carneficina e in risposta alle accuse cinesi di essere il mandante delle manifestazioni, si è dichiarato disponibile a dare le “dimissioni” dalla guida del suo governo. Si tratta probabilmente di una minaccia indirizzata ai dirigenti cinesi affinché gli consentano di poter continuare a chiedere al suo martoriato popolo moderazione. Nei fini e nei mezzi. Dubito che possa essere ascoltato con autentica sincerità da quanti hanno ancora le mani lorde del sangue di centinaia di vittime e non smettono di ricoprire l’Oceano di Saggezza di insulti e contumelie. Comunque vadano le cose però, ritengo che sia indispensabile che continui in India il movimento gandhiano della “Marcia Verso il Tibet” che potrebbe divenire per la questione tibetana, quello che la “Marcia del sale” del Mahatma Gandhi rappresentò per la lotta di liberazione dell’India. E’ fondamentale che la vitalità, l’energia, l’entusiasmo, che la “Marcia Verso il Tibet” sta suscitando tra i tibetani e i loro sostenitori internazionali non si spengano e anzi vengano continuamente alimentati. Solo così infatti le donne e gli uomini del Tibet, dentro e fuori il loro Paese, potranno trovare la forza, l’energia, l’ispirazione per continuare la lotta senza soccombere ai demoni della rabbia cieca, della disperazione e del furore. Solo così la scintilla della battaglia per un Tibet libero potrà rimanere ben viva e visibile a tutti. Anche ai cinesi di buona volontà.
Perché il Tibet viva.
La comunicazione attraverso il silenzio
di Geshe Gedun Tharchin
Vorrei dire qualcosa sul tema della comunicazione attraverso il silenzio basandomi sul pensiero buddhista, che costituisce il mio retroterra culturale.
… Il silenzio è una forma di meditazione, ma che non è stata insegnata da nessuno. È un dono proprio della natura umana, che serve per il benessere del genere umano, per una riflessione profonda, accompagnata da un ritmo di respiro lento e dal rilassamento del sistema nervoso. È una medicina innata e naturale per lo spirito umano ed un mezzo per arricchire le qualità umane. La sola cosa che dovremmo fare è realizzarne il grande valore ed esserne coscienti, preservandolo con comprensione.
Il silenzio è un mezzo per dare benessere al cuore umano ed è fonte di conoscenza e di profonda riflessione. È una meditazione umana, che dovrebbe essere eseguita durante tutta la vita, in quanto valore spirituale fondamentale per tutti gli stati di crescita spirituale, dal livello ordinario di valori morali fino alla piena illuminazione.
Ho affrontato il tema basandomi sulla mia cultura, ma questo non significa che altre culture non includano questo messaggio. Ho imparato che tutte le culture del mondo sono portatrici degli stessi messaggi, insegnati dalle loro genti. Oggi, secolo di scambi culturali e di società multietnica, dobbiamo rispettare e comprendere le altre culture e il loro valori per il beneficio dell’umanità. Dovremmo guardare la cultura mondiale come prodotto di tutta l’umanità, come un intangibile patrimonio umano, che deve essere preservato e trasmesso anche alle generazioni del futuro.
Vorrei dire qualcosa sul tema della comunicazione attraverso il silenzio basandomi sul pensiero buddhista, che costituisce il mio retroterra culturale.
… Il silenzio è una forma di meditazione, ma che non è stata insegnata da nessuno. È un dono proprio della natura umana, che serve per il benessere del genere umano, per una riflessione profonda, accompagnata da un ritmo di respiro lento e dal rilassamento del sistema nervoso. È una medicina innata e naturale per lo spirito umano ed un mezzo per arricchire le qualità umane. La sola cosa che dovremmo fare è realizzarne il grande valore ed esserne coscienti, preservandolo con comprensione.
Il silenzio è un mezzo per dare benessere al cuore umano ed è fonte di conoscenza e di profonda riflessione. È una meditazione umana, che dovrebbe essere eseguita durante tutta la vita, in quanto valore spirituale fondamentale per tutti gli stati di crescita spirituale, dal livello ordinario di valori morali fino alla piena illuminazione.
Ho affrontato il tema basandomi sulla mia cultura, ma questo non significa che altre culture non includano questo messaggio. Ho imparato che tutte le culture del mondo sono portatrici degli stessi messaggi, insegnati dalle loro genti. Oggi, secolo di scambi culturali e di società multietnica, dobbiamo rispettare e comprendere le altre culture e il loro valori per il beneficio dell’umanità. Dovremmo guardare la cultura mondiale come prodotto di tutta l’umanità, come un intangibile patrimonio umano, che deve essere preservato e trasmesso anche alle generazioni del futuro.
Quando il Vangelo incontra il dharma
di Mark T. King
I concetti e le pratiche di meditazione del buddhismo possono dare un grande contributo alla fede cristiana chiarendo alcuni concetti chiave, quali l’incarnazione e la Trinità, ed insegnando un nuovo modo di interagire profondamente con le Scritture
Gli anni della mia giovinezza sono stati marcati dai profondi dubbi esistenziali derivanti da una mia profonda crisi di fede nei confronti della religione nella quale ero nato. Ho lottato con le immagini ed i presupposti, che definirei premoderni, sui quali era stata incentrata la mia formazione religiosa e che erano sempre meno compatibili con le mie esperienze moderne e postmoderne.
Ad un certo punto della mia vita ho letto “The World of Zen: An East-West Anthology”, a cura di Nancy W. Ross; quel libro mi ha mostrato un percorso verso l’illuminazione e la comprensione di sé. Per me fu una vera rivelazione. Le voci di quegli antichi e scomparsi maestri Zen sembravano vive in quel preciso momento. Ognuno sembrava parlare un linguaggio nuovo e fresco, che generava in me sia meraviglia che nuove domande relative alla mia fede cristiana, domande alle quali sto ancora cercando di rispondere. Parlavano della non dualità dell’esistenza, dell’interrelazione tra tutte le cose, e dei limiti che hanno le parole, i concetti e la mente razionale nel raggiungere la più profonda saggezza.
A quel tempo non potevo immaginare che queste idee, ad un tempo familiari ed estranee, avrebbero spianato la via alla rivitalizzazione della mia identità cristiana e cattolica in un senso più autenticamente universale. Nello Zen, una forma di buddhismo, ho scoperto insegnamenti e presupposti che riecheggiano l’antica tradizione mistica cristiana, anzi, sono ad essa paralleli.
Riportando le mie scoperte personali nel più ampio contesto cristiano, sono convinto che la riscoperta ed il rimodellamento della saggezza mistica cristiana, che in gran parte è andata persa, possa fornire dei validi indizi sul modo in cui i cristiani possano più efficacemente rispondere alle sfide poste dal pluralismo religioso e dalla post-modernità. Queste due sfide al cristianesimo contemporaneo si incentrano da una parte sulla necessità di rimanere radicati nella fede cristiana senza diventare settari dogmatici, e dall’altra sul bisogno di essere aperti a visioni religiose alternative senza però divenire vittime del caso e della relatività.
Gli insegnamenti paralleli del buddhismo possono costituire un grande aiuto nel rimodellare una coscienza mistica cristiana che sostenga gli sforzi che i fedeli fanno per essere cristiani ancora più veri, meglio in grado di dialogare con i non cristiani, e meglio preparati per lavorare per l’armonia e la pace con le varie religioni ed i vari popoli.
L’osmosi tra cristianesimo e buddhismo
In tempi di aggravamento del settarismo religioso, dell’estremismo e della violenza, gran parte delle persone di coscienza è d’accordo sul fatto che abbiamo bisogno con urgenza di nuove strade che ci conducano verso la pace. Sebbene le fedi e le pratiche religiose abbiano dato un forte contributo alla violenza ed alla divisione settarie, queste stesse tradizioni contengono in sé la potenzialità di essere forze di pace e di unità.
Una delle sfide del dialogo interreligioso consiste nel mantenere l’integrità e l’autenticità di ciascuna delle tradizioni religiose lavorando nel contempo per rafforzare i rapporti interreligiosi e coordinare gli sforzi di realizzazione della pace. La semplice tolleranza reciproca non è più sufficiente. Se i cristiani devono raccogliere la sfida del rimanere radicati nella loro tradizione, e dell’essere nel contempo aperti alle verità affermate dai non cristiani, devono prendere in seria considerazione i benefici dati dallo sviluppo di una coscienza mistica e di una spiritualità cristiana che sia più autenticamente radicata nel mondo di tutti i giorni. Il buddhismo può costituire un grande aiuto in questa ricerca.
In “Letters to Friends: Meditations in Daily Life” (2003), William Johnston descrive l’incontro tra cristianesimo e buddhismo, e la conseguente osmosi tra i pensieri, le fedi e le pratiche di entrambi quale nuova forma di preghiera meditativa e di contemplazione che cerca una maggiore accettazione all’interno del cristianesimo. Questo movimento contemplativo emergente promuove la valorizzazione di concetti quali ad esempio l’immagine non dualistica di Dio e di Cristo, la realtà dell’incarnazione e dello Spirito Santo nel momento presente, ed il mistero divino, sia interiore che esteriore.
Il dualismo occidentale e l’abbandono della tradizione mistica
Il misticismo cristiano si occupa fondamentalmente della preparazione interiore e della realizzazione di un incontro diretto e trasformatore con Dio. Questa dimensione può essere descritta come un rapporto non dualistico, nel quale Dio non è conosciuto come nel più familiare rapporto “io-tu”, ma come una “fusione”, nella quale la propria coscienza non è distinta da quella di Dio. I mistici cristiani ricercano un’unione con Dio che è paradossale, in quanto mirano, tramite essa, ad essere uno con Dio e contemporaneamente separati da Lui nella loro identità.
Quest’obiettivo della mistica cristiana è diverso da quello del buddhismo Zen, il satori, nel quale colui che lo pratica raggiunge alla fine la natura del Buddha, sperimenta l’inerente vuoto del proprio sé e l’inerente unità con tutto ciò che è, la base dell’esistenza che è condivisa dal Tutto. Vi è una differenza significativa tra il meditare finché esiste solo Dio ed il meditare fino a quando esiste solo il sé, o, più precisamente, il non-sé; questa differenza non deve però negare la potenzialità di una più profonda comprensione della propria fede tramite un mutuo scambio sulle diverse esperienze mistiche.
L’antica tradizione mistica cristiana tuttavia, resta confinata in una forma monastica, che rinnega il mondo, poco compresa dalla massa dei cristiani. Gran parte del suo linguaggio rimane premoderno e quindi estraneo ad orecchie moderne. Il percorso mistico di purificazione di base ad esempio (purificazione, illuminazione ed unione contemplativa), e l’accurata distinzione tra grazia acquisita ed infusa, possono indurre alla diffidenza e possono sembrare confusi. Gran parte di questa complessità è superata nel buddismo Zen grazie all’importanza che quest’ultimo dà alla posizione ed al respiro corretti, ed al profondo rapporto tra mente e corpo.
Anche se nei vari aspetti del cristianesimo sono stati presenti vari elementi di misticismo, questi non hanno mai avuto un’importanza centrale, poiché si è sempre pensato che i cristiani non avessero bisogno di una esperienza di trasformazione mistica per vivere la vita cristiana. Purtroppo questa convinzione è limitativa, proprio perché è nel silenzio contemplativo dell’esperienza mistica che si può realizzare l’incontro più proficuo tra buddhismo e cristianesimo. Questa omissione è anche non in linea con un numero non trascurabile di riferimenti nelle scritture cristiane e negli scritti dei Padri della Chiesa ad immagini non dualistiche di Dio, ed al chiaro riconoscimento dei limiti delle parole e dei concetti nell’esprimere la verità di Dio.
Gli scritti di Paolo ed il Vangelo di Giovanni testimoniano entrambi della dimora dell’immanenza del Cristo tra i credenti. Forse il passo più conosciuto è quello in Galati 2:20, nella quale San Paolo osserva che nel più profondo di sé non c’è lui ma il Cristo (“Sono stato crocifisso con Cristo, e non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me…”). Giovanni 10:30 impiega un linguaggio non dualistico dello stesso tipo, quando Gesù proclama che il Padre è in Lui e Lui nel Padre. Gesù più avanti prega che, proprio come il Padre è in Lui, spera che possa essere in loro, i credenti.
Una delle ragioni più importanti della generale riluttanza ad approfondire questa antica tradizione cristiana è profondamente radicata nel dualismo occidentale, che deriva sia dalla filosofia greca che dalla tradizione giudeo-cristiana, e che è stata ulteriormente rinvigorita dalla scienza moderna. Combinate insieme, queste forti influenze hanno generato un modo di pensare che porta automaticamente a cercare ed a trovare dei modi per dividere il mondo e l’esperienza in categorie dualistiche separate e presumibilmente opposte.
Questo modo limitato di percepire e di pensare è stato a volte applicato in modo indiscriminato a coppie quali Dio e la creazione, spirito e materia, bene e male, vita e morte, uno e molti, ragione e sentimento, uomo e donna. Un’ulteriore comune “corruzione” di questo modo di pensare dualistico contempla l’elevare uno di questi opposti ad una posizione superiore, ed il relegare l’altro in una posizione inferiore. In termini di religione e di spiritualità, una delle applicazioni più devastanti di questa visione è stata la dicotomia tra mondo fisico naturale “di per sé caduto” ed il Regno dei Cieli spirituale, il regno divino, situato in un diverso e trascendente mondo spirituale.
La comparsa del modernismo, e la crescente accettazione della scienza e della filosofia quali legittimi strumenti per spiegare il mondo naturale, ha inevitabilmente messo al bando il pensiero e la pratica religiosi dal mondo naturale per relegarli nel mondo sovrannaturale. Influenzati anche dalla crescente popolarità della scienza e della filosofia, sia i protestanti che i cattolici mettono sempre più enfasi sulla accettazione razionale e cognitiva della chiesa e della dottrina biblica quali strumenti essenziali per la salvezza. In questo clima culturale, la passione “oscura”, intuitiva, ed i misteri delle antiche tradizioni contemplative, sono stati liquidati quali superstizioni primitive.
Il Vangelo ed il dharma
La corretta comprensione delle dottrine cristiane dell’incarnazione e della Trinità riflettono una comprensione fondamentalmente non dualistica della natura sia di Dio che degli esseri umani. Purtroppo troppi cristiani oggi, impastoiati nel loro amore per le parole ed i concetti, e nella forte tendenza a dividere le cose in opposti, sono inconsapevoli della profonda e meravigliosa saggezza della loro propria tradizione.
Lo sviluppo di una spiritualità incentrata sull’incarnazione e sulla Trinità attraverso la preghiera contemplativa e la meditazione fatte con regolarità, dovrebbe permettere a molti cristiani disincantati di radicarsi nella propria identità cristiana ed allo stesso tempo di essere realmente aperti alla voce ed alla musica delle altre religioni. Il problema è che il messaggio cristiano, ed i suoi vari credi e dottrine, sono ancora veicolati tramite immagini e concetti premoderni, che si oppongono a questo tipo di interpretazioni non dualistiche del proprio rapporto con Dio.
Una visuale buddhista delle dottrine cristiane fondamentali della Trinità e dell’incarnazione può aiutare i cristiani a riscoprire questa saggezza pressoché perduta. I pensieri e le pratiche buddhiste possono essere degli strumenti utili, che possono fornire nuove prospettive della Scrittura, degli insegnamenti tradizionali della chiesa, e della loro applicazione alla vita quotidiana del cristiano.
A prima vista, gran parte del pensiero buddhista appare incompatibile con quello cristiano. Ma una più approfondita lettura delle due tradizioni, tuttavia, rivela aspetti sorprendentemente simili, che possono aiutare i cristiani a comprendere il modo in cui la loro fede può essere più importante e significativa alla loro esperienza contemporanea e più aperta alle altre religioni.
La co-originazione interdipendente e l’Incarnazione
Il concetto buddhista della co-originazione interdipendente, che in pratica diventa “consapevolezza”, implica per analogia la possibilità per i cristiani di essere in grado di comprendere l’Incarnazione come qualcosa che non è avvenuta solo una volta, tanto tempo fa, ma che continua nel presente, in particolare quando stabiliamo e manteniamo rapporti corretti ed amorevoli e quando lavoriamo per la pace.
Il cristiano può continuare a considerare Gesù come l’espressione più piena e perfetta del Divino in forma umana, contemporaneamente riconoscendo delle manifestazioni della presenza divina nel proprio tempo. In questo modo seguirebbe l’esempio dell’apostolo Paolo o dei numerosi mistici cristiani che hanno visto la Parola vivente che si manifestava in modo continuo, in modo particolare nei poveri e negli appartenenti alle altre religioni.
L’insegnamento fondamentale del Buddha, della co-originazione interdipendente, che afferma che tutte le cose devono la loro esistenza a qualcos’altro, porta a comprendere meglio questa universalizzazione dell’incarnazione. Attraverso la meditazione, Buddha divenne profondamente consapevole della propria co-originazione interdipendente. Egli sentì che la sua stessa esistenza era una combinazione di sensazioni in continuo mutamento che provenivano sia dall’interno che dall’esterno di sé. Per Buddha, così come per chiunque, la chiave per raggiungere questa illuminazione, o nirvana, consisteva nel praticare la “pienezza della mente” o “consapevolezza” in tutto ciò che si fa.
Secondo il maestro buddhista contemporaneo Thich Nhat Hanh, il concetto della co-originazione interdipendente rende più facile per i buddhisti accettare l’Eucaristia cattolica quale vero e reale corpo di Cristo. Se viene consumata consapevolmente, questo fondamentale sacramento cattolico diviene un richiamo della presenza di Dio sia nell’individuo che nella comunità dei credenti. Richiama anche l’attenzione dei cattolici nei confronti dei milioni di poveri e di affamati che non hanno abbastanza da mangiare. In qualità di fedele cattolico e cristiano, devo regolarmente riconoscere che il Cristo vivente risiede non solo nel pane e nel vino, e nemmeno solo nei fedeli della mia chiesa o della mia comunità, ma specialmente tra i poveri e gli emarginati. Gesù ha alluso a questa realtà con la sua solita semplicità poetica: “Ero affamato e mi avete dato da mangiare; ero assetato e mi avete dato da bere” (Matt. 25:35).
Come mostra questo ben conosciuto passo delle scritture, i cristiani devono riconoscere la presenza del Cristo nei non cristiani. Ciò si riflette nella tradizione cattolica nella quale è assolutamente ortodosso affermare che noi, la famiglia umana come insieme, siamo il corpo di Cristo. Uno dei tragici fallimenti dei missionari cristiani che per primi si recarono nel Nuovo Mondo fu il negare la natura di Cristo tra i popoli nativi. È necessario ricordare ai cristiani che la parola di Dio non è semplicemente diventata carne e poi si è allontanata: è diventata carne e resta con noi oggi. Dall’Incarnazione di possono ricavare degli spunti di riflessione simili. Al cuore della storia cristiana vi è la persona di Gesù di Nazaret ed il suo ruolo unico di redentore universale dell’umanità.
Questo è un punto di fede sul quale i cristiani non possono scendere a compromessi, ed ha costituito una barriera difficile da superare per molti di loro che hanno cercato di stabilire un sincero dialogo con i non cristiani. Anche se vi sono delle sottili differenze tra gli stessi cristiani, il concetto dell’Incarnazione in genere implica che il Figlio di Dio, al quale il vangelo di Giovanni fa riferimento come alla “parola di Dio”, si è incarnato. Il catechismo cattolico descrive tale evento storico come “l’unico e singolare evento dell’incarnazione del Figlio di Dio” (N° 464 della Chiesa Cattolica).
La realtà è che molti cristiani non sembrano apprezzare pienamente il profondo significato che l’Incarnazione ha per le loro vite, per i loro rapporti interpersonali e per le loro responsabilità nei confronti degli altri. Ronald Rolheiser, sacerdote cattolico ed autore, afferma che questa comprensione limitata dell’Incarnazione, benché non sia falsa, non è sufficiente di per sé. Se questa dottrina centrale deve costituire una guida significativa, vibrante, morale, nella vita di tutti i giorni, è necessario che i cristiani coltivino una visione ed una spiritualità dell’incarnazione ben radicata nel mondo quotidiano. Il significato più ampio degli sforzi di realizzazione della pace che questa spiritualità implica sono evidenti. Questa fondamentale dottrina cristiana deve essere compresa come una continua rinascita della presenza viva di Dio, che continua a manifestarsi ovunque si stabiliscano rapporti basati sull’amore e sulla correttezza con gli altri e con il proprio ambiente.
La sfida consiste nello sviluppare una comunità vibrante, ripiena di spirito, che sia inclusiva ed interreligiosa, e che sia rilevante nella vita quotidiana di ciascuno. Alla fine, sia l’Incarnazione che la co-originazione interdipendente possono risvegliare tutti alla più profonda realtà che condividiamo un profondo rapporto (con gli altri e con il Divino) che diviene reale quando i nostri pensieri ed azioni quotidiani sono consapevolmente focalizzati sulla pace e sull’armonia con tutto ciò che ci circonda.
Mark T. King, Ph.D., è assistente alla cattedra di educazione religiosa presso il Seminario Teologico dell’Unificazione in Barrytown, New York. Il suo primo libro, “Roman Catholic Identity in a Pluralistic Age”, verrà pubblicato nel corso dell’anno da University Press.
I concetti e le pratiche di meditazione del buddhismo possono dare un grande contributo alla fede cristiana chiarendo alcuni concetti chiave, quali l’incarnazione e la Trinità, ed insegnando un nuovo modo di interagire profondamente con le Scritture
Gli anni della mia giovinezza sono stati marcati dai profondi dubbi esistenziali derivanti da una mia profonda crisi di fede nei confronti della religione nella quale ero nato. Ho lottato con le immagini ed i presupposti, che definirei premoderni, sui quali era stata incentrata la mia formazione religiosa e che erano sempre meno compatibili con le mie esperienze moderne e postmoderne.
Ad un certo punto della mia vita ho letto “The World of Zen: An East-West Anthology”, a cura di Nancy W. Ross; quel libro mi ha mostrato un percorso verso l’illuminazione e la comprensione di sé. Per me fu una vera rivelazione. Le voci di quegli antichi e scomparsi maestri Zen sembravano vive in quel preciso momento. Ognuno sembrava parlare un linguaggio nuovo e fresco, che generava in me sia meraviglia che nuove domande relative alla mia fede cristiana, domande alle quali sto ancora cercando di rispondere. Parlavano della non dualità dell’esistenza, dell’interrelazione tra tutte le cose, e dei limiti che hanno le parole, i concetti e la mente razionale nel raggiungere la più profonda saggezza.
A quel tempo non potevo immaginare che queste idee, ad un tempo familiari ed estranee, avrebbero spianato la via alla rivitalizzazione della mia identità cristiana e cattolica in un senso più autenticamente universale. Nello Zen, una forma di buddhismo, ho scoperto insegnamenti e presupposti che riecheggiano l’antica tradizione mistica cristiana, anzi, sono ad essa paralleli.
Riportando le mie scoperte personali nel più ampio contesto cristiano, sono convinto che la riscoperta ed il rimodellamento della saggezza mistica cristiana, che in gran parte è andata persa, possa fornire dei validi indizi sul modo in cui i cristiani possano più efficacemente rispondere alle sfide poste dal pluralismo religioso e dalla post-modernità. Queste due sfide al cristianesimo contemporaneo si incentrano da una parte sulla necessità di rimanere radicati nella fede cristiana senza diventare settari dogmatici, e dall’altra sul bisogno di essere aperti a visioni religiose alternative senza però divenire vittime del caso e della relatività.
Gli insegnamenti paralleli del buddhismo possono costituire un grande aiuto nel rimodellare una coscienza mistica cristiana che sostenga gli sforzi che i fedeli fanno per essere cristiani ancora più veri, meglio in grado di dialogare con i non cristiani, e meglio preparati per lavorare per l’armonia e la pace con le varie religioni ed i vari popoli.
L’osmosi tra cristianesimo e buddhismo
In tempi di aggravamento del settarismo religioso, dell’estremismo e della violenza, gran parte delle persone di coscienza è d’accordo sul fatto che abbiamo bisogno con urgenza di nuove strade che ci conducano verso la pace. Sebbene le fedi e le pratiche religiose abbiano dato un forte contributo alla violenza ed alla divisione settarie, queste stesse tradizioni contengono in sé la potenzialità di essere forze di pace e di unità.
Una delle sfide del dialogo interreligioso consiste nel mantenere l’integrità e l’autenticità di ciascuna delle tradizioni religiose lavorando nel contempo per rafforzare i rapporti interreligiosi e coordinare gli sforzi di realizzazione della pace. La semplice tolleranza reciproca non è più sufficiente. Se i cristiani devono raccogliere la sfida del rimanere radicati nella loro tradizione, e dell’essere nel contempo aperti alle verità affermate dai non cristiani, devono prendere in seria considerazione i benefici dati dallo sviluppo di una coscienza mistica e di una spiritualità cristiana che sia più autenticamente radicata nel mondo di tutti i giorni. Il buddhismo può costituire un grande aiuto in questa ricerca.
In “Letters to Friends: Meditations in Daily Life” (2003), William Johnston descrive l’incontro tra cristianesimo e buddhismo, e la conseguente osmosi tra i pensieri, le fedi e le pratiche di entrambi quale nuova forma di preghiera meditativa e di contemplazione che cerca una maggiore accettazione all’interno del cristianesimo. Questo movimento contemplativo emergente promuove la valorizzazione di concetti quali ad esempio l’immagine non dualistica di Dio e di Cristo, la realtà dell’incarnazione e dello Spirito Santo nel momento presente, ed il mistero divino, sia interiore che esteriore.
Il dualismo occidentale e l’abbandono della tradizione mistica
Il misticismo cristiano si occupa fondamentalmente della preparazione interiore e della realizzazione di un incontro diretto e trasformatore con Dio. Questa dimensione può essere descritta come un rapporto non dualistico, nel quale Dio non è conosciuto come nel più familiare rapporto “io-tu”, ma come una “fusione”, nella quale la propria coscienza non è distinta da quella di Dio. I mistici cristiani ricercano un’unione con Dio che è paradossale, in quanto mirano, tramite essa, ad essere uno con Dio e contemporaneamente separati da Lui nella loro identità.
Quest’obiettivo della mistica cristiana è diverso da quello del buddhismo Zen, il satori, nel quale colui che lo pratica raggiunge alla fine la natura del Buddha, sperimenta l’inerente vuoto del proprio sé e l’inerente unità con tutto ciò che è, la base dell’esistenza che è condivisa dal Tutto. Vi è una differenza significativa tra il meditare finché esiste solo Dio ed il meditare fino a quando esiste solo il sé, o, più precisamente, il non-sé; questa differenza non deve però negare la potenzialità di una più profonda comprensione della propria fede tramite un mutuo scambio sulle diverse esperienze mistiche.
L’antica tradizione mistica cristiana tuttavia, resta confinata in una forma monastica, che rinnega il mondo, poco compresa dalla massa dei cristiani. Gran parte del suo linguaggio rimane premoderno e quindi estraneo ad orecchie moderne. Il percorso mistico di purificazione di base ad esempio (purificazione, illuminazione ed unione contemplativa), e l’accurata distinzione tra grazia acquisita ed infusa, possono indurre alla diffidenza e possono sembrare confusi. Gran parte di questa complessità è superata nel buddismo Zen grazie all’importanza che quest’ultimo dà alla posizione ed al respiro corretti, ed al profondo rapporto tra mente e corpo.
Anche se nei vari aspetti del cristianesimo sono stati presenti vari elementi di misticismo, questi non hanno mai avuto un’importanza centrale, poiché si è sempre pensato che i cristiani non avessero bisogno di una esperienza di trasformazione mistica per vivere la vita cristiana. Purtroppo questa convinzione è limitativa, proprio perché è nel silenzio contemplativo dell’esperienza mistica che si può realizzare l’incontro più proficuo tra buddhismo e cristianesimo. Questa omissione è anche non in linea con un numero non trascurabile di riferimenti nelle scritture cristiane e negli scritti dei Padri della Chiesa ad immagini non dualistiche di Dio, ed al chiaro riconoscimento dei limiti delle parole e dei concetti nell’esprimere la verità di Dio.
Gli scritti di Paolo ed il Vangelo di Giovanni testimoniano entrambi della dimora dell’immanenza del Cristo tra i credenti. Forse il passo più conosciuto è quello in Galati 2:20, nella quale San Paolo osserva che nel più profondo di sé non c’è lui ma il Cristo (“Sono stato crocifisso con Cristo, e non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me…”). Giovanni 10:30 impiega un linguaggio non dualistico dello stesso tipo, quando Gesù proclama che il Padre è in Lui e Lui nel Padre. Gesù più avanti prega che, proprio come il Padre è in Lui, spera che possa essere in loro, i credenti.
Una delle ragioni più importanti della generale riluttanza ad approfondire questa antica tradizione cristiana è profondamente radicata nel dualismo occidentale, che deriva sia dalla filosofia greca che dalla tradizione giudeo-cristiana, e che è stata ulteriormente rinvigorita dalla scienza moderna. Combinate insieme, queste forti influenze hanno generato un modo di pensare che porta automaticamente a cercare ed a trovare dei modi per dividere il mondo e l’esperienza in categorie dualistiche separate e presumibilmente opposte.
Questo modo limitato di percepire e di pensare è stato a volte applicato in modo indiscriminato a coppie quali Dio e la creazione, spirito e materia, bene e male, vita e morte, uno e molti, ragione e sentimento, uomo e donna. Un’ulteriore comune “corruzione” di questo modo di pensare dualistico contempla l’elevare uno di questi opposti ad una posizione superiore, ed il relegare l’altro in una posizione inferiore. In termini di religione e di spiritualità, una delle applicazioni più devastanti di questa visione è stata la dicotomia tra mondo fisico naturale “di per sé caduto” ed il Regno dei Cieli spirituale, il regno divino, situato in un diverso e trascendente mondo spirituale.
La comparsa del modernismo, e la crescente accettazione della scienza e della filosofia quali legittimi strumenti per spiegare il mondo naturale, ha inevitabilmente messo al bando il pensiero e la pratica religiosi dal mondo naturale per relegarli nel mondo sovrannaturale. Influenzati anche dalla crescente popolarità della scienza e della filosofia, sia i protestanti che i cattolici mettono sempre più enfasi sulla accettazione razionale e cognitiva della chiesa e della dottrina biblica quali strumenti essenziali per la salvezza. In questo clima culturale, la passione “oscura”, intuitiva, ed i misteri delle antiche tradizioni contemplative, sono stati liquidati quali superstizioni primitive.
Il Vangelo ed il dharma
La corretta comprensione delle dottrine cristiane dell’incarnazione e della Trinità riflettono una comprensione fondamentalmente non dualistica della natura sia di Dio che degli esseri umani. Purtroppo troppi cristiani oggi, impastoiati nel loro amore per le parole ed i concetti, e nella forte tendenza a dividere le cose in opposti, sono inconsapevoli della profonda e meravigliosa saggezza della loro propria tradizione.
Lo sviluppo di una spiritualità incentrata sull’incarnazione e sulla Trinità attraverso la preghiera contemplativa e la meditazione fatte con regolarità, dovrebbe permettere a molti cristiani disincantati di radicarsi nella propria identità cristiana ed allo stesso tempo di essere realmente aperti alla voce ed alla musica delle altre religioni. Il problema è che il messaggio cristiano, ed i suoi vari credi e dottrine, sono ancora veicolati tramite immagini e concetti premoderni, che si oppongono a questo tipo di interpretazioni non dualistiche del proprio rapporto con Dio.
Una visuale buddhista delle dottrine cristiane fondamentali della Trinità e dell’incarnazione può aiutare i cristiani a riscoprire questa saggezza pressoché perduta. I pensieri e le pratiche buddhiste possono essere degli strumenti utili, che possono fornire nuove prospettive della Scrittura, degli insegnamenti tradizionali della chiesa, e della loro applicazione alla vita quotidiana del cristiano.
A prima vista, gran parte del pensiero buddhista appare incompatibile con quello cristiano. Ma una più approfondita lettura delle due tradizioni, tuttavia, rivela aspetti sorprendentemente simili, che possono aiutare i cristiani a comprendere il modo in cui la loro fede può essere più importante e significativa alla loro esperienza contemporanea e più aperta alle altre religioni.
La co-originazione interdipendente e l’Incarnazione
Il concetto buddhista della co-originazione interdipendente, che in pratica diventa “consapevolezza”, implica per analogia la possibilità per i cristiani di essere in grado di comprendere l’Incarnazione come qualcosa che non è avvenuta solo una volta, tanto tempo fa, ma che continua nel presente, in particolare quando stabiliamo e manteniamo rapporti corretti ed amorevoli e quando lavoriamo per la pace.
Il cristiano può continuare a considerare Gesù come l’espressione più piena e perfetta del Divino in forma umana, contemporaneamente riconoscendo delle manifestazioni della presenza divina nel proprio tempo. In questo modo seguirebbe l’esempio dell’apostolo Paolo o dei numerosi mistici cristiani che hanno visto la Parola vivente che si manifestava in modo continuo, in modo particolare nei poveri e negli appartenenti alle altre religioni.
L’insegnamento fondamentale del Buddha, della co-originazione interdipendente, che afferma che tutte le cose devono la loro esistenza a qualcos’altro, porta a comprendere meglio questa universalizzazione dell’incarnazione. Attraverso la meditazione, Buddha divenne profondamente consapevole della propria co-originazione interdipendente. Egli sentì che la sua stessa esistenza era una combinazione di sensazioni in continuo mutamento che provenivano sia dall’interno che dall’esterno di sé. Per Buddha, così come per chiunque, la chiave per raggiungere questa illuminazione, o nirvana, consisteva nel praticare la “pienezza della mente” o “consapevolezza” in tutto ciò che si fa.
Secondo il maestro buddhista contemporaneo Thich Nhat Hanh, il concetto della co-originazione interdipendente rende più facile per i buddhisti accettare l’Eucaristia cattolica quale vero e reale corpo di Cristo. Se viene consumata consapevolmente, questo fondamentale sacramento cattolico diviene un richiamo della presenza di Dio sia nell’individuo che nella comunità dei credenti. Richiama anche l’attenzione dei cattolici nei confronti dei milioni di poveri e di affamati che non hanno abbastanza da mangiare. In qualità di fedele cattolico e cristiano, devo regolarmente riconoscere che il Cristo vivente risiede non solo nel pane e nel vino, e nemmeno solo nei fedeli della mia chiesa o della mia comunità, ma specialmente tra i poveri e gli emarginati. Gesù ha alluso a questa realtà con la sua solita semplicità poetica: “Ero affamato e mi avete dato da mangiare; ero assetato e mi avete dato da bere” (Matt. 25:35).
Come mostra questo ben conosciuto passo delle scritture, i cristiani devono riconoscere la presenza del Cristo nei non cristiani. Ciò si riflette nella tradizione cattolica nella quale è assolutamente ortodosso affermare che noi, la famiglia umana come insieme, siamo il corpo di Cristo. Uno dei tragici fallimenti dei missionari cristiani che per primi si recarono nel Nuovo Mondo fu il negare la natura di Cristo tra i popoli nativi. È necessario ricordare ai cristiani che la parola di Dio non è semplicemente diventata carne e poi si è allontanata: è diventata carne e resta con noi oggi. Dall’Incarnazione di possono ricavare degli spunti di riflessione simili. Al cuore della storia cristiana vi è la persona di Gesù di Nazaret ed il suo ruolo unico di redentore universale dell’umanità.
Questo è un punto di fede sul quale i cristiani non possono scendere a compromessi, ed ha costituito una barriera difficile da superare per molti di loro che hanno cercato di stabilire un sincero dialogo con i non cristiani. Anche se vi sono delle sottili differenze tra gli stessi cristiani, il concetto dell’Incarnazione in genere implica che il Figlio di Dio, al quale il vangelo di Giovanni fa riferimento come alla “parola di Dio”, si è incarnato. Il catechismo cattolico descrive tale evento storico come “l’unico e singolare evento dell’incarnazione del Figlio di Dio” (N° 464 della Chiesa Cattolica).
La realtà è che molti cristiani non sembrano apprezzare pienamente il profondo significato che l’Incarnazione ha per le loro vite, per i loro rapporti interpersonali e per le loro responsabilità nei confronti degli altri. Ronald Rolheiser, sacerdote cattolico ed autore, afferma che questa comprensione limitata dell’Incarnazione, benché non sia falsa, non è sufficiente di per sé. Se questa dottrina centrale deve costituire una guida significativa, vibrante, morale, nella vita di tutti i giorni, è necessario che i cristiani coltivino una visione ed una spiritualità dell’incarnazione ben radicata nel mondo quotidiano. Il significato più ampio degli sforzi di realizzazione della pace che questa spiritualità implica sono evidenti. Questa fondamentale dottrina cristiana deve essere compresa come una continua rinascita della presenza viva di Dio, che continua a manifestarsi ovunque si stabiliscano rapporti basati sull’amore e sulla correttezza con gli altri e con il proprio ambiente.
La sfida consiste nello sviluppare una comunità vibrante, ripiena di spirito, che sia inclusiva ed interreligiosa, e che sia rilevante nella vita quotidiana di ciascuno. Alla fine, sia l’Incarnazione che la co-originazione interdipendente possono risvegliare tutti alla più profonda realtà che condividiamo un profondo rapporto (con gli altri e con il Divino) che diviene reale quando i nostri pensieri ed azioni quotidiani sono consapevolmente focalizzati sulla pace e sull’armonia con tutto ciò che ci circonda.
Mark T. King, Ph.D., è assistente alla cattedra di educazione religiosa presso il Seminario Teologico dell’Unificazione in Barrytown, New York. Il suo primo libro, “Roman Catholic Identity in a Pluralistic Age”, verrà pubblicato nel corso dell’anno da University Press.
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