Antonio Saccà ci offre una sua riflessione filosofica su questo tema
Tra le morti possibili, in Occidente, quella di Socrate è diventata esemplare, una delle possibilità del morire, un modo di morire che appunto viene considerato esempio di morte da imitare o inimitabile, tanto è sovrana. Non distinguiamo se la morte di Socrate è la morte di Socrate o la morte di Socrate narrata da Platone. Indubbiamente Platone non inventò la morte di Socrate, la maniera in cui la narrò la rende veritiera ed esemplare. È l'esemplarità del controllo di sé, del non stabilire un vertice, una vertigine di spaccatura tra la vita e la morte. Non vi è il grido di chi soffre di morire, non lo strazio del perdere l'amore di se stesso e degli altri, bensì un passare dall'una all'altra condizione, quasi non accadesse niente di tragico o di cui dolersi. Questo “passare” per alcuni è una conquista, la conquista del saper morire, ed anche lo scopo della filosofia. Non condivido tale presunta conquista, tuttavia riconosco che disperarsi di morire non risolve la morte. Socrate muore, è cosciente di morire, vuole morire non nel senso di voler cessare la vita ma di accettare le leggi che gli impongono di morire. Osserva i movimenti della morte, l'avanzamento della morte mediante il veleno, quando egli non sarà più cosciente di morire, morirà, fino all'ultimo sorveglierà la morte, la tiene sotto lo