1 novembre 2007

Non solo Birmania

di Giorgio Gasperoni

Sono in molti a chiedere che a livello internazionale gli scambi commerciali o culturali e i dialoghi politici avvengano in armonia e collaborazione, in accordo al principio della pari dignità tra stati e soprattutto tra persone, e che l’ONU diventi l’organo di mediazione sovrano. Però, se consideriamo i fatti recenti che accadono nell’ex-Birmania, vediamo che la realtà delle nazioni Unite è molto diversa. Per spiegarmi meglio riporto qui di seguito due riflessioni, prese tra le tante pubblicate sulla faccenda birmana.
Il primo è ripreso dal sito web “Libmagazine.eu” dove è messa enfasi sulla contraddizione in cui ci troviamo al momento attuale: “... probabilmente è ancora presto per trarre conclusioni definitive, ma il prevedibile fallimento della comunità internazionale nella gestione del caso birmano manda un segnale sinistro ad ogni popolo che rivendichi la propria libertà e dignità attraverso la nonviolenza. Si chiede Vaclav Havel, che qualcosa ne sa: “Ogni giorno, nel corso di dibattiti e conferenze a livello mondiale, ascoltiamo dotte discussioni sui diritti umani ed sentiti proclami per la loro protezione. Allora com’è possibile che la comunità
internazionale sia incapace di una risposta efficace per dissuadere il governo militare
birmano dall’uso della forza dispiegato a Rangoon e contro i templi buddisti?”.
Urge risposta a Havel ma soprattutto a tanti piccoli grandi uomini capaci di non
confondere la mitezza interiore con la rinuncia a lottare per il diritto ad essere persone”.
Il secondo contributo viene da Luca Meneghel su “L’Occidentale - orientamento quotidiano” in cui sono riportate le varie posizioni delle grandi potenze sulla situazione birmana: “…Sul fronte diplomatico, oggi, alla presenza dell’inviato Gambari, il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si riunisce per discutere della questione birmana: al centro del dibattito, come sempre, le misure da intraprendere contro il regime. L’Europa starebbe valutando l’ipotesi di un inasprimento delle sanzioni: ogni decisione in questo senso verrà presa nella riunione del 15 ottobre prossimo. L’iniziativa europea giunge in seguito all’impossibilità di azioni condivise a livello internazionale: l’ambasciatore cinese all’ONU Wan Guangya, infatti, ha esplicitamente dichiarato ai giornalisti che “ci sono problemi in Myanmar, ma questi problemi sono ancora, noi crediamo, fondamentalmente interni. Una soluzione imposta a livello internazionale non può essere d'aiuto alla situazione... vogliamo che sia il governo (di Myanmar) a gestire questa vicenda”. Tra gli ostruzionisti, anche Russia e India. Il filosofo francese Bernard Henry-Lèvi, a proposito della mancata collaborazione della Cina, ha sottolineato a gran voce “quanto sia difficile concepire che le Olimpiadi abbiano luogo nella capitale di un Paese che incoraggia un regime il cui sport nazionale sembra sia diventato quello di prendere al lazo, picchiare, deportare, torturare, e alla fine assassinare uomini che hanno, come unica arma, una ciotola di lacca nera rovesciata”.
L’Unione Europea non esclude inoltre l’invio di un proprio rappresentante in Birmania: lo hanno ribadito ieri Javier Solana e il premier francese François Fillon. “Domani Gambari farà il suo rapporto all'ONU. A partire da quel momento, prenderemo decisioni, forse invieremo qualcuno”, ha detto Solana. Dietro all’iniziativa, la volontà di Nicolas Sarkozy: il “superpresidente” francese non riesce proprio a stare con le mani in mano, e insieme al ministro degli Esteri Bernard Kouchner è in prima linea nella lotta a favore di sanzioni dure contro Than Shwe e la sua giunta.
La storia si ripete, chi protegge l’establishment in Myanmar parla di problemi interni al paese, chi vuole intervenire, giustamente, fa riferimento al rispetto della Carta dei Diritti Umani, documento accettato e firmato da quasi tutti i paesi del mondo. Ma … morale della favola, la storia si ripete e gli errori storici si ripetono, perché se non si crea una vera unità d’intenti tra i maggiori paesi della comunità internazionale il popolo birmano ha una sola prospettiva continuare a soffrire nella repressione fintantoché il regime non collasserà. Quanti popoli hanno vissuto questa tragedia? Quanti ancora dovranno viverla?
Per ricordare, per non dimenticare, Voci di Pace pubblica l’intervento di Carlo Alberto Tabacchi sull’Armenia. Il popolo armeno ha subito un genocidio spietato, prima di quello ebraico e anche a causa del popolo ebraico: La Comunità internazionale allora non è intervenuta e, da errore si è generato errore, pochi anni dopo c’è stato lo sterminio ebraico. Ai giorni nostri la situazione in cui è inserita l’Armenia è molto complessa. Tabacchi ci fa notare come “…il Caucaso resta complesso ed instabile: babele di lingue, mosaico etnico, differenze religiose, accesi nazionalismi, rivendicazioni territoriali.
In conclusione questa area diventerà una regione sempre più rilevante per la presenza di medie potenze (Turchia ed Iran), risorse energetiche e passaggio di strategiche pipe-lines (oleodotti e gasdotti) tra Asia ed Europa ed il conseguente forte interesse di USA e Russia”.
Voci di Pace, grazie all’intervento del Professor Lombardi ci riporta in un’altra regione dai conflitti dimenticati. Lombardi scrive che: “…il disastro del Kashmir evidenzia l’imbelle incapacità delle Nazioni Unite a proporsi come una seria associazione di nazioni capace di dire la sua nel mondo globale; mostra le spinte economiche e commerciali che guidano la politica degli imperi; richiama ciascuno di noi all’impegno che insieme, forti di una consapevolezza individualmente assunta, dobbiamo produrre per promuovere la pace nei valori che condividiamo”.
Le Nazioni Unite invece di portare soluzioni ai problemi e ai conflitti nel mondo, sono fonte di problemi perché c’è conflittualità all’interno dell’ONU e, soprattutto, del suo Consiglio di Sicurezza. L’UPF riconosce all’ONU il suo importante contributo alla pace. Nondimeno, all’incirca, verso il 60° anniversario delle Nazioni Unite, nel 2005, c’era un largo consenso, sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione, sul fatto che essa deve ancora scoprire la strada per realizzare gli scopi per la quale era stata fondata. Il numero degli stati membri sono circa 200, ma i loro uffici fanno poco o niente se non difendere i propri interessi. Sembrano incapaci di risolvere i conflitti e raggiungere la pace.
Per questo motivo, in particolare, voglio concludere il mio editoriale con il riconoscimento che Thomas Matron fa dell’azione di Gandhi: “la politica è fondata interamente su una religiosa interpretazione della realtà della vita e della condizione dell'uomo nel mondo”.

LA CHIESA DI CRISTO? QUALE LA “VERA E UNICA” SECONDO “DOTTRINA”?

Una riflessione di RENATO PICCIONI


L’11 Luglio 2007, dalla Congregazione Vaticana per la Dottrina della Fede, è venuto al mondo dei Cristiani, una sorta di “dictat” che impone al popolo dei fedeli di riconoscere quale “Unica Chiesa voluta da Cristo Gesù, soltanto quella Cattolica Romana che si raccoglie attorno al “Primato di Pietro”.

Con questa promulgazione, la Congregazione della Dottrina della Fede, dichiara che è stato frainteso quanto risultava dall’insegnamento dottrinale emerso dal Concilio Vaticano II°, dichiarando quindi la nullità delle risultanze del Concilio Stesso.

La teologia del “Pluralismo delle Chiese Cristiane”, viene quindi cassata “a bruptus” e quale unica spiegazione sta nella dichiarazione che recita che:- “La lettura e le interpretazioni date da alcuni teologi cattolici sono infondate, erronee, e fuorvianti”

Si cita anche il teologo Leonardo Boff, che è stato artefice della cosidetta “falsa interpretazione” che ha dato del documento conciliare nel suo scritto del 1963 intitolato “Lumen Gentium” in cui espone il concetto che la “Chiesa di Cristo” sussiste in pari dignità e valore di quella “Cattolica” anche in tutte le “Altre Chiese Cristiane”.

Infatti nella “Lumen Gentium”, il Boff fa riferimento all’ispiratore comune delle varie chiese che è riconosciuto e riconoscibile nella sola persona del Cristo Gesù quale fondatore della “Sua Chiesa”, mentre nella chiesa Cattolica, il Vaticano, fa riferimento al “Dogma” del Primierato del Papa quale unico rappresentante della Fede la cui Dottrina é solo nella Chiesa di Cristo se Cattolica, che gli riconosce anche la sua “Infallibilità” quale discendente diretto di Pietro e Vicario dello stesso Gesù in terra..

Il Boff cita il messaggio evangelico delle parole stesse del Cristo, quando rivolgendosi ai suoi Apostoli dice loro:-“ Andate ed ammaestrate la gente nel riconoscere in Dio il primato della Creazione ed in me, il suo figlio prediletto, mandato per redimere i popoli dal peccato, con il sacrificio estremo, perchè io risorgerò e sarò la vostra “ecclesia” nella quale vi riconoscerete fratelli fra voi.

Nell’autocitarsi quale “ecclesia” , Egli non fa riferimento alcuno quali saranno o dovranno essere le definizioni in cui per ritualità e regole i seguaci, si dovranno riunire per “Glorificare Dio”, ma chiama “ecclesia” intendendo che “qualora due o più persone si riuniranno fra loro per indirizzare il loro pensiero a Dio quale Padre di tutti, in quella riunione sarà la mia “Ecclesia” ( cioè intendendo “La mia rappresentanza sulla terra e fra gli uomini” ).

E l’unica preghiera che Cristo ci ha lasciata è il “Pater Noster” quale unico riconoscimento alla paternità di Dio su tutta l’umanità.

Quindi è chiaro il messaggio evangelico di Cristo che non da una stretta definizione della sua “ecclesia” ma la riconosce solo nel significato di “riunione di fedeli in preghiera a Dio”.

Quindi, che si chiami Chiesa Cattolica Apostolica Romana” o, comunque, “Chiesa Cristiana” in quanto riferita al culto di un unico Dio e del Figlio di Lui Gesù”, tutte hanno diritto e libertà di riunirsi, pregare e onorare Dio, e testimoniare con il loro comportamento il rispetto della legge che Lui ha consegnato a Mosè sul monte Sinai, ed ogni concentrazione avrà pari dignità senza che nessuna prevalga su altre Comunità Cristiane, ma che tutte, e fra loro, si riconoscano affratellate nel nome di Dio.

Quindi nei Vangeli non troviamo una specificità di preminenza di una Comunità Cristiana su altre comunità di fedeli, ma eguaglianza e parità nel riconoscersi, pur nella diversità, tutti nella fede che Cristo Nostro Signore ha dettato tracciandola con le sue parole ed i suoi insegnamenti, e che i suoi Apostoli, disperdendosi per il mondo ci hanno tramandato, dalla venuta del Cristo fra noi fino ai giorni nostri, e nei secoli futuri, per sempre.

Oltre il “muro” della “Convenzione Internazionale sui diritti delle persone disabili”

di Franco Previte

Cristiani per Servire

Un “suggerimento” al Governo Italiano: è urgente apportare norme migliorative agli handicappati mentali.

Promossa dalla Presidenza tedesca della UE, si è svolta lunedì 11/12 giugno 2007 a Berlino, la Conferenza Internazionale per le persone disabili con l’obiettivo primario di una possibile ed urgente operatività della nuova “Convenzione Internazionale sui Diritti delle Persone con Disabilità” indetta dalle Nazioni Unite.
“Ogni giorno si verificano casi di violazione dei diritti umani nei confronti di individui affetti da deficit mentali”, ha spiegato il dr.Lee Jong-wook, Direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, “purtroppo, troppo spesso a causa di mille altri impegni, queste problematiche si dimenticano e finiscono per essere completamente ignorate, nonostante che esistono diverse proposte per cambiare tale situazione, sia nei Paesi maggiormente industrializzati che in quelli del cosiddetto Terzo Mondo”.
La n/s Associazione ha già manifestato con una Petizione al Parlamento Italiano, ( con il n.379 alla Camera dei Deputati: col n.558 al Senato della Repubblica il 28 maggio 2007) le riserve e le preoccupazioni sulla “confusione involontaria culturale” che si determina circa le modalità e le interpretazioni che il “Documento” potrebbe introdurre non valutando la evidente discriminazione nei confronti delle persone con disordini psichici.
La stessa Petizione è stata ripresentata il 15 aprile 2008 al nuovo Parlamento Italiano, in questa 16° Legislatura.
Nel Preambolo della “Convenzione Internazionale sui diritti delle persone disabili” approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York il 6 dicembre 2006 (Prot.Distr.Generale A/61/611), i 191 Stati aderenti hanno convenuto, fra altre, il “riconoscere la diversità delle persone con disabilità”, ma includendo all’articolo 1 “coloro che presentano menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali di lunga durata, che nella loro interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società in condizioni di parità con gli altri”e all’art.3 lettera b) quale principio generale “la non discriminazione”, impegnando all’art. 4 gli Stati “ad adottare appropriate misure legislative”.
Quindi la “Convenzione” ha l’obiettivo precipuo di affermare con notevole incisione che tutti i cittadini disabili, specialmente quelli più deboli, devono godere degli stessi diritti.
Il Governo Italiano, rappresentato dal Ministro della Solidarietà Sociale e dal Sottosegretario dello stesso Dicastero, ha sottoscritto il “Documento”, secondo notizie dei mass media , impegnandosi a ridurre i tempi ed a promuovere le indispensabili misure legislative per la concreta applicazione dell’accordo.
Ciò che non è condivisibile, ripeto, con la “Convenzione” è:
1.) sulla riproduzione e la pianificazione familiare [art.23 lettera b) e 25 lettera a)] in quanto l’accesso ai servizi riproduttivi o salute riproduttiva potrebbero promuovere le contraccezioni, favorire l’aborto, le limitazione della nascite, le sterilizzazioni, la non responsabilità dei rapporti sessuali che aumentano l’espandersi dell’epidemia dell’HIV/AIDS disattendendo la procreazione responsabile od altro, il tutto in contrasto con l’art.10 per “l’inalienabile diritto alla vita”, con l’art.15 dove “nessuno dovrà essere sottoposto ad esperimenti medico-scientifici” e con l’art.16 dove si è contro “ogni forma di sfruttamento, violenza od abuso”.
Queste metodologie sembra che si richiamano all’eugenismo (la pratica biomedica che spianò la strada alle terribili selezioni della razza e del genere umano tentate dai nazisti; oppure allo sterminio in Unione Sovietica da parte “dell’Einsatzkommando 3” dei malati di mente, che registravano il passaggio dal massacro eugenetico allo sterminio genocidio vero e proprio), od alla teoria dell’economista britannico Malthus che attribuiva all’eccesso di popolazione i mali e le miserie sociali.
2.) il voler associare il disabile con minorazioni fisiche, con l’handicappato mentale, in quanto per il primo sussistono possibilità di inserimento sociale e lavorativo, per il secondo si possono e devono essere attuate cure specifiche in strutture adatte, ma non si possono prevedere né tempi di recupero né proposizioni di intendimenti lavorativi, in “persone” che richiedono coesione di intelletto e responsabilità ( art.27) e questo è in contrasto con il punto e) nel Preambolo della “Convenzione” dove si “riconosce che la disabilità è un concetto in evoluzione”. La comunità sociale dovrebbe essere il posto dove la persona umana in condizione di infermità, sia fisica che mentale, trovi solidarietà difesa e protezione, invece di quanti riconoscono più il valore degli animali e che in tale maniera pongono l’uomo allo stesso livello, se non sotto!.
Il dolore, purtroppo, è una sensazione molesta ed una condizione afflittiva cagionato da un male che tormenta le parti del corpo umano.
Ancora una volta si deve chiarificare la differenziazione che insiste con il termine generale di disabile:
a). disabile è colui che è privato di una forza fisica, sopravvenuta o congenita, di una certa incapacità fisica, ma conservante la lucidità mentale;
b). handicappato è colui che ha ricevuto uno svantaggio in partenza, od un sopravvenuto ostacolo, un intralcio, una inferiorità interna od esterna che impedisce il manifestare il massimo della potenzialità più psichica e meno fisica.
Ora la “Convenzione” non considera specificatamente l’handicappato mentale perché con la dicitura “menomazione mentale” (art.1) a n/s sommesso avviso non si chiarifica lo status delle condizioni del “soggetto nell’interazione”cioè nell’azione tra i due “fenomeni”, perché l’uso del termine malato mentale come sinonimo di persona con disabilità non è quello promosso dalla “Convenzione” stessa che segna un distacco molto chiaro da un approccio medico-assistenziale per un approccio di diritti umani.
Il legislatore italiano ha introdotto nella legge 104/1992 il termine handicappato ed in ottemperanza con l’art.4 della “Convenzione” fra gli obblighi generali, l’Italia si è impegnata ad adottare appropriate misure legislative, che nella nostra legislazione sono carenti da ben 30 anni per la malattia mentale. L’Italia non può esimersi dall’applicazione della “Convenzione sui diritti dei disabili”, ma “nell’interazione con le varie barriere” ed ”in condizioni di parità con gli altri “( art.1).
Per le diversificazioni tra disabile fisico e handicappato mentale, l’Italia deve apportare quelle appropriate misure legislative a tutela del malato mentale, ed in sede di ratifica del “Documento” inoltre può avvalersi dell’art.47 lettera 1) della “Convenzione” per inserire un proprio emendamento e sottoporlo al Segretario Generale delle Nazioni Unite nel prossimo erigendo “Comitato sui diritti delle persone con disabilità” (art.34).
Si deve aggiungere la speranza che il nuovo Governo Berlusconi si attivi per ratificare la “Convenzione”, perché il precedente Governo Prodi non ha provveduto a questa ratifica entro il 2007, come si era “impegnato a ridurre i tempi ed a promuovere le indispensabili misure legislative per la concreta approvazione dell’”Accordo”.( Ministro per la Solidarietà Sociale Paolo Ferrero).
In Italia il 3% della spesa sociale è destinato alle politiche familiari a fronte di una media europea che ha una percentuale almeno il doppio, nonostante promesse , spese elettoralistiche, spese inutili ( quante ce ne sono!) ecc., le politiche familiari non sono realizzate da nessun Governo, tanto meno si è legiferato sulla “materia specifica malattia mentale” e nell’ambito sanitario nel “Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 ( a differenza del Piano Sanitario 2003-2005) si riscontrano carenza di programmi di sostegno alle famiglie dove insiste l’handicappato mentale ( per esempio, non certo salvabile con 242,84 euro mensili di assegno di assistenza) , né indirizzi da apportare sul piano legislativo.
Il Piano Sanitario 2003-2005, rispetto a quello 2006-2008, considera impellenti, tra altre, tre necessità:
1.) la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Privati.
2.) l’attivazione di interventi nel disagio psichico nelle carceri secondo quanto previsto dal DL 22 giugno 199 n.230;
3.) programmi adeguati per il sostegno alle famiglie dei malati psichici.
In entrambi “Piani Sanitari” non viene considerata la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari che non solo contrastano con la legge 180 e 833 del 1978, ma configgono addirittura con i dettami Costituzionali, non adeguando la normativa penale con quella civile.
.Un sistema sanitario troppo lento nell’aiutare le persone affette da gravi forme di malattie mentali e da un sistema sociale-legislativo troppo lontano dalla realtà!
Infine per quanto si riferisce la salute mentale in Italia, il Governo, le Istituzioni, ma soprattutto il Parlamento Italiano, con sollecita urgenza apportino norme migliorative come sottoscritte con la “Convenzione Internazionale sui diritti delle persone con disabilità” adottando le “leggi appropriate”, come sancisce l’art.4, riconoscendo i diritti e le necessità degli handicappati mentali per la tutela della loro salute, per le loro famiglie e per garantire la sicurezza di tutti i cittadini, normative attese da ben 29 anni.
Ma non è vergognoso tutto ciò, mentre assistiamo quasi ogni giorno ad “esecuzioni” di persone innocenti”perché le Istituzioni sono in continua litigiosità e “dimenticano” o sono “disinteressate” a questo problema che è prettamente prioritario?.
Non si può continuamente e filosoficamente pensare alla ben nota logica gattopardesca del cambiare tutto, (riforme comprese che ogni giorno si citano senza concretizzarle), purché nulla muti?

Cristiani per servire

Dr. Franco Previte
Il Presidente

Nell’Unione Europea la discriminazione verso le persone disabili è contro ogni ideale.
Necessita un quadro normativo sull’assistenza psichiatrica uguale in tutta la UE.
Mentre i cittadini e la società in genere si chiedono il perché vengono disattese le priorità, come quelle derivanti dalla malattia mentale e non vengono urgentemente recepite, “l’urlo” verso le Istituzioni Italiane ed Europee rimane, per il momento inascoltato.
Le persone che portano nel loro corpo le disabilità, sono membri della nostra e della universale società civile ed in tale condizioni hanno il diritto di rimanere all’interno delle loro comunità e per questo devono ricevere il sostegno di cui hanno bisogno avvalendosi, se necessarie, di strutture che tutelino il loro diritti.
Il raggio d’intervento dovrebbe partire dai bambini alle persone adulte, tenendo ben presente le “Regole per le pari opportunità delle persone disabili” adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 1993.
Ma il termine disabilità ed handicap sono spesso utilizzati in maniera non chiara determinando confusione e scarse indicazioni verso la politica decisionale ignorando le imperfezioni e le deficienze nella società.
Nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità adottò una “Classificazione internazionale del danno sulla salute” facendo una chiara distinzione tra disabile ed handicappato
Sotto gli auspici dell’Organizzazione Mondiale della Sanità la “Classificazione” è stata rivista, riconfermata e rinominata nel 2005 presentando un quadro normalizzato per descrivere la funzionalità e la incapacità che costituiscono elementi molto importanti per una corretta gestione della salute.
Il legislatore italiano ha introdotto il 5 febbraio 1992 nella “legge-quadro n.104 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate” il termine handicappato e nei principi generale all’art. 2 detta i “Principi dell’ordinamento in materia di diritti, integrazione sociale e assistenza della persona handicappata”.
Disabile è colui/ colei che è privato di una forza fisica, sopravvenuta o congenita, di una certa incapacità fisica, ma conservante la lucidità mentale; handicappato è colui/colei che ha ricevuto uno svantaggio in partenza o un sopravvenuto ostacolo, un intralcio, una inferiorità interna che impedisce il manifestare il massimo della potenzialità più psichica e meno fisica.
Il fine e l’utilizzo di questa breve analisi delle due differenziazioni devono essere considerate alla luce ed alla stregua della realtà che insiste in Italia come in Europa, inoltre è quello di focalizzare l’attenzione sulle deficienze nell’ambiente e nelle attività organizzate della società che impediscono alle persone handicappate mentali di partecipare ad essere in uguali misure agli “altri” disabili.
Dal Rapporto curato dal Dipartimento Mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2001 emergono dati impressionanti :
1.) una persona su dieci è, o, sarà affetta da un qualsiasi disturbo mentale nella sua vita;
2.) oltre 450 milioni di persone nel mondo soffrono di un disturbo mentale;
24 milioni circa di persone soffrono di schizofrenia grave
20 milioni circa di persone tentano il suicidio e almeno 1 milione di loro riescono nell’intento;
3.) 50 milioni circa di persone soffrono di epilessia;
4.) 70 milioni circa di persone abusano di alcool ( anticamera della depressione-ansia);
5.) il 12% del carico globale soffre di disturbi mentali;
6.) la depressione da sola è la causa principale di disturbi neurologici e si classifica quarta e fra 20
anni diverrà la seconda malattia nel mondo;
7.) la malattia mentale colpisce il 2% della popolazione di tutti i Continenti.
Nella “Giornata Internazionale dei Diritti Umani” che si è svolta a Singapore il 10 dicembre 2006 è emerso che il 64% degli Stati membri ONU non hanno mai emanata alcuna legge in “materia di malattia mentale” o possiede una normativa in tal senso.
Nella “Giornata mondiale della Sanità 2007” l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inviato in tutto il mondo il messaggio di invito ad “investire mezzi finanziari sulla salute per costruire un futuro migliore”.
Questi pochi aridi dati statistici, ma molto significativi, indicativi, non ci distolgono dal pensare che gli “episodi di lucide follie” che avvengono quasi ogni giorno nel mondo compiuti da menti psicologicamente alterati o spinti da raptus, costituiscono una verità, una fondamentale dimostrazione di questo grave ed urgente disagio sociale che ci deve e deve richiamare tutti con urgenza alla realtà.
In ambito “Europa dei 27” data la diversificazione di leggi e trattamenti socio-sanitari necessita, un quadro normativo legislativo uguale, una normativa d’adeguamento comunitario e tale che i membri dell’UE possono indirizzarsi in maniera omogenea e con meccanismi di perequazione per migliorare la qualità dei servizi, cure ed eventuale inserimento sociale dei “malati”, garantendo sicurezza ai cittadini ed ampia tutela della salute per i sofferenti psichici, cittadini europei che necessitano più degli altri della promozione della loro dignità e dei loro diritti.
L’Associazione “Cristiani per servire” nel quadro della strategia di salute pubblica della UE nel Ricorso n.44330/06 del 2.11.2006 in atto alla “Corte Europea per i Diritti dell’Uomo” di Strasburgo ha richiesto con fiducia una sentenza :

1.) che si dia inizio per un provvedimento comunitario relativo ai portatori di handicap psichici, ripeto, uguale e nella stessa misura in tutti i 27 Stati membri della Unione Europea;
2.) che si possa da inizio all’adozione di servizi reali e specifici nell’ambito delle competenze economico-organizzative di ciascun membro UE, nel pieno rispetto della dignità delle persone malate psichicamente, cure adeguate in strutture ad alta tecnologia;
3.) che si possa attivare la ricerca scientifico-farmacologica e sviluppo tecnologico comunitario sulla malattia mentale, come ogni comparto sanitario;
4.) che si possa risolvere “il cruccio delle famiglie”di questi handicappati psichici attuando una formazione di un Fondo Economico Finanziario Speciale (dopo di noi) dove confluire quelle parti di patrimonio che per legge naturale andranno in eredità al “malato sopravissuto”, amministrato da un Ente Pubblico che costituisce naturale continuità che il singolo tutore, curatore, amministratore di sostegno non può garantire fisicamente. Inoltre per le persone indigenti un sostegno finanziario della Unione Europea.

A questo proposito il Parlamento Europeo nel promuovere (solo?) un maggiore impegno verso la salute mentale “ chiede che sia attribuita una maggiore priorità nelle politiche sanitarie” disponendo del “Settimo Programma-Quadro per la ricerca” la “ capacità atta ad assecondare la ricerca sulla salute mentale”, “ patologie che in Europa ogni anno interessano 18,4 milioni di persone fra i 18 ed i 65 anni colpiti da gravi forme di depressione”. “Restituire, quindi, dignità ad un gran numero di persone “ prosegue la nota del Parlamento Europeo “ esortando la Commissione Europea a sostenere la prosecuzione delle riforme negli Stati membri dove si è abusato della psichiatria, dell’uso di medicinali , del ricovero obbligato o di pratiche disumane” e “ ad inserire la riforma della psichiatria fra i punti da esaminare nel grado di adesione all’Unione Europea.”
In ambito europeo, Italia compresa, la parte della popolazione colpita da questo grave disagio sociale costituito dalla malattia mentale merita rispetto, comprensione e solidarietà contro ogni forma di emarginazione, segregazione e discriminazione.
Il 22 dicembre 1953 Dag Hammarskjòld, secondo Segretario Generale delle Nazioni Unite, nell’affermare che tutte le persone sono state create uguali con pari opportunità e dignità disse “ per costruire un mondo di giustizia dobbiamo essere giusti”, mentre il dr.Hiroshi Nakajima Direttore Generale dell’OMS nella “Conferenza Internazionale sul disagio della mente umana” nell’Aula Paolo VI in Vaticano ( 28-29-30 novembre1996) disse: “…noi dobbiamo offrire delle strutture sanitarie e non luoghi di custodia”, poiché “le malattie mentali necessitano di essere affrontate tanto dal punto di vista medico, quanto da quello psicologico-sociale”. ( Dolentium Hominum n.34 Anno XII 1997 n.1 Pontificio Consiglio Pastorale per gli Operatori Sanitari).
Lapidario e reale concetto, che ci deve e deve far profondamente meditare, è stato espresso concretamente dal dr. Gro Harem Brundtland Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nell’ottobre 2001 a conclusione della Presentazione nel 2001 del Rapporto del Dipartimento Mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità :

“ I Governi sono stati negligenti, così come lo sono state le Istituzioni Sanitarie Pubbliche. Per errore o per scelta, noi siamo tutti responsabili di questa situazione. In quanto Agenzia di Salute pubblica nel mondo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha una sola ed una sola strada : assicurare che la nostra sia l’ultima generazione a permettere che la vergogna e lo stigma regnino al di sopra della scienza e della ragione”.

Nessun commento, aspettiamo, almeno dalla UE, che il “fare” faccia seguito al “dire”!

Cristiani per servire
http://digilander.libero.it/cristianiperservire

Nuovi Paradigmi per la Pace

di Carlo Zonato

Da sette anni siamo entrati nel nuovo millennio e il sogno della pace è ancora lontano dalla realtà, ciononostante, la Federazione Universale della Pace(UPF) continua ad esplorare nuovi ed innovativi paradigmi per la pace.
Questi sono stati i temi di due recenti conferenze organizzate dalla UPF a Seul, Sud Corea in Luglio ed Agosto, con più di 300 partecipanti per conferenza, vi hanno partecipato ambasciatori, Capi religiosi, accademici e rappresentanti dei media.
Nella conferenza di Luglio, la maggior parte dei partecipanti proveniva da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia – le nazioni “Alleate” nella seconda Guerra Mondiale - mentre nella conferenza di Agosto i partecipanti venivano principalmente dalla Germania, Giappone e Italia, le nazioni dell’”Asse” sconfitte della seconda guerra mondiale.
Questi gruppi hanno posto l’accento sul fatto che gli ostacoli alla pace mondiale sorgono da limitazioni e contraddizioni dei regimi del dopo guerra.
Oltre al tema della pace, l’UPF sviluppa una costante attività diplomatica mirata al rinnovamento delle Nazioni Unite, l’Istituzione principale nata nel dopoguerra per promuovere la pace e la sicurezza internazionale, stabilita inizialmente dai paesi alleati. Fra le riforme proposte in questo campo, l’UPF ha suggerito alle Nazioni Unite di creare un “Consiglio Interreligioso” che includa rappresentanti di tutte le religioni. Questa proposta è stata inclusa in una risoluzione, sottoposta dal rappresentante delle Filippine, in cui si chiedeva di aprire un dialogo interreligioso mondiale sotto l’egida dell’ONU. La risoluzione è stata esaminata e si è trovato l’accordo di approfondire ulteriormente l’argomento in deliberazioni future, in accordo a Ricardo Sena, Direttore delle relazioni tra l’UPF e le Nazioni Unite.
E’ ormai noto a tutti che la sicurezza globale è profondamente influenzata da fattori religiosi, come dimostrano la Jihad islamica internazionale e la guerra al terrorismo. Nonostante ciò, i leaders dell’UPF ritengono che questo insorgere della violenza è un’interpretazione politica delle religioni, che può essere corretta solo se i rappresentanti del mondo religioso possono avere una voce autorevole negli affari internazionali. La Federazione non esita a chiedere di utilizzare la diplomazia e il governo globale incentrati sulla fede in Dio e nella realtà spirituale.
Jack Corley, assistente del Segretario Generale dell’UPF, ha affermato che: “Quando il mondo affronta problemi le cui soluzioni sono così elusive tramite strumenti politici, economici o militari, le persone disperatamente cercano opzioni orientate su valori certi, inclusa la religione”.
Thomas Walsh, Segretario Generale dell’UPF, immagina la religione come “una guida che dirige le persone e la loro condotta di vita verso una realtà più elevata, principi migliori e una visione più grande”.
L’UPF, da anni, ha dato vita a una Alleanza Globale di personalità col titolo di “Ambasciatori di Pace”, molti di loro sono ex-membri di governo, politici o diplomatici, che sono dedicati alla costruzione di una pace mondiale focalizzata sulla fede, la famiglia e la cooperazione per superare le barriere nazionali e religiose.
Un altro progetto per la pace ispirato dell’UPF è la “Iniziativa per la Pace in Medio Oriente” (MEPI), che ha portato diversi gruppi di persone in Israele e Palestina per studiare le problematiche di quell’area, creando poi un Forum per il dialogo e la riconciliazione in un’area tra le più calde del mondo.
Il progetto MEPI ha visto la partecipazione di decine di migliaia di persone di molte religioni e nazionalità in Medio Oriente per incontrarsi con Deputati e Rappresentanti istituzionali delle parti in conflitto.
Durante le visite era costante il timore di possibili attentati palestinesi ed era palpabile la tensione generata dalla divisione con un muro di 700 km. costruito da Israele, il MEPI, perciò, ha insistentemente chiesto una soluzione pacifica dei conflitto basandosi sul reciproco riconoscimento della fratellanza fra i due popoli e fra credenti nelle due fedi generate da un unico Padre spirituale: Abramo.

Mario Furlan e i suoi CITY ANGELS

Operano per la solidarietà e la Sicurezza

Mario Furlan ha fondato nel 1995 l'associazione di volontariato dei City Angels. Basco blu e giubba rossa, operano come volontari di strada d'emergenza. Distribuiscono cibo e vestiti ai senzatetto, soccorrono gli emarginati, i tossicomani, gli etilisti. Dai City Angels è nata la cooperativa Angel Service, che procura lavoro a chi avrebbe molta difficoltà a trovarlo.
Nati a Milano, gli Angels sono operativi anche a Roma, a Torino e in Albania, a Tirana, dove si occupano soprattutto di assistenza ai bambini di strada. Svolgono anche una funzione di deterrenza della criminalità: addestrati alle arti marziali, scortano anziani che ritirano la pensione, donne sole e chiunque, attraversando una zona malfamata, possa aver bisogno di un Angelo. E intervengono direttamente in caso di scippo, borseggio, rissa o aggressione, chiamando la Polizia.
L'età media dei City Angels è dai 18 ai 40 anni. Sono per due terzi uomini e un terzo donne. E appartengono a 13 nazionalità: ci sono Angels marocchini, rumeni, albanesi, peruviani, avoriani, nigeriani, filippini, russi, ucraini, moldavi, macedoni, polacchi, egiziani, tunisini: razze, etnie e religioni diverse unite da un unico scopo: essere volontari in prima linea al servizio dei più deboli.

Chi sono e come operano gli “Angels” nelle zone più a rischio
delle città dove operano

Intervista di Alberto Zoffili

D: Quali sono le domande alle quali i giovani non trovano risposte?
R: Sono le domande di base, quelle esistenziali che gli uomini si sono sempre posti.
Cosa voglio veramente nella mia vita? Cosa mi rende felice, che cosa mi da soddisfazione? Per che cosa vale la pena vivere?
In genere gli uomini cercano di rispondere a queste domande o con una fede religiosa, o con una specie di religione laica nell’uomo o in se stessi. Tanti giovani d’oggi non hanno nè una fede religiosa nè una forte convinzione interiore e morale per cui sono allo sbando e non riescono a dare una risposta a queste domande.

D: In un mondo di giovani sempre più spinti verso il proprio interesse e tornaconto, quali sono le leve sulle quali riesci a lavorare come formatore per tirar fuori il meglio che è in loro?
R: Cerco di aiutarli a guardasi dentro, perché i giovani vanno avanti per forza d’inerzia. Quasi non si rendono conto di quello che fanno: fanno certe cose perché gli amici fanno così, perché è normale fare così, perché c’é una pressione sociale a fare così. Quindi cerco di aiutarli a fermarsi e a riflettere chidendosi: “quello che sto facendo è veramente quello che voglio fare” oppure “mi aiuta veramente a raggiungere quello che voglio nella mia vita?”
“Adesso sono qui, ma tra 1 anno, 2 anni, 5 anni, dove vorrò essere? Con chi vorrò essere? Cosa vorrò fare?” Insomma, cerci di aiutarli principalmente a riflettere e a guardarsi dentro.

D: Secondo te c’è ancora un desiderio o una predisposizione da parte dei giovani a guardarsi dentro per quanto difficile ciò possa essere?
R: E’ una spinta presente in tutti i giovani, molti non ascoltno questa esigenza che viene dal cuore, fanno finta di niente e vanno avanti come se nulla fosse, ma sono domande che fanno parte di tutti gli esseri umani e in particolar modo dei giovani. Sono i giovani quelli che hanno la vita davanti e che quindi più degli adulti e più degli anziani si pongono la domanda: “Dove sto andando? Ho la vita davanti e cosa ne voglio fare di questa vita?”

D: La nostra società ci prospetta vari modelli di famiglia, quale tipo di appeal ha ancora la famiglia nei confronti dei giovani e soprattutto che tipo di ruolo può rivestire la famiglia per le nuove generazioni?
R: La famiglia è la base della società e al di là di quello che può sembrare, la famiglia ha ancora un fortissimo appeal per i giovani checché se ne dica, perché c’è bisogno di una stabilità familiare, sentimentale. C’è bisogno di costruire qualcosa di vero e di duraturo nel tempo con la persona amata. La famiglia è un’istituzione che non tramonterà mai, può cambiare in alcuni suoi aspetti, cambiare negli anni, però la famiglia come base della società non morirà mai, ci sarà sempre e questa è un’esigenza che rimane viva anche nei giovani persino in quelli che non sembra pensino a un futuro familiare, a farsi una famiglia, poi il fatto che si sposino o non si sposino, questo è secondario. Il fatto che stiano con una persona con la quale vivere e avere dei figli, questa è una cosa che prima o poi tutti sentono.
Quali reali cambiamenti sono avvenuti tra i giovani di oggi e quelli della tua generazione?
Dipende a quale tempo si guarda; negli anni sessanta e settanta i giovani erano politicizzati e ribelli, invece negli anni ottanta e novanta i giovani erano idealisti e pensavano al guadagno e famiglia, mentre i giovani d’oggi mi sembrano spaesati, chiusi in se stessi e insicuri. Non sanno cosa vogliono o dove vogliono andare, sentono che vengono meno i punti di riferimento. Però c’è d’altra parte la riscoperta dei valori forti da parte dei giovani, l’incremento dell’interesse religioso fra i giovani in Italia che tocca molte religioni, non solo il cattolicesimo ma anche il protestantesimo ad esempio e anche l’Islam. Certo, anche nei loro aspetti negativi, per esempio l’Islam fondamentalista ha anche molto appiglio sui giovani, sopratutto in occidente. I fondamentalisti islamici in Europa sono ragazzi dai venti ai trent’anni, non i cinquantenni o sessantenni e questo ci dimostra quanto sia importante la presenza di punti di riferimento chiari e precisi.

D: Ritieni che essere giovani oggi sia più difficile rispetto a qualche generazione fa?
R: Tutto sommato direi di sì, perché oggi c’è tanta insicurezza economica. Fino a qualche tempo fa era facile per un giovane trovare lavoro, mentre adesso anche per un giovane laureato che ha fatto tre master è molto difficile trovare un lavoro. Questo evidenzia quanto dicevo poco fa in merito alla mancanza di punti di riferimento sicuri anche nella famiglia e tutto ciò mina il senso di sicurezza dei giovani. Come fa un ragazzo a progettare un futuro sicuro se non ha lavoro stabile?

D: Com’è nata l’idea dei City Angels? Che strada hai percorso per realizzarla?
R: L’idea è nata perché a un certo punto della mia vita lavoravo a tempo pieno come giornalista alla Mondadori, e non ero contento della vita che facevo, non volevo più raccontare delle cose che succedevano nel mondo ma piuttosto volevo migliorarle. E così ho fondato i City Angels, anche sulla spinta di un momento di crisi personale, un momento di incoscienza che poi alla luce dei fatti, col senno di poi, si è rivelata provvidenziale.

D: Quando ti muovi con il tuo gruppo dei City Angels come affronti il “branco”, le situazioni di tensione? Che ruolo svolgi e che tattiche usate per farvi ascoltare, per intavolare un discorso con queste persone?
R: Queste persone le conosciamo e riusciamo a instaurare un rapporto con loro quando riusciamo a far capire che non siamo lì per punirle ma per aiutarle. In genere se tu lo fai con l’attitudine giusta, dopo un attimo di perplessità iniziale, queste persone capiscono.


D: Dove siete localizzati? Dove operate?
R: Siamo a Milano, Torino, Roma e Varese e operiamo nei punti più a rischio delle città, dove c’è bisogno della presenza di “angeli”. Quindi operiamo generalmente nelle zone delle stazioni, che sono quelle tipicamente più brutte. A Milano nella zona della Stazione Centrale, a Torino generalmente nella zona di San Salvario che è un quartiere multi-etnico con parecchie difficoltà. A Roma siamo nella zona della Stazione Tiburtina e a Varese che comunque è più tranquilla rispetto alle altre città operiamo per esempio nella zona della Stazione Nord che è magari quella più agitata. Andiamo sia nelle zone più a rischio di borseggi che in zone dove ci sono i senzatetto, i poveri, o i balordi. Ovunque ci siano persone da proteggere e persone da aiutare.

D: Il vostro intervento è solo in direzione di attenuare i disagi oppure operate anche preventivamente affinché non accadano?
R: E’ sopratutto preventivo. I nostri ragazzi girano in divisa in modo che siamo visibili e le persone, sopratutto donne, chiedono di essere accompagnate da noi perché hanno paura di andare a casa o di andare in giro da sole sulle strade nelle ore notturne. Segnaliamo situazioni particolari alla polizia e interveniamo nei casi in cui sappiamo che è nel nostro potere, garantendo l’incolumità dei nostri volontari che per noi è la cosa più importante.

D: Con il tuo messaggio riesci anche a raggiungere i ragazzi delle scuole medie inferiori e superiori?
R: I City Angels sono ragazzi dai 18 anni in su, quindi, sì Agiamo in alcune delle scuole superiori.
Ci sono anche i City Angels Juniores, che ovviamente fanno attività diverse, non quelle per strada. Sono i ragazzi delle scuole medie inferiori e superiori: fanno attività di compagnia agli anziani nelle case di riposo.

D: Come ti vedono questi ragazzi e quali sono le domande più ricorrenti che ti pongono?
R: A volte mi vedono come un personaggio dei fumetti. Magari i City Angels fanno pensare ai Charlie’s Angels, quindi forse come una specie di super-eroi. Chiedono com’è la nostra attività e sono curiosi di sapere com’è la situazione in strada, magari la violenza. All’inizio hanno le idee un po’ confuse perché hanno una visione un pò cinematografica e poi invece quando conoscono la situazione dell’emarginazione e della violenza per strada sono un pò più sull’attenti ed è un modo per sensibilizzarli e aiutarli a forgiare il loro senso civico insegnando loro che è nostro dovere di esseri umani essere solidali con chi ha bisogno.

D: Secondo te è colmabile il gap generazionale?
R: Credo che sia più risolvibile oggi di quanto non fosse fino a qualche tempo fa. Negli anni della contestazione cioè gli anni sessanta e settanta c’era un gap gernerazionale enorme fra i giovani e quelli che venivano considerati i “matusa”. Addirittura un motto del tempo diceva di non fidarsi di nessuno che avesse più di trent’anni, perché era di un’altra generazione, un’altra mentalità. C’era la contestazione verso la famiglia, le istituzioni, e le regole dei vecchi. Oggi non vedo questa stessa contestazione, anzi mi sembra che i giovani abbiano generalmente buoni rapporti con la loro famiglia di origine anche perché stentano ad andarsene di casa. Magari c’è incomprensione, quello sì, ma contestazione no.

D: Come giornalista, quale ruolo positivo dovrebbero svolgere i Mass-Media, secondo te?
R: Penso che i mass media dovrebbero dedicarsi di meno allo “scoop”, meno alla notizia eclatante, gonfiata che ha scarsa aderenza alla realtà. Dovrebbero usare più notizie verificate e vere. Sono putroppo al serivizio di un “padrone” e soprattutto nell’occidente è un fatto vero e presente, i giornali, televisione, mezzi di informazione partono con un preconcetto: devono assolutamente dimostrare una tesi. Certi giornali e televisioni schierati non parleranno mai male di un certo personaggio ect...

D: I mass media potrebbero avere anche una funzione formativa?
R: Io penso di sì. Penso che potrebbero svolgere la funzione formativa ma senza rivestire il ruolo di educatori nel senso stretto della parola ma semplicemente mettendo in risalto quelle cose che non vanno, ma anche quelle che vanno, le persone che si impegnano, notizie positive e notizie che danno speranza, non soltanto i pugni nello stomaco. Notizie educative, messaggi di speranza ect... perché non proporre con più attenzione anche questi?

D: Come genitore, come te lo immagini il mondo nel quale vivranno i tuoi figli? E soprattutto quale contributo pensi sia necessario che ognuno di noi dia per far sì che questo mondo migliori?
R: Io penso che si tratta di guardare oltre il proprio naso. Il mondo sta andando probabilmente verso la catastrofe ecologica perché gli uomini non sanno guardare al di là del proprio naso. Probabilmente l’emergenza più grande dei prossimi anni sarà quella ambientale. Però alla base c’è un’emergenza più grande, quella della sensibilità degli uomini. Perché l’emergenza ambientale potrà essere risolta se prima gli uomini capiranno che l’ambiente e la terra sono cose che ci riguardono tutti. Quindi c’è l’esigenza di avere un’apertura di mente e di cuore e di andare al di là del proprio particolare. Questo vale non solo per l’ambiente ma per tutti gli aspetti che riguardono la civile convivenza.

D: Quali sono i tuoi progetti futuri?
R: Nel mio piccolo, vorrei riuscire a lasciare una traccia positiva che resterà anche quando non ci sarò piu’. Quindi queste tracce positive sono, da una parte le mie figlie e mi auguro di poter essere un buon esempio per loro, e dall’altra parte una specie di figlio: i City Angels che mi auguro si possano espandere in Italia e all’estero e che con gli anni possano diventare un grande simbolo di solidarietà e di speranza.

D: Quindi avete anche l’intenzione di espandervi all’estero?
R: Sì, siamo già in Albania, Tirana e spero che anche attravero la UPF sarà possibile collaborare al livello internazionale.

La promessa del Bacino del Pacifico

L’era del Bacino del Pacifico ha enormi implicazioni per quanto riguarda la ricerca della Pace. Le piccole nazioni isola che costellano l’Oceano Pacifico all’ombra delle grandi potenze si trovano ad affrontare delle sfide molto serie, da un punto di vista economico, ambientale e geopolitico, sfide che nessuna può affrontare da sola

di Chung Hwan Kwak

Oltre cento anni fa, Theodore Roosevelt osservò che “l’era dell’Atlantico è ora al culmine del suo sviluppo, e presto esaurirà le risorse a propria disposizione. Oggi è sul punto di sorgere l’era del Pacifico, che è destinata ad essere l’era più grande di tutte”. Più recentemente, nel 1984, l’allora Primo Ministro del Giappone, Nakasone, dichiarò: “L’era del Pacifico è storicamente inevitabile”.
In termini di influenza economica, la predominanza del Bacino del Pacifico è oggi un fatto compiuto. In base ad un’analisi del FMI, gli scambi transpacifici hanno superato gli scambi transatlantici già più di venti anni fa. Nel 1988, i volumi commerciali tra le nazioni del Bacino del Pacifico erano già il doppio di quelli con gli Stati Uniti, e tre volte il commercio della regione con l’Europa.
Ora, ai miracoli economici del dopoguerra del Giappone, della Corea del Sud e di altri Paesi del Sud-est asiatico, dobbiamo aggiungere l’arrivo in forze nel campo dell’economia globale di Russia e Cina. Gli economisti predicono che entro venti anni la Cina diverrà la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti; in quel momento le due più forti economie mondiali si fronteggeranno dalle due coste del Pacifico.
L’era del Bacino del Pacifico ha enormi implicazioni per quanto riguarda la ricerca della Pace. Le piccole nazioni isola che costellano l’Oceano Pacifico all’ombra delle grandi potenze si trovano ad affrontare delle sfide molto serie, da un punto di vista economico, ambientale e geopolitico, sfide che nessuna può affrontare da sola. Nei suoi recenti discorsi pubblici nella Regione del Pacifico, il Rev. Dr. Moon ha invitato queste nazioni, oggi separate tra di loro (tra queste Giappone, Taiwan, Filippine, Indonesia, Australia, Nuova Zelanda) a formare una Federazione delle Isole del Pacifico che possa salvaguardare gli interessi collettivi e gestire in modo oculato le illimitate risorse naturali dell’oceano. Basata sulle grandi risorse culturali e spirituali dei popoli del Bacino del Pacifico, questa Federazione deve giungere a costituire un significativo punto di riferimento per quanto riguarda la leadership, e per la creazione ed il supporto di società pacifiche.
Anche se il commercio transpacifico già mette sotto pressione i porti sia asiatici che statunitensi, lo scambio di beni e di risorse tra le due sponde dell’oceano è ancora lontano dal raggiungere il suo culmine potenziale. Le considerazioni commerciali diventano quindi un ulteriore fattore a favore dell’iniziativa di pace globale dello Stretto di Bering, proposta dal Dr. Moon e da altre persone di ampie vedute in Russia e negli Stati Uniti.
La costruzione di tunnel, ed il loro collegamento con le reti ferroviarie esistenti, con le linee elettriche, gli oleodotti, i gasdotti già in uso, è davvero un progetto che spianerà la strada per raggiungere la pace globale, perché può catalizzare la collaborazione pacifica tra le più importanti nazioni del mondo. Questo ponte / tunnel della pace potrebbe veramente “abbracciare” l’Oceano pacifico, e costituire un’ulteriore e concreta connessione tra i popoli e le nazioni del Bacino del Pacifico. In contemporanea con questo progetto, tutte le nazioni potenzieranno le loro reti di trasporto di merci, di energia e di informazioni, in modo da poter godere dei benefici della connessione con questo "corridoio di pace".
Con il passaggio delle fasi della storia dalla Mezzaluna fertile al Mediterraneo, con la successiva ascesa dell’Europa, e con il successivo trapianto della cultura occidentale sull’altra sponda dell’Atlantico, l’era del Bacino del Pacifico offre una attraente promessa di pace, una cultura globale “pacifica” che abbraccia sia le antiche civiltà dell’Asia che la civiltà, ormai globalizzata, dell’Occidente. La formazione della Federazione delle Nazioni Isola, e lo sviluppo dell’iniziativa di pace globale dello Stretto di Bering sono due progetti fondamentali volti a raggiungere quel fine.

Chung Hwan Kwak, Presidente Internazionale della Federazione Universale della Pace

Pace per il Kashmir?

La questione del Kashmir è, rispetto alla idea di terrorismo a cui siamo affezionati come occidentali o a essa guidati come eredi del post September Eleven, una questione spinosa e non facile da risolvere in modo univoco.

Marco Lombardi - Università Cattolica
Progetto ITSTIME - www.itstime.it

È ottobre, più o meno il giorno dell’anniversario del terremoto che ha squassato il Kashmir (8 ottobre 2005), provocando circa 80.000 morti e altrettanto numero di feriti. A Muzaffarabad, capitale dell’Azad Kashmir (Kashmir Libero), l’area pakistana della regione divisa con l’India, l’aria è tersa, il clima piacevole, le case ancora a terra, molte tende in piedi, le NGO al lavoro.
Tra queste Jamat-Ut-Dawa garantisce cura e assistenza nell’ospedale realizzato sotto un grande capannone. All’incontro con i responsabili di Jamat-Ud-Dawa, nel loro ospedale, arrivo accompagnato da alcuni membri del Kashmir Centre Rawalpindi - Kashmir Liberation Cell che mi hanno prima annunciato: “andiamo a trovare quelli che chiamate terroristi!”. L’incontro è disteso, con reciproche battute sull’essere terroristi, sulla evidente buona organizzazione del gruppo ed efficacia del lavoro svolto, sul loro progetto a lungo termine, non essendo intenzionati a lasciare Muzaffarab, ma a continuare l’assistenza medica alla popolazione. Jamat–Ut-Dawa è una organizzazione islamica, fondata nel 1985 a Lahore in Pakistan, prima conosciuta con il nome Markaz Daw'a wal Irshad e considerata strettamente connessa a Lashkar-e-Toiba (LeT), entrata nella lista nera del terrorismo internazionale perché legata ad Al Qaeda.
Qualche giorno dopo, a Islamabad, incontro in un piccolo ufficio un anziano signore che si chiama Amanullah Khan presidente del Jammu & Kashmir Liberation Front. Amanullah è considerato non gradito dagli stati occidentali, è finito in galera arrestato da Europol, poi rientrato in Pakistan per le pressioni governative. Ma non può lasciare il Paese, perché non gradito neppure in questa terra.
Il Jammu & Kashmir Liberation Front (JKLF) è stato fondato nel 1977 a Birmigham proprio da Amanullah Khan e da Maqboo Bhat (impiccato a Dehli nel 1984): l’organizzazione, prima presente in Europa, Usa e Medio Oriente, dal 1982 ha sedi in Pakistan e Azad Kashmir, si definisce nazionalista e non islamista. Più volte in occidente si è sostenuta una significativa collusione, già negli anni Ottanta, tra i servizi di intelligence pakistani, il presidente e vice presidente del JKLF, allo scopo di sviluppare strategie di supporto al reclutamento di giovani in Azad Kashmir, per rimpinguare campi di addestramento alla guerriglia vicino alla Line of Controll (LoC).
Alcuni giorni dopo questi incontri mi contattano due ex-combattenti kashmiri: ci incontriamo al bar dell’hotel. Sono arrivati dal kashmir indiano, hanno combattuto sulla LoC. Sono tra quelli che hanno fatto fronte a 750.000 soldati indiani che sono disposti sulla linea di controllo: un esercito poco conosciuto accusato di numerose violazioni dei diritti umani da Human Rights Watch insieme ad altre NGO che con estrema difficoltà riescono ad avere informazioni delle violenze, omicidi e rapimenti che avvengono nel Kashmir indiano. Sono originari di Srinagar (India), hanno avuto parenti e amici scomparsi e uccisi. Mi dicono: “come si fa , quando si vive in quella situazione a non prendere in mano le armi per combattere chi ti ha ucciso il fratello o violentato la moglie?... I campi dei terroristi? I campi della guerriglia ci sono, perché si impara a usare il fucile e si combatte, perché vuoi vendicare chi ti è stato ammazzato”. Ma ci si stanca, il tempo passa e si ripara a Islamabad dove si prova a ottenere con la politica quanto non si è potuto ottenere con le armi, con le quali ci si è resi conto che si è forse solo ottenuta la vendetta.
Nel mio percorso tra Islamabad, Muzaffarabad, Mirpur e le altre aree del Pakistan e Azad Kashmir sono stato accompagno da Sardar Usman Ali: figlio dell’attuale Primo Ministro dell’Azad Kashmir Sardar Attique Ahmed Khan, di cui ero ospite, e nipote di Sardar Mohammad Ibrahim Khan: il primo (e poi cinque volte tale) presidente del Kashmir. Usman parla inglese corretto, è spesso a Bruxelles, si occupa dei giovani musulmani di All Jammu & Kashmir Muslim Conference (il partito di maggioranza), ha una famiglia, vive nel mito del nonno e ha una buona relazione “dialettica” col padre. È un giovane dei nostri tempi che studia da primo ministro parlando a due o tre cellulari.
Eppure: potrebbero essere tutti terroristi. Perché sono musulmani, perché vivono in Pakistan e Kashmir, perché molti di loro combattono, perché sull’altra sponda c’è l’India. Per molti occidentali – ma non solo – è facile usare questa etichetta. La questione del Kashmir è, rispetto alla idea di terrorismo a cui siamo affezionati come occidentali o a essa guidati come eredi del post September Eleven, una questione spinosa e non facile da risolvere in modo univoco.
I presupposti, in breve, rimandano alla separazione tra India e Pakistan nel 1947, quando l’India Britannica spaccandosi vide la maggioranza della popolazione musulmana confluire nel Pakistan e gli hindu in India. Tra le varie risoluzioni, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 24 gennaio 1957, emana la numero 122 in cui si scrive che “l’assetto finale dello Stato del Jammu & Kashmir sarà definito in accordo con la volontà del popolo, espressa attraverso il metodo democratico di un libero e imparziale plebiscito condotto sotto la tutela delle Nazioni Unite”. Si afferma pertanto la autodeterminazione del popola kashmiro nel definire le sue sorti. Il popolo non si è mai espresso, la consultazione non ha mai avuto luogo e, oggi, il Kashmir è spaccato in due. Tra Pakistan e India: ciascuno dei quali ha specifici interessi a far sì che il Kashmir resti diviso. E senza pace? Nella situazione sopra descritta, di perdurante conflitto, è estremamente difficile rispondere alla domanda “chi sono i terroristi?” e forse impossibile applicare gli strumenti definitori comunemente usati dall’Occidente e consueti alla nostra cultura.
La questione del Kashimr gira attorno a numerosi nodi ed è complicata da una serie di fattori.
Alla fine della guerra sovietica in Afghanistan e poi del crollo dell’Unione, sicuramente si è assistito a un flusso di mujahiddin verso il Kashmir che si sono confusi con i combattenti kashmiri. Infatti, le ragioni per cui si combatte sulla LoC sono frequentemente distinte: per alcuni si combatte per liberare il Kashmir, per altri si combatte per costruire un nuovo stato islamico.
La storia insegna che un’area di conflitto che interessa una popolazione islamica è, potenzialmente, un forte polo di attrazione per tutti i combattenti islamisti. Nel progetto opportunistico del califfato e nella ideologia dell’umma, la solidarietà si esprime anche con le armi: lo stato di vulnerabilità istituito da ogni conflitto costituisce sempre opportunità politica.
Il Kashmir stesso è stato, nel periodo recente, oggetto dei progetti qaedisti essendo identificato come luogo potenzialmente destinato a trasformarsi in uno stato islamista. Se le vicende dell’attacco in Afghanistan dopo l’Unidici Settembre, poi la guerra in Iraq del 2003 hanno necessariamente modificato i piani internazionalisti degli islamisti, che si sono rivolti ad altre aree dell’Asia Centrale, tuttavia l’infiltrazione – anche in connivenza con alcune agenzie degli stati interessati - era già avvenuta.
Infine, la cosiddetta guerra al terrorismo sta giustificando in Asia Centrale una serie di interventi i cui interessi sono, in realtà, di tipo nazionale (politico ed economico). Dal mio punto di vista, infatti, il crollo dell’impero sovietico e il riframmentarsi dell’Asia Centrale nella forma dei khanati ottocenteschi ha rilanciato il teatro del Grande Gioco del XIX secolo, in cui l’obiettivo dello scontro è l’usuale controllo delle linee di commercio ora definite soprattutto rispetto alle “pipeline” del greggio e del gas: Russia da nord, Cina da est, Anglo Americani da sud si stanno scontrando nei territori dell’Asia Centrale più duramente di quanto sembri rispetto alle formali dichiarazioni di amicizia che – per fortuna nostra – appartengono al mondo globale.
E in mezzo c’è il Kashmir, la cui soluzione al problema è schiacciata dagli interessi di questo Grande Gioco, la cui popolazione è schiacciata dal disinteresse - meglio dall’interesse “per altro” – di tutte le potenze. Un’area in cui proprio l’Unione Europea potrebbe svolgere un ruolo chiave per facilitare la soluzione del conflitto, garantendo al futuro del mondo un territorio libero, collocato al crocevia delle potenze nucleari asiatiche.
Sì, perché alla fine, il disastro del Kashmir evidenzia l’imbelle incapacità delle Nazioni Unite a proporsi come una seria associazione di nazioni capace di dire la sua nel mondo globale; mostra le spinte economiche e commerciali che guidano la politica degli imperi; richiama ciascuno di noi all’impegno che insieme, forti di una consapevolezza individualmente assunta, dobbiamo produrre per promuovere la pace nei valori che condividiamo.

ITSTIME - Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies è un progetto nato nel Dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il suo carattere è altamente interdisciplinare per affrontare i temi complessi della sicurezza secondo una molteplicità di prospettive.
Ruolo accademico e attività di ricerca
• dal settembre 2002, professore associato (seconda fascia) presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (abilitato il 13/1/01 in sociologia generale, SPS-05 e confermato a ottobre 2005).
• 1994 - 2002, ricercatore di ruolo presso il Dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, facoltà di Lettere e Filosofia, Milano.
• attività di ricerca e di studio nel campo della sociologia. Esperto di gestione del rischio, con particolare attenzione alla comunicazione, e di fenomeni legati alle politiche di sicurezza e terrorismo. Coordinatore del progetto ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies

L’Armenia nel grande gioco del Caucaso

Carlo Alberto Tabacchi
Analista Politica Estera, Indipendente

Nello Scacchiere internazionale, il Caucaso è destinato a crescere di importanza come passaggio di fonti energetiche tra Asia ed Europa e come possibile confronto geo-strategico tra Mosca e Washington

Stretta tra Giorgia, Turchia, Iran ed Azerbaijan, l’Armenia vanta un passato tra i più antichi del mondo. Gli armeni emersero come popolo nel VI secolo a.C. quando le tribù hayk si fusero in una nazione guidata da un re e si insediarono sulle sponde del fiume Van e nelle pianure ai piedi del monte Ararat. I primi re combatterono contro la Persia e i paesi del Mediterraneo nel tentativo di espandersi o respingere gli invasori. Divisa in seguito tra Persia zoroastrana e Roma pagana, il piccolo paese caucasico (la cui estensione è pari attualmente a quella della Lombardia) fu il primo a proclamarsi cristiano: da allora, la chiesa resta un pilastro dell’identità del paese.
Nel secolo scorso, l’Armenia è venuta alla ribalta per il noto genocidio: nel 1915-1916 oltre un milione di armeni, a quell’epoca cittadini dell’impero ottomano, venne annientato dal governo nazionalista dei Giovani Turchi. Il pretesto fu quello di isolate ribellioni: l’accusa di tramare con la Russia – piuttosto interessata ai domini del sultano – contro il potere centrale, giustificò gli assassinii di massa di intellettuali, soldati, gente comune e la vasta deportazione di donne, vecchi e bambini. Quindi, un vero e proprio massacro, il “primo genocidio del Novecento”: in Armenia è chiamato Metz Yeghérn, - il grande male – è ricordato solennemente il 24 Aprile di ogni anno nella collina di Tsitsernakaberd, vicino la capitale,nel Mausoleo del Genocidio.
Due considerevoli fattori hanno inciso nella storia recente dell’Armenia, che ancora la condizionano: il devastante terremoto del dicembre 1988 nella regione settentrionale di Lori (oltre 25.000 morti) e la sanguinosa guerra con il confinante Azerbaijan (1989-1994): l’aspro contenzioso riguardava l’enclave a maggioranza armena del Nagorno-Karabakh (in persiano nagorno vuol dire giardino, in turco Kara significa nero ed in russo bakh montagnoso) che fu liberata dalle truppe di Yerevan. Il nagorno (capitale Stepanakert) è una regione autonoma ed il suo riconoscimento ufficiale riguarda solamente l’Armenia.
Dopo la dissoluzione dell’URSS nel 1991, nel settembre di quell’anno gli armeni votarono a favore dell’indipendenza. Negli anni successivi una lenta ripresa economica ha risollevato gli animi ed il paese ha cominciato a sviluppare una politica estera più attiva basata su un bilanciamento di interessi con l’Unione Europea, Russia e Stati Uniti.
L’elemento dominante rimane la soluzione del suo isolamento, centrato sul blocco del commercio e dei trasporti nonché dell’embargo imposto dai confinanti Azerbaijan e Turchia. Le difficili relazioni di Yerevan con Ankara dipendono dall’appoggio turco a Baku per la regione del Nagorno e sono complicate dal desiderio della potente diaspora armena (oltre 4 milioni fuori del paese) di un riconoscimento internazionale del genocidio da parte turca: come è noto, il governo di Ankara si ostina a negarlo.
RELAZIONI CON L’UNIONE EUROPEA
È avviata un’integrazione nei settori economici, politici e della sicurezza affinché l’Armenia diventi una nazione più democratica e più stabile.
RELAZIONI CON LA FEDERAZIONE RUSSA.
Mosca (fino al 1991 l’Armenia apparteneva all’URSS) la considera da tempo come alleato strategico nel Caucaso. Alternativamente, molti armeni sviluppano rapporti con la Russia: più una necessità che un lusso. Da ricordare inoltre che Yerevan ha appoggiato le operazioni russe sia in Daghestan che in Cecenia.
Il collegamento strategico si è trasformato da un’associazione su convenienze bilaterali ad una piattaforma che serve gli interessi moscoviti fondati sulla sicurezza armena. Essendo note le frizioni Gorgia-Russia, la base militare russa in Armenia di Choban Kara (con personale russo di 5.000 elementi) assume importanza in vista della crescente corsa al riarmo della regione.
RELAZIONI CON GLI STATI UNITI.
Per ragioni storiche e politiche l’attiva diaspora armena-americana esercita una sostanziosa influenza.
Washington, oltre a ciò, vede, nella lotta al terrorismo, Armenia, Azerbaijan e Georgia come elementi rilevanti nelle relazioni strategiche con Mosca.
RELAZIONI CON L’AZERBAIJAN.
Restano il più significativo impedimento allo sviluppo economico e alla integrazione regionale. Il non ufficiale “stato di guerra” tra i due paesi elude l’Armenia da fondamentali progetti di energia, come l’oleodotto Baku-Tblisi-Ceyan ed il gasdotto Baku-Tblisi-Erzurum nonché la rete ferroviaria Kars-Akhalkalaki-Tblisi-Baku.
Come già detto, l’enclave del Nagorno condiziona pesantemente i rapporti bilaterali. L’Azerbaijan ha proposto uno status di autonomia per il Nagorno dentro il proprio territorio, chiedendo il ritiro incondizionato armeno che occupa il territorio; Yeravan da parte sua blocca ogni ulteriore sviluppo.
RELAZIONI CON LA GEORGIA.
Il governo di Tblisi tende a relegare Yerevan in una posizione subordinata, più debole. Un fattore di tensione proviene dal distretto di Javakheti nel sud delle regioni separatiste più conosciute, tipo l’Abkhazia e la Ossezia del Sud.
Inoltre, l’Armenia soffre economicamente dei contrasti periodici con chiusura delle frontiere tra Georgia e Russia meridionale.
RELAZIONI CON L’IRAN.
Incoraggianti se non buoni gli affari tra Iran, vasto paese teocratico sciita, ed Armenia,piccolo paese cristiano secolare: restano vincoli basati su vantaggi reciprochi più che su affinità naturali.
Occorre ricordare la nutrita minoranza etnica azera (e quindi anti-armena) nel nord dell’Iran che inquieta non poco la stessa Teheran: il confine con l’Iran riveste notevole importanza proprio per il blocco di confine con Turchia e Azerbaijan.
Ecco che il quadro del Caucaso resta complesso ed instabile: babele di lingue, mosaico etnico, differenze religiose, accesi nazionalismi, rivendicazioni territoriali.
In conclusione questa area diventerà una regione sempre più rilevante per la presenza di medie potenze (Turchia ed Iran), risorse energetiche e passaggio di strategiche pipe-lines (oleodotti e gasdotti) tra Asia ed Europa ed il conseguente forte interesse di USA e Russia.


MAPPA DEGLI ARMENI IN ITALIA.
In Italia gli armeni si sono perfettamente integrati; si presume che il numero non superi le 2000 unità. L’istituzione più rappresentativa della comunità, riconosciuta anche dal Presidente della Repubblica Italiana, è l’Unione degli armeni d’Italia, nata nel primo dopoguerra.
A Milano i centri di ritrovo sono la chiesa di Via Jommelli e la Casa Armena (Piazza Velasca), dove vengono organizzati incontri ed eventi culturali aperti a tutta la cittadinanza.
Venezia rappresenta storicamente la città che ha la più lunga consuetudine: in laguna l’isola di San Lazzaro, aperta ai visitatori, ospita ancora oggi la comunità religiosa dei padri mechitaristi. Piccoli nuclei armeni si trovano anche a Udine, Trieste, Genova, Parma e Bari.

LE FAMIGLIE SANE SONO I PILASTRI DELLA PACE

Hermenegilde Rwantabagudela
Ambasciatore di Pace

Hermenegilde Rwantabagu è un Responsabile Capo negli Affari Accademici all’Università del Burundi.
“La violenza e l’insicurezza inflitta alle città africane dai bambini di strada ed il loro reclutamento e coinvolgimento massiccio, di questi giovani, nella Guerra che ha devastato il continente, sono chiare testimonianze del fallimento della famiglia nell’eseguire i suoi obblighi morali.

Nella tradizione africana, si afferma spesso che la famiglia forma i figli fornendo loro i mezzi per vivere e costruendo la loro personalità, mentre i figli formano la famiglia dandole coesione, ed un senso di missione e di responsabilità.
Nelle società africane, la famiglia è stata un potente fattore di armonia comunitaria e di stabilità sociale. Tramite la famiglia, valori centrali quali la giustizia, la tolleranza, il rispetto per i diritti degli altri, e la risoluzione pacifica dei conflitti, vengono interiorizzati dai giovani e diventano parte dei loro pensieri e dei loro sentimenti, fornendo così ad essi la guida per la loro condotta di vita.
Ma nemmeno la famiglia africana è stata risparmiata dai cambiamenti profondi e di ampia portata che hanno travolto le nostre società nel dopoguerra, ed in particolare dal sorgere nei giovani del desiderio di libertà dalla tutela degli adulti e dalla autorità genitoriale. Anche la rivoluzione tecnologica ha generato una cultura giovanile che sta erodendo il potere unificante dei valori tradizionali e l’autorità morale dei genitori. A motivo di questi cambiamenti, la famiglia africana contemporanea non è più in grado di formare agevolmente la personalità dei giovani sulla base degli ideali in auge nel passato; né è in grado di modificare i propri valori ed i propri codici di comportamento per adattarli alle nuove esigenze della società; esigenze alle quali le vecchie generazioni non sono assolutamente in grado di rispondere.
Di conseguenza, i giovani si trovano in un “territorio culturale” abbandonato, nel quale comportamenti che in passato erano considerati devianti a volte diventano la norma. Ciò si manifesta in azioni dirompenti nella scuola e nella comunità, nella mancanza di rispetto verso i genitori e gli insegnanti, nell’uso di droghe ed alcool in età sempre più precoci, furto, prostituzione, comportamenti sessuali impropri. La violenza e l’insicurezza di cui soffrono le città africane a causa dei bambini di strada, e dell’arruolamento di massa dei giovani nelle guerre che hanno devastato il continente, costituiscono la chiara testimonianza del fallimento della famiglia nel portare a compimento i propri obblighi morali.
Nel complesso, il rilassamento dei costumi sessuali ha avuto come conseguenza un grave male sociale, perché ha portato alla destabilizzazione ed alla distruzione della famiglia, ed ha compromesso la formazione e l’educazione dei bambini. La calamità dell’HIV/Aids è una silenziosa arma di distruzione di massa, che devasta intere famiglie e comunità, lasciando dietro di sé milioni di orfani con un’infinità di problemi da affrontare, non ultimi quelli derivanti della mancanza di affetto, di educazione, di cure mediche, nonché povertà, assenza di speranza, sfruttamento sessuale.
Nella tradizione africana, l’ambiente naturale per inculcare i valori sacri del matrimonio, della vita famigliare e della procreazione è proprio la famiglia. La famiglia era una scuola di vita, nella quale gli adolescenti venivano formalmente istruiti sui diritti e sulle responsabilità dei coniugi nella vita matrimoniale, sui misteri del sesso e della procreazione, e sul corretto comportamento da tenere in merito a questi argomenti vitali. Questi insegnamenti venivano impartiti da uomini e donne esperti, nel corso di riti di iniziazione che prendevano forme diverse a seconda delle varie comunità.
In assenza di questi esempi viventi delle tradizioni, devono oggi essere sviluppati altri meccanismi per trasmettere queste vitali conoscenze. Oggi, le scuole ed i college, luoghi nei quali convergono giovani con ogni tipo di provenienza sociale e culturale, devono trasmettere, in connessione con la famiglia, un insieme di informazioni sul sesso e sulla vita famigliare sin da un’età molto giovane. Questa educazione deve avere come obiettivo non solo la prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse, ma anche la preparazione al matrimonio.
Gli adolescenti, e soprattutto i giovani maschi, devono essere portati a comprendere – da un punto di vista sociale e scientifico – gli impulsi sessuali, e soprattutto come questi impulsi possano essere incanalati e controllati per il loro futuro benessere e successo. Hanno bisogno di essere guidati nella scelta del loro partner, con il quale condivideranno la vita, ed a comprendere il valore dell’impegno e della fiducia reciproci prima e durante la vita matrimoniale. La trasmissione della cultura della famiglia deve occupare uno dei primissimi posti nei programmi dell’educazione moderna.
Oggi, l’umanità si trova di fronte a sfide di straordinaria grandezza, mentre la famiglia, che Claude Lévi-Strauss ha definito l’atomo della società, sta perdendo la sua stabilità ed il preminente ruolo sociale che aveva in passato. Come genitori, insegnati, e cittadini responsabili, dobbiamo riaffermare la verità che tramite il sacro vincolo del matrimonio e la vita famigliare, potremo avere degli individui equilibrati in sé stessi, che trasmetteranno armonia ed equilibrio alla comunità, ed anche alle nazioni, preparando così la strada per realizzare la pace nel mondo.

Diritti Umani e la Pace Mondiale

Il 20 secolo è stato un secolo di crescita e sviluppo in aree come l'economia, la tecnologia e le comunicazioni. E' stato anche il secolo di due Guerre Mondiali e della Guerra Fredda. Nello stesso secolo si è visto la comparsa della Lega delle Nazioni e le Nazioni Unite, ed è anche stato il secolo più insanguinato della storia umana.

Di Giorgio Gasperoni


Parlando di diritti umani e pace mondiale, non si può non considerare la relazione che esiste fra i due e la nostra responsabilità per la loro realizzazione.
Molti diritti sono dei postulati, che investono sia la sfera spirituale che quella materiale. A livello personale, tutti i diritti umani riguardano essenzialmente la sfera della dignità e della realizzazione di se stessi. A livello sociale, ciò che è indispensabile per la dignità umana e la propria realizzazione, sono la libertà e la possibilità di agire.
I diritti umani includono la libertà di credo, la libertà d’espressione sia nel campo artistico che nel campo intellettuale, e la libertà di partecipazione a livello socio-economico.
I diritti umani non devono mai essere limitati alla libertà interiore della persona, ma devono includere la possibilità d’espressione e d’azione. Ci deve essere una piena libertà nel praticare il proprio credo religioso, una vera libertà politica, e così pure nell’espressione artistica. Normalmente la limitazione della libertà politica va ad urtare contro la libertà di pensiero e di creatività. Nessuno può garantire un’udienza numerosa ad un politico, a un poeta o a un predicatore, ma dobbiamo garantirgliene la possibilità.
Se poi consideriamo i diritti di tipo materiale, non possiamo fermarci ai diritti economici e di sussistenza solamente, poiché essi includono anche la possibilità, per ognuno, di sviluppare i propri talenti in accordo alle proprie abilità.
Naturalmente per ottenere tutti i diritti e costruire una giusta cultura di pace, la libertà interiore dell’individuo è essenziale.
Tutti sappiamo molto bene che molte persone e nazioni nel mondo non rispettano i diritti dell’uomo, anche se le loro costituzioni sono piene di belle parole al riguardo.
Il Dott. Kwak, il Presidente della Federazione Universale della Pace, in occasione del convegno internazionale tenutosi lo scorso Agosto in Corea sul tema: “Trovare una Visione e una Leadership nel tempo di Crisi Globale”, al quale parteciparono Delegazioni rappresentative della Germania, Giappone, e Italia, affrontò approfondendole queste tematiche: di seguito riportiamo un’ampio stralcio del suo intervento:
“Tutte le persone sperano nella pace. Questo è un valore universale condiviso da tutti gli esseri umani, a prescindere dalle etnie, le origini nazionali, dal loro grado di alfabetizzazione, dalle differenti professioni religiose. Gli ideali di un mondo caratterizzato da armonia e cooperazione fra tutti i popoli sono alle radici delle coscienze di ogni individuo.
Nonostante l'universalità di questo ideale, ciononostante i popoli sperimentano nel quotidiano qualcosa di molto distante da ciò.
Il 20 secolo è stato un secolo di crescita e sviluppo in aree come l'economia, la tecnologia e le comunicazioni. Ma è stato anche il secolo di ben due Guerre Mondiali e della Guerra Fredda. Nello stesso secolo si è visto la comparsa della Lega delle Nazioni e le Nazioni Unite, ed è anche stato il secolo più insanguinato della storia umana.
Dall'Iraq al Dafur, dal Sri Lanka al Corno dell'Africa, dalla Palestina e Israele alla penisola coreana, vediamo con molta evidenza che il mondo non è in pace. La povertà persiste nonostante le promesse della globalizzazione.
La crisi della famiglia, la promiscuità sessuale, e HIV/AIDS si stanno espandendo a sfavore dei figli, dell'economia e della qualità della vita. La proliferazione nucleare e il traffico delle armi continua.
Nazioni, governi e innumerevoli cittadini hanno perso la loro bussola morale, arrendendosi all'attrazione del materialismo e dell'individualismo egoista. Le violazioni dei diritti umani continuano. Anche l’ONU ha dimostrato di non saper funzionare con autorevolezza ed efficacia per indurre le Nazioni a porre fine a tutti questi gravi problemi..
La crisi familiare e il declino degli standard morali, specialmente fra le giovani generazioni, sono veramente seri. Anche se si sta cominciando a produrre un grande sforzo per risolvere la povertà e realizzare gli “Obiettivi dello Sviluppo del Millennio”, il successo dell’impresa appare molto lontano nel tempo e molto limitato se non saremo all’altezza di affrontare i problemi fondamentali collegati al carattere umano e alle relazioni interpersonali. Dopo tutto, i problemi umani sono radicati nella corruzione del cuore umano.
In generale, i governi agiscono principalmente per il loro interesse nazionale.
Lo stesso potrebbe essere detto anche della comunità delle religioni mondiali. C'è una mancanza di cooperazione e unità d'intenti. Le religioni, ed i loro rappresentanti, spesso si comportano in maniera competitiva e in accordo ai loro propri interessi. Il Fondatore dell'UPF, il Rev. Dott. Moon, ha posto fortemente l’accento sul fatto che la radice dei problemi del nostro mondo è strettamente consequenziale al problema del disfacimento del matrimonio e, quindi, della famiglia, la radice della vita umana. Soltanto se il matrimonio, quale mezzo di riproduzione dell’uomo attraverso l'amore coniugale, sarà allineato alla visione della pace accentrata su Dio, potremo nutrire speranze per il futuro dell’umanità. Il Matrimonio deve essere una Partnership di un uomo e una donna, e quando è incentrato sui principi spirituali più elevati, diventa lo strumento più potente di pace che sia mai esistito.
Le irrisolte problematiche familiari, non solo destabilizzano la relazione fra marito e moglie ma anche quelle dei loro figli e la famiglia estesa. Le famiglie sono il cardine della nostra società, e la loro crisi tramite l'infedeltà, la promiscuità e il divorzio mettono in pericolo la pace.
La crisi familiare è causa della perdita del sentimento e del legame di “fratellanza” all’interno della famiglia ma anche nell’ambito dei rapporti sociali. In altre parole, l'amore, l'armonia e la cooperazione che dovrebbe esistere tra fratelli e sorelle in una famiglia amorevole, non esiste nelle nostre società.
Emblematica, per spiegare meglio le ragioni d’amore che devono regnare in una famiglia, è la storia biblica dei primi fratelli dell’umanità “Caino ed Abele”.
Nella famiglia dei nostri progenitori, dopo che essi si allontanarono dalla grazia di Dio, il loro primo figlio, Caino uccise il secondo figlio, Abele. Questa storia è un archetipo di un problema umano universale. Esaminando il conflitto tra nazioni, religioni, gruppi etnici, ideologie politiche, ceti sociali, assistiamo al ripetersi, su vasta scala, dell’evento accaduto fra Caino-Abele. Abele fu ucciso da suo fratello. Perché?
C'era inimicizia tra i fratelli. Il problema Caino-Abele ha la sua radice nella separazione dei loro genitori da Dio. Di conseguenza, la gelosia, il risentimento, ed i sentimenti di essere stato offeso o violato prese il sopravvento. Agendo su questi sentimenti, Caino uccise Abele.
L'essenza di una persona di tipo Abele è quella di vivere nell'interesse del cielo e nell'interesse degli altri. Per questa ragione, Padre Moon c'incoraggia a diventare delle persone di tipo Abele, e sviluppare istituzioni, governi, nazioni e religioni di tipo Abele. Infatti, lui incoraggia l'UPF a diventare le Nazioni Unite di tipo Abele, "offrendo i propri sforzi per la pace al cielo e vivere incessantemente nell'interesse degli altri.”
Il punto di partenza e la linea di demarcazione della pace non potranno essere trovate in istituzioni secolari e laiche perché il punto iniziale è già dentro di me. Quindi la domanda che dobbiamo porci in un esame introspettivo è: “posso io saper riconoscere e superare la corruzione all'interno di me stesso?” Prima di chiedere al mio vicino di cambiare, devo esaminare profondamente me stesso, devo capire i miei punti deboli, e capire come cambiare.
Il passo successivo per costruire la pace è di osservare quelli che mi sono vicini e a cui voglio bene: se non posso stabilire con successo la pace all'interno della mia propria famiglia, come potrò mai essere capace di stabilirla con gli altri?
In conclusione, Padre Moon ci insegna che la pace è possibile solamente se ognuno sviluppa la forza di amare anche il proprio nemico. L'amore deve debellare il risentimento e rispondere con amore verso coloro che ci hanno fatto torto allo stesso modo di coloro che già amiamo.
Dobbiamo muoverci al di là del concetto che la "mia gente" è quella dello stesso colore di pelle, origine etnica, nazionalità o ideologia religiosa. Dobbiamo ampliare il nostro cerchio di amore e rispetto, deve espandersi fino ad includere ed abbracciare anche il nemico.
Se vogliamo credere di poter pensare al punto di vista di Dio, non pensiamo che Dio sia capace di tanto amore da abbracciare tutto il creato?
Questa è la visione dell'UPF: stabilire "Una Famiglia sotto Dio", oltre le barriere di religione, nazionalità, ideologia e gruppi etnici.
Potremmo pensare che sarà un compito facile? Chiaramente, no! È senza dubbio il più arduo e difficile. Ma è questo il percorso che dobbiamo percorrere. Ecco la ragione per cui i grandi conciliatori di tutte le ere, spesso hanno sofferto, e hanno sopportato così tanta persecuzione.

Se ci fosse un modo più facile, troveremmo facilmente molti compagni di viaggio. Il potere militare non sarà mai il mezzo per pacificare le genti. Il potere economico non potrò mai essere portatore di una pace giusta per una vera riconciliazione. La pace viene solamente sulla fondazione del vero amore. Nessun avversario sarà mai disposto a sottomettersi solo al potere del più forte, ne alla conoscenza ne alla ricchezza.
La pace potrà essere condivisa quando condivideremo con l’avversario il nostro desiderio di Pace e quando ameremo e serviremo l'avversario. Questa è la visione e la missione degli Ambasciatori per un movimento di Pace.
Spero che, attraverso queste conferenze, potremo riconoscere punti importanti quali:
• Capire la natura distruttiva della promiscuità, l'immoralità sessuale e la crisi della famiglia.
• Aiutare e sostenere l’UPF nelle tre iniziative strategiche: l'Iniziativa di Pace in Medio Oriente; l'iniziativa di Pace nel Nord Est dell'Asia, concentrandosi sulla Penisola coreana; e il progetto del Tunnel/Ponte sullo stretto di Bering, non soltanto dal punto di vista commerciale e dello sviluppo, ma nell'interesse della pace e la cooperazione tra Est e Ovest. Infatti, questo progetto può contribuire al conseguimento degli obiettivi dello Sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite.
• Operare per un Consiglio Interreligioso Globale fra i Capi Religiosi del mondo, nell'interesse di portare la pace nell’umanità. In tal modo si potrà favorire l’Istituzione di un Consiglio Interreligioso alle Nazioni Unite, a dimostrazione che le religioni possono essere alleate nella ricerca della pace.
• Sostenere la missione e l’operatività della Federazione Universale della Pace, quale "ONU Abele", e quale movimento globale che offre il suo impegno per la pace al cielo, vivendo incessantemente nell'interesse degli altri. Dal 21 al 25 settembre l'UPF ha organizzato un'importante riunione, in concomitanza dell'apertura della 62 Sessione dell'Assemblea Generale dell'ONU. In quella occasione, l'UPF ha lanciato un’Iniziativa di Educazione alla Pace, in cooperazione con Governi e ONGs.
Per portare a successo questi obiettivi, dobbiamo lavorare tutti insieme.
Il mondo ha veramente bisogno di ognuno di noi. Stiamo vivendo una svolta epocale nella nostra storia, un tempo di crisi globale. Bisogna fare in modo di poter trasformare questa crisi in un’opportunità,

La pace nell’Islam

Presidente di Alleanza Islamica d’Italia, il Dr. Aboulkheir Breigheche, ci descrive in questo suo contributo il concetto di Pace presente nella religione islamica ed esorta tutti ad intensificare le attività che aiutano le diverse culture, popoli e religioni, gruppi e singoli a conoscersi meglio

di Aboulkheir Breigheche

La cultura della pace va rafforzata e diffusa. Va approfondita e vissuta. E coloro che lavorano per questi ideali vanno sostenuti e incoraggiati.
Se poi teniamo presente in quale grave situazione ci troviamo un po’ tutti quanti ( paesi, popoli, famiglie e singoli ) tra guerre, violenze, individualismo, egoismo, ci rendiamo conto di come sia doveroso oltre che necessario intensificare le attività che aiutano le diverse culture, popoli e religioni, gruppi e singoli a conoscersi meglio.
Sono convinto come tanti che “ l’ignoranza e’ il peggior nemico”.
A questo proposito riporto un versetto del sacro Corano che dice:
“ o gente, in verità vi abbiamo creato maschio e femmina e abbiamo fatto di voi popoli vari e tribù affinché vi conosceste a vicenda; il più nobile di voi è colui che ama e teme Dio”.
Con questo modesto contributo e per aiutarci a conoscerci meglio riporto qualche insegnamento islamico che riguarda il concetto di pace nell’Islam:
- Allah, Iddio, ha nell’islam altri 99 nomi che definiscono gli attributi di Dio. Uno dei più noti e conosciuti dai fedeli musulmani è As-salam, la Pace. Molti genitori musulmani scelgono come nome per i loro figli “ Abdussalam”, il servo della Pace, cioè di Dio, la Pace. Sapere che Dio è la pace, ha un profondo significato. Per cui il profeta e messaggero di dio Mohammad* era abituato a cambiare i nomi dei nuovi musulmani quando il loro nome aveva significati cattivi o violenti, con nomi di pace e serenità.
- Il saluto islamico è assalamualaikom, pace sia su di voi e con voi. Da notare che questo saluto viene ripetuto decine di volte al giorno negli incontri, al telefono, per e mail, ecc.. Teniamo presente che pronunciare questo saluto è come fare un patto di pace, atto che è come una preghiera; oltre che pronunciarlo, questo saluto lo si vive tutti i giorni nel quotidiano, perdonando gli errori altrui.
- Tra i pilastri fondamentali della fede islamica c’è la preghiera cinque volte al giorno. Durante questo obbligo religioso il credente ripete la parola pace, tra le formule ed i versetti del Corano recitati, almeno 28 volte al giorno, che raddoppiano quando il credente osserva anche le preghiere facoltative ( sunna). Ogni preghiera si conclude con la frase: “assalamu aleikom wa rahmatu allah”, la pace e la misericordia di Dio sia su di voi, frase che viene pronunciata girando la testa sia a destra che a sinistra, come una promessa di pace per tutta l’umanità’ e tutto l’universo.
- Il paradiso nella terminologia coranica si chiama “ daru salam”, la casa della pace. Come può sperare e pretendere di meritarla ed abitarla una persona che predica e pratica la violenza nelle sue varie forme, nel proprio linguaggio e comportamento?
- Da ricordare che lo stesso saluto degli abitanti del paradiso sarà “ assalamu alaikom” pace sia su di voi, come per affermare che la pace va rafforzata e vissuta sempre e ovunque, in questa vita e nell’aldilà’, come in tutte le situazioni e tutti i luoghi.
Come si vede nell’Islam, la pace è oltre che fede è anche un vissuto quotidiano, è una cultura che si deve imparare tutti i giorni, pace interiore con se stessi, pace con il creatore, pace in famiglia, i genitori, i fratelli, il coniuge, i figli, con il vicino di casa e nel quartiere.
Pace tra i popoli e gli Stati, pace con la natura e l’universo.
Per ogni sfera degli ambiti ricordati sopra, la cultura e la filosofia islamica ha fissato delle regole chiare, precise e pratiche che non ci permettiamo di ricordare per questioni di spazio, affinché regni la pace, contro ogni forma di violenza pubblica o privata.
Assalamu alaikom
Pace sia con voi.

La prospettiva interreligiosa di Gandhi

L'induismo di Gandhi era una religione con una prospettiva universale. Egli si lasciò influenzare da tutte le culture, e rifiutò di ridurre la sua eredità culturale a una visione ristretta della vita e degli eventi

di Lama Geshe Gedun Tharchin

Cercare la verità è una naturale aspirazione umana, un risultato dell'intelligenza e della mente umane: queste qualità rendono gli esseri umani superiori agli animali. Tuttavia, le differenti condizioni umane rappresentano molte diverse esperienze e conoscenze e queste portano con sé varietà di vite e reciproche interazioni tra soggetti ed oggetti; ognuno ha, quindi, molti strumenti per investigare fatti e verità, al meglio delle proprie capacità. Di conseguenza, il riconoscimento delle realtà e del vero modo di ricercare esse sono i principi generali per fondare una religione, una fede o un Dharma.
Effettivamente, Buddha stesso insegnò le Quattro Nobili Verità nel suo primo discorso. I molti fondatori religiosi credevano che la Verità è il solo fenomeno che può soddisfare il naturale umano desiderio. Loro credevano che lo stato ultimo della felicità della mente è realizzabile, e che gli esseri umani hanno il potenziale sufficiente per raggiungerlo tramite le proprie esperienze. Inoltre loro credevano che ogni essere umano è responsabile del piacere degli altri e che il benessere di un essere umano deve considerare come bene gli altri.
Loro credevano anche che lo stato naturale delle cose è basato su una ed ultima realtà. Per esempio Buddha dice che la realtà ultima è la vacuità, giacché tutti i fenomeni sono vuoti di un'esistenza intrinseca in loro stessi. Gesù dice che l'universo è una creazione di un ultimo vero Padre.
Di conseguenza tutti i fondatori religiosi avevano una pura e gentile motivazione e i loro insegnamenti divennero questa grande risorsa per la felicità umana.
Quindi io credo che rispettivamente ogni religione ha il potenziale di dare gli opportuni insegnamenti per guadagnare la pace della mente, se seguita come un'eccezionale sentiero spirituale. Naturalmente ogni essere umano ha il diritto e la possibilità di addestrarsi con tutte le diverse religioni affinché sviluppi una pratica religiosa organica e personale. Io non intendo dire né che tutte le religioni dovrebbero essere unificate, né che tutti gli esseri umani dovrebbero studiare e praticare tutte le religioni. Bensì, io sto sottolineando un importante concetto: le persone non dovrebbero considerare le religioni come contrapposte l'un l'altra o intoccabili.
Le persone devono considerare le religioni come risorse di felicità e non come la distruzione di essa.
Ogni qualvolta il nome di una religione diventa sinonimo di distruzione, ciò non accade per causa della religione o del suo fondatore, ma a causa delle persone che fraintendono il significato e l'uso della religione.

Ma come portare tutte le differenti religioni insieme negli studi e nella pratica di un singolo essere umano? Io vorrei spiegarlo qui parlando di Gandhi e della sua vita. Gandhi nacque in una famiglia Hindu e fu educato sia in Occidente sia in Oriente. Accanto ai suoi studi accademici, egli considerò la pratica religiosa come un grande compito della sua vita e studiò le differenti religioni ogni volta e dovunque ne aveva l'opportunità. Egli praticò religioni diverse appena poteva. Noi consideriamo Gandhi come un mente veramente grande e intelligente, mossa da pura conoscenza umana
Lui credeva che il valore di una religione ha fondamento sulle basilari buone qualità umane. Per valori umani intendo mente compassionevole e senso del perdono. Se qualcuno fallisce in queste qualità umane basilari, lui o lei non otterrà mai alcun beneficio da una fede religiosa.
Perciò coltivare i valori umani fondamentali è il primo dovere di una persona religiosa. Le qualità umane fondamentali sono la porta per iniziare una genuina pratica religiosa.
Allo scopo di raccogliere differenti studi religiosi in una sola vita umana, una persona dovrebbe capire i concetti delle diverse religioni e, per questo, i seguaci delle varie religioni dovrebbero incontrarsi e studiare insieme per il beneficio e la comprensione reciproci.
Questa è la principale ragione per cui promuovere il dialogo e gli incontri interreligiosi è molto importante nel mondo odierno.
Io considero la vita di Gandhi e il suo insegnamento come la migliore via e motivazione per attuare un così importante compito.
A causa dell'assenza di un'apertura e di buon cuore, molte persone del mondo oggi soffrono per sentimenti di insoddisfazione, malinconia e senso di insicurezza. Così, promuovere valori umani più profondi è un insegnamento di cui oggi il mondo ha bisogno.
Inoltre, la promozione di un'armonia tra le diverse religioni è essenziale per sviluppare le umane qualità. Allo scolpo di sviluppare una reale armonia tra le differenti religioni, base di una reciproca comprensione, noi dobbiamo promuovere maggiore comunicazione e interazione tra quelle diverse religioni. Perciò oggi il dialogo interreligioso è un compito e un bisogno essenziale.
I valori umani essenziali stanno a significare che per sua natura, effettivamente ognuno ha lo stesso desiderio di felicità e stesso diritto di realizzarlo. Un'altra verità è che la felicità dipende dall'aiuto degli altri o dal loro supporto, e dalla loro gentilezza. Quindi, giacché noi siamo esseri umani in una società umana, dobbiamo vivere nello sforzo comune del reciproco beneficio
Di conseguenza, noi dobbiamo occuparci o dovremmo pensare al benessere degli altri, avere il cuore aperto e capire la realtà


Gandhi e le religioni del mondo

Consideriamo Gandhi come un uomo universale che aveva una fede costante negli immortali valori umani e denunciava tutti i tipi di barriere: geografica, razziale, culturale ecc.
Riguardo alle diverse religioni nel mondo egli credeva profondamente che: "Tutte le religioni hanno una sorgente e nessun uomo ha il diritto di dire che la sua è la migliore, o che sia la sola vera forma di credo".
L'induismo di Gandhi era una religione con una prospettiva universale. Egli si lasciò influenzare da tutte le culture, e rifiutò di ridurre la sua eredità culturale a una visione ristretta della vita e degli eventi
Gandhi credeva nella grandezza di tutte le religioni. Egli dice: "Io credo la verità fondamentale di tutte le grandi religioni del mondo". Ogni qualvolta Gandhi ne aveva l'opportunità, egli citava le sacre scritture Hindu, Islamiche e cristiane alle riunioni di preghiera. Gandhi provava a capire e adottava ogni cosa che trovava essere di valore nelle altre religioni. Lui credeva in tutti i grandi profeti e santi. Lui proclama: "Il mio induismo non è settario. Esso include tutto ciò che io so essere il meglio nell'Islamismo, nel Cristianesimo, nel Buddismo e Zoroastrismo".
Gandhi non separava mai la sua religione dal resto della sua vita. Egli dice: "Io non conosco alcuna religione a parte l'attività umana".
Gandhi era un uomo politico che regolava la sua vita politica sui dettami dei principi morali e religiosi e in base alla voce della coscienza.
Thomas Matron riconosce un appropriato tributo a Gandhi, quando dice: "Per Gandhi, strano che possa sembrarci, l'azione politica deve essere la sua vera natura di religioso, nel senso che, essa doveva essere permeata dai principi di saggezza religiosa e psicologica. Separare religione e politica era agli occhi di Gandhi "follia", perché per Gandhi, la politica è fondata interamente su una religiosa interpretazione della realtà della vita e della condizione dell'uomo nel mondo".
Nella prospettiva di Gandhi "Dio" e "Verità" hanno la stessa denotazione. Perciò l'asserzione "Dio è Verità" può essere convertita semplicemente senza cadere in errore. Il significato psicologico di questa citazione è rilevante. Dopo "Crossed the Sahara of atheism", Gandhi accettò l'idea di Dio delle religioni del mondo.


Spiritualità di Gandhi

La Verità assoluta è al di là della parola e della ragione. La purezza del cuore è essenziale per la percezione della Verità. Gadhi dice, “solo un uomo che è più umile della polvere può vedere la Verità”. Quindi la purezza di vita è essenziale per l’intuizione della Verità. La chiarezza dell’intuizione si basa sulla purezza del cuore. L’etica e la metafisica sono intimamente collegate. L’una implica e sostiene l’altra. La vita e la forma del pensiero sono una sola cosa. Questa è l’essenza della filosofia di vita e uno deve dimostrarla attraverso la propria vita.

La Verità e l’Amore sono inseparabili e si presuppongono reciprocamente per Gandhi. L’Amore è l’espressione della Verità nel mondo dei fenomeni. La Verità assoluta che è la somma totale di tutte le verità relative è la Realtà Ultima. Essa è una ed è al di là della comprensione umana. Tuttavia non è totalmente inconoscibile. Si rivela nella natura e nell’uomo come la legge dell’amore. Così la legge dell’amore è l’espressione mondana della Legge Suprema, la Verità. L’amore che abbraccia ogni cosa è l’espressione terrena della Realtà Ultima, l’“Unità di tutta la vita”. Amare è vivere la verità. Quindi l’amore possiede uno status metafisico che è uguale a quello della verità.

In breve, la realtà ontologica ultima: la Verità è Dio e rivela se stessa nel mondo fenomenico come la legge dell’Amore, della Pace, che diviene la legge della filosofia di vita. La Pace può essere vissuta solo dal coraggioso e da colui che non ha paura. La Verità si rivela nell’uomo come la “voce interiore”, che deve essere luce al suo cammino e guida alla sua vita. La voce della coscienza è infallibile solo quando è il risultato di una vita pura e disciplinata. Così, la verità metafisica non può essere separata dalla verità morale. Solo un cercatore onesto con un cuore puro può avere la visione della Verità. Per lui o lei Verità è Dio. La Verità è Amore e Coscienza. La Verità è etica e moralità; la Verità è mancanza di paura. La Verità è la Luce e la Vita. La Verità è Dio, Allah, Iswara, Buddha, ecc…


Conclusione

Dalla vita di Gandhi, io sono sicuro che le persone che vogliono trovare la soluzione per l'armonia delle religioni del mondo, possono imparare il modo migliore per studiare, praticare e promuovere la pace del mondo e la Fratellanza Universale.