La questione del Kashmir è, rispetto alla idea di terrorismo a cui siamo affezionati come occidentali o a essa guidati come eredi del post September Eleven, una questione spinosa e non facile da risolvere in modo univoco.
Marco Lombardi - Università Cattolica
Progetto ITSTIME - www.itstime.it
È ottobre, più o meno il giorno dell’anniversario del terremoto che ha squassato il Kashmir (8 ottobre 2005), provocando circa 80.000 morti e altrettanto numero di feriti. A Muzaffarabad, capitale dell’Azad Kashmir (Kashmir Libero), l’area pakistana della regione divisa con l’India, l’aria è tersa, il clima piacevole, le case ancora a terra, molte tende in piedi, le NGO al lavoro.
Tra queste Jamat-Ut-Dawa garantisce cura e assistenza nell’ospedale realizzato sotto un grande capannone. All’incontro con i responsabili di Jamat-Ud-Dawa, nel loro ospedale, arrivo accompagnato da alcuni membri del Kashmir Centre Rawalpindi - Kashmir Liberation Cell che mi hanno prima annunciato: “andiamo a trovare quelli che chiamate terroristi!”. L’incontro è disteso, con reciproche battute sull’essere terroristi, sulla evidente buona organizzazione del gruppo ed efficacia del lavoro svolto, sul loro progetto a lungo termine, non essendo intenzionati a lasciare Muzaffarab, ma a continuare l’assistenza medica alla popolazione. Jamat–Ut-Dawa è una organizzazione islamica, fondata nel 1985 a Lahore in Pakistan, prima conosciuta con il nome Markaz Daw'a wal Irshad e considerata strettamente connessa a Lashkar-e-Toiba (LeT), entrata nella lista nera del terrorismo internazionale perché legata ad Al Qaeda.
Qualche giorno dopo, a Islamabad, incontro in un piccolo ufficio un anziano signore che si chiama Amanullah Khan presidente del Jammu & Kashmir Liberation Front. Amanullah è considerato non gradito dagli stati occidentali, è finito in galera arrestato da Europol, poi rientrato in Pakistan per le pressioni governative. Ma non può lasciare il Paese, perché non gradito neppure in questa terra.
Il Jammu & Kashmir Liberation Front (JKLF) è stato fondato nel 1977 a Birmigham proprio da Amanullah Khan e da Maqboo Bhat (impiccato a Dehli nel 1984): l’organizzazione, prima presente in Europa, Usa e Medio Oriente, dal 1982 ha sedi in Pakistan e Azad Kashmir, si definisce nazionalista e non islamista. Più volte in occidente si è sostenuta una significativa collusione, già negli anni Ottanta, tra i servizi di intelligence pakistani, il presidente e vice presidente del JKLF, allo scopo di sviluppare strategie di supporto al reclutamento di giovani in Azad Kashmir, per rimpinguare campi di addestramento alla guerriglia vicino alla Line of Controll (LoC).
Alcuni giorni dopo questi incontri mi contattano due ex-combattenti kashmiri: ci incontriamo al bar dell’hotel. Sono arrivati dal kashmir indiano, hanno combattuto sulla LoC. Sono tra quelli che hanno fatto fronte a 750.000 soldati indiani che sono disposti sulla linea di controllo: un esercito poco conosciuto accusato di numerose violazioni dei diritti umani da Human Rights Watch insieme ad altre NGO che con estrema difficoltà riescono ad avere informazioni delle violenze, omicidi e rapimenti che avvengono nel Kashmir indiano. Sono originari di Srinagar (India), hanno avuto parenti e amici scomparsi e uccisi. Mi dicono: “come si fa , quando si vive in quella situazione a non prendere in mano le armi per combattere chi ti ha ucciso il fratello o violentato la moglie?... I campi dei terroristi? I campi della guerriglia ci sono, perché si impara a usare il fucile e si combatte, perché vuoi vendicare chi ti è stato ammazzato”. Ma ci si stanca, il tempo passa e si ripara a Islamabad dove si prova a ottenere con la politica quanto non si è potuto ottenere con le armi, con le quali ci si è resi conto che si è forse solo ottenuta la vendetta.
Nel mio percorso tra Islamabad, Muzaffarabad, Mirpur e le altre aree del Pakistan e Azad Kashmir sono stato accompagno da Sardar Usman Ali: figlio dell’attuale Primo Ministro dell’Azad Kashmir Sardar Attique Ahmed Khan, di cui ero ospite, e nipote di Sardar Mohammad Ibrahim Khan: il primo (e poi cinque volte tale) presidente del Kashmir. Usman parla inglese corretto, è spesso a Bruxelles, si occupa dei giovani musulmani di All Jammu & Kashmir Muslim Conference (il partito di maggioranza), ha una famiglia, vive nel mito del nonno e ha una buona relazione “dialettica” col padre. È un giovane dei nostri tempi che studia da primo ministro parlando a due o tre cellulari.
Eppure: potrebbero essere tutti terroristi. Perché sono musulmani, perché vivono in Pakistan e Kashmir, perché molti di loro combattono, perché sull’altra sponda c’è l’India. Per molti occidentali – ma non solo – è facile usare questa etichetta. La questione del Kashmir è, rispetto alla idea di terrorismo a cui siamo affezionati come occidentali o a essa guidati come eredi del post September Eleven, una questione spinosa e non facile da risolvere in modo univoco.
I presupposti, in breve, rimandano alla separazione tra India e Pakistan nel 1947, quando l’India Britannica spaccandosi vide la maggioranza della popolazione musulmana confluire nel Pakistan e gli hindu in India. Tra le varie risoluzioni, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 24 gennaio 1957, emana la numero 122 in cui si scrive che “l’assetto finale dello Stato del Jammu & Kashmir sarà definito in accordo con la volontà del popolo, espressa attraverso il metodo democratico di un libero e imparziale plebiscito condotto sotto la tutela delle Nazioni Unite”. Si afferma pertanto la autodeterminazione del popola kashmiro nel definire le sue sorti. Il popolo non si è mai espresso, la consultazione non ha mai avuto luogo e, oggi, il Kashmir è spaccato in due. Tra Pakistan e India: ciascuno dei quali ha specifici interessi a far sì che il Kashmir resti diviso. E senza pace? Nella situazione sopra descritta, di perdurante conflitto, è estremamente difficile rispondere alla domanda “chi sono i terroristi?” e forse impossibile applicare gli strumenti definitori comunemente usati dall’Occidente e consueti alla nostra cultura.
La questione del Kashimr gira attorno a numerosi nodi ed è complicata da una serie di fattori.
Alla fine della guerra sovietica in Afghanistan e poi del crollo dell’Unione, sicuramente si è assistito a un flusso di mujahiddin verso il Kashmir che si sono confusi con i combattenti kashmiri. Infatti, le ragioni per cui si combatte sulla LoC sono frequentemente distinte: per alcuni si combatte per liberare il Kashmir, per altri si combatte per costruire un nuovo stato islamico.
La storia insegna che un’area di conflitto che interessa una popolazione islamica è, potenzialmente, un forte polo di attrazione per tutti i combattenti islamisti. Nel progetto opportunistico del califfato e nella ideologia dell’umma, la solidarietà si esprime anche con le armi: lo stato di vulnerabilità istituito da ogni conflitto costituisce sempre opportunità politica.
Il Kashmir stesso è stato, nel periodo recente, oggetto dei progetti qaedisti essendo identificato come luogo potenzialmente destinato a trasformarsi in uno stato islamista. Se le vicende dell’attacco in Afghanistan dopo l’Unidici Settembre, poi la guerra in Iraq del 2003 hanno necessariamente modificato i piani internazionalisti degli islamisti, che si sono rivolti ad altre aree dell’Asia Centrale, tuttavia l’infiltrazione – anche in connivenza con alcune agenzie degli stati interessati - era già avvenuta.
Infine, la cosiddetta guerra al terrorismo sta giustificando in Asia Centrale una serie di interventi i cui interessi sono, in realtà, di tipo nazionale (politico ed economico). Dal mio punto di vista, infatti, il crollo dell’impero sovietico e il riframmentarsi dell’Asia Centrale nella forma dei khanati ottocenteschi ha rilanciato il teatro del Grande Gioco del XIX secolo, in cui l’obiettivo dello scontro è l’usuale controllo delle linee di commercio ora definite soprattutto rispetto alle “pipeline” del greggio e del gas: Russia da nord, Cina da est, Anglo Americani da sud si stanno scontrando nei territori dell’Asia Centrale più duramente di quanto sembri rispetto alle formali dichiarazioni di amicizia che – per fortuna nostra – appartengono al mondo globale.
E in mezzo c’è il Kashmir, la cui soluzione al problema è schiacciata dagli interessi di questo Grande Gioco, la cui popolazione è schiacciata dal disinteresse - meglio dall’interesse “per altro” – di tutte le potenze. Un’area in cui proprio l’Unione Europea potrebbe svolgere un ruolo chiave per facilitare la soluzione del conflitto, garantendo al futuro del mondo un territorio libero, collocato al crocevia delle potenze nucleari asiatiche.
Sì, perché alla fine, il disastro del Kashmir evidenzia l’imbelle incapacità delle Nazioni Unite a proporsi come una seria associazione di nazioni capace di dire la sua nel mondo globale; mostra le spinte economiche e commerciali che guidano la politica degli imperi; richiama ciascuno di noi all’impegno che insieme, forti di una consapevolezza individualmente assunta, dobbiamo produrre per promuovere la pace nei valori che condividiamo.
ITSTIME - Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies è un progetto nato nel Dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il suo carattere è altamente interdisciplinare per affrontare i temi complessi della sicurezza secondo una molteplicità di prospettive.
Ruolo accademico e attività di ricerca
• dal settembre 2002, professore associato (seconda fascia) presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (abilitato il 13/1/01 in sociologia generale, SPS-05 e confermato a ottobre 2005).
• 1994 - 2002, ricercatore di ruolo presso il Dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, facoltà di Lettere e Filosofia, Milano.
• attività di ricerca e di studio nel campo della sociologia. Esperto di gestione del rischio, con particolare attenzione alla comunicazione, e di fenomeni legati alle politiche di sicurezza e terrorismo. Coordinatore del progetto ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies
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