di Massimo Nardi
Antonio
Saccà è un personaggio assai noto alle cronache letterarie. Narratore, saggista
e poeta, già docente di sociologia delle forme espressive presso l’Università
di Roma “La Sapienza”, ha pubblicato diversi libri di successo, come ad
esempio: “Storia della sociologia” (Newton&Compton, 1995) o il più recente “Il
padre di Dio” (Bietti Media, 2009).
Ma
al di là del dato biografico, Saccà, catanese d’origine trapiantato a Roma, si
segnala soprattutto per la sua originalità di pensiero, maturata attraverso il
“gene” dell’ironia. Ecco infatti cosa “scrive” di lui il poeta John Milton
(1608-1674): «Conosco Antonio Saccà? Certo, lo conosco. L’opera, le poesie. Ha
sbagliato secolo. Fosse nato al mio tempo, altra accoglienza…!». Si tratta,
ovviamente, di uno “scherzo letterario” che Saccà ha reiterato più volte nei
suoi libri, quale espressione della sua naturale attitudine all’aforisma: «L’uomo è un attore che recita senza
testo in un teatro vuoto». E ancora: «Due morti mi hanno ucciso. La
morte universale. La mia arte di non saper vivere».
«Non
riesco a oltrepassarmi, a uscire da me, sono imprigionato nella mia mente,
nella mia individualità, nella mia solitudine. Non mi sostiene alcuno. Nessuno
mi può fornire soluzioni. Quando pure mi dicessi: la Ragione ha conquistato,
Dio ti ha rivelato, poi sono io colui che consente, approva o non consente, non
approva. E perfino se mi dicessi: non è così, tu sei obbligato a riconoscere il
vero, nel dirlo io, confermo che sono io, appunto, colui che riconosce o non
riconosce, che non posso liberarmi dalla prigionia della mia mente. È sempre la
mia mente a concepire che Dio mi ha rivelato, che la Ragione ha stabilito. Dio
e la Ragione esistono nella mia mente, per la mia mente, secondo la mia mente e
posso disporne a mio arbitrio. Senza aiuto, senza riferimenti, nord, est, sud,
ovest di me stesso, Stella Polare di me stesso, affidandomi al sentire come un
cieco nella caverna buia, cane senza collare, esule in terra straniera…».
È
appunto la riflessione sul mistero il tema dominante dell’opera di Antonio
Saccà: l’incertezza e la solitudine della condizione umana di fronte al mistero
che determina la tragicità della nostra esperienza, perennemente in bilico fra
l’imperio della ragione e il richiamo della trascendenza. Senza che mai si
possa giungere ad una soluzione definitiva in grado di rispondere alle domande
che contano: “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo…?”. E soprattutto si
possa dare una risposta all’angoscia esistenziale che deriva dalla coscienza
della nostra finitezza e dal non sapere quale destino ci attende dopo la morte.
Da
questa premessa umanissima e drammatica scaturisce la ricerca dello studioso
per approfondire il senso della religione quale strumento di mediazione verso
il divino, nonché l’impegno del poeta per accedere, attraverso il “medium”
della parola, ad una sfera sovrasensibile
che trascenda il limite invalicabile della ragione. Ecco un esempio della
metafisica di Antonio Saccà in due originali poesie:
PARADISO PERDUTO
“È certo che l’umanità si
estinguerà?”.
“È certo!”.
“E il sole?”.
“Perirà!”.
“E l’Universo?”.
“Eterno!”.
“Distruzione e ricombinazione?”.
“Così affermano”.
“Tutto qui!?”.
“Avessi altro da dichiararle
lo farei con gioia
non meno sua che mia.
Questa pare la condizione
dell’esistenza…
Viva la vita!”.
“Sempre la vita viva!”.
E festeggiammo
le donne, la morte
il mistero,
sulle rovine dell’antichissima
Troia.
*
MICHEL DE MONTAIGNE
Dopo Marte andrò sul possente
Giove
quindi il nebbioso Saturno
poi la vicina familiare Luna
non ho un tragitto deciso
mi inoltro a caso
nel mio Universo,
un viaggio tra due, tre Galassie
e un’attrattiva che appagherò
e accoglierò a manate
rigenerante polvere di stelle,
incontrerò divinità greche,
mi avvicinerò al Carro del Sole,
ammirerò finalmente la bellissima
Venere,
mi porterò un bagaglio di cuori,
di occhi, di cervelli,
di motori incorporabili,
ho intenzione di restarmene
migliaia di anni luce
nello Spazio,
ultima avventura
dell’umana ventura.
*
Il
Prof. Carlo Jovine, neurologo della Congregazione delle Cause dei Santi, membro
della Consulta medica che si è pronunciata in merito al miracolo di Wojtyla ed
appassionato di poesia, così si esprime a proposito dell’opera letteraria di
Saccà: «Nonostante la consapevolezza del rischio che corre ogni esploratore
dell’inconscio, Saccà accetta la sfida e si lancia in un affascinante percorso
attraverso le profondità esistenziali dell’essere umano, con il rigore critico
dell’accademico e la libertà dello scrittore creativo. Nella sua opera
s’avverte con intensità il dramma dell’uomo, combattuto tra la ragione, che lo
porta ad una sorta di “horror vacui”, e il desiderio inconfessato di arrivare
alla luce, all’illuminazione che consenta d’intuire il senso della vita».
«Nel
mistero del nostro essere in quanto esistenze autocoscienti uniche – continua
Jovine, citando il Premio Nobel Sir John Eccles – noi possiamo trovare i motivi
di una speranza, dal momento che poniamo la nostra personale esperienza,
delicata, sensibile e fugace, contro la terrificante immensità di uno spazio e
di un tempo illimitati. Non
siamo noi partecipi – conclude il neurologo – di ciò che ha un significato,
dove altrimenti non vi sarebbe alcun significato? Non proviamo delle emozioni
dilettandoci dell’amicizia, della gioia, dell’armonia, della verità, dell’amore
e della bellezza, dove altro non vi sarebbe se non l’Universo enigmatico?».
Alla luce di queste riflessioni, leggiamo ancora una poesia
di Antonio Saccà dedicata al celebre poeta inglese citato in apertura: John
Milton, autore del poema epico “Paradise
Lost” (“Paradiso perduto”), un capolavoro letterario che viene
considerato un vero e proprio “dramma
cosmico”.
MILTON
Scorrano
i miei versi nel tuo corpo
come
le sorsate di vino che mesci leggendoli.
Incessantemente
presi dal Niente
non
ci rimane che inebriarci di dimenticanza!
Leggimi
con passione,
sii
generoso nell’entusiasmo,
se
ti entusiasmo.
Viviamo
esaltandoci
o
è inutile vivere.
***
Abbiamo
scritto in apertura che Saccà è anche narratore e saggista, ed è appunto alla sua
produzione in prosa che vogliamo dedicare la seconda parte della nostra
riflessione. Con una premessa: la dimensione saggistica e narrativa, in Saccà,
è intimamente legata a quella poetica (anzi, è in qualche modo subordinata ad
essa), perché mostra la tendenza – che è propria della poesia – a sottrarsi al
lucido predominio della ragione cognitiva per affidarsi ad un altro tipo di
conoscenza: quella intuitiva. Che della poesia ha la visionarietà e lo sguardo
prospettico.
Antonio
Saccà ha scritto circa cinquanta libri: una produzione considerevole che, negli
ultimi anni, ha registrato una decisa accelerazione nell’esigenza di rendere
testimonianza degli impetuosi cambiamenti in atto, che minacciano le nostre
radici antropologiche. Ma a dare la misura dello scrittore e dell’uomo Saccà
(che sono, in fondo, una cosa sola) soccorre soprattutto il suo ultimo libro:
“Il mio prossimo sono io” (2015, Edizioni Artescrittura). Un libro che potremmo
definire una rappresentazione – di più: una accurata ricognizione –
dell’insuperabile dualismo che pervade la vicenda umana. Un dualismo che si manifesta a partire dal titolo, “Il mio
prossimo sono io”, che potrebbe apparire, ad un prima lettura, una esaltazione
dell’esasperato individualismo che connota l’incultura contemporanea. Ed è
invece l’esatto opposto: è l’urlo dell’essere umiliato ed offeso che rivendica
la possibilità di esprimere la parte più autentica della propria natura. Quella
più nobile e aristocratica. Un’aristocrazia dello spirito che riconosce la
supremazia dell’arte e della cultura, e che rifiuta l’alienazione massificata,
falsamente solidale e falsamente democratica.
«So
che l’autore – scrive Saccà trincerandosi dietro la terza persona – avrebbe
intitolato il libro: “Senza scampo”. La connessione dell’atrocità della Natura
con la feroce Società fondava questa denominazione. Ma la realistica
considerazione che dobbiamo risolvere ogni condizione permettendo alla Vita di
non ridursi ad un afflitto viaggio tra il Niente ed il Nulla, gli fece mutare il
titolo. Resta però, a suo giudizio, che raramente la Società fu nemica degli
uomini come adesso».
Il
libro si apre con un taglio saggistico di natura socio-economica che descrive le
contraddizioni dell’attuale capitalismo,
approdato ad una sponda distruttiva che cancella il lavoro e persegue il
profitto attraverso l’impoverimento delle masse. Poggiando su un cocktail
micidiale tra tecnologia, globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia. Facendo
rimpiangere (e qui è evidente il riferimento a Rousseau) lo stato di natura
dove «l’individuo almeno è libero, non ha una legalità da rispettare, può
difendersi, mentre nello stato di società l’individuo, dovendo obbedire alla
legalità, non può lottare contro la prepotenza perché la prepotenza ti
schiaccia con il diritto».
Nei
primi capitoli Saccà mostra il pregio della sintesi, focalizzando i fattori di crisi che mettono a
rischio la tenuta del sistema. Ma queste pagine hanno un pregio ulteriore, di
cui sono a conoscenza soprattutto gli estimatori e gli amici che, da anni,
seguono il sociologo con attenzione e rispetto: la capacità di anticipare
scenari complessi. Perché Saccà questi fattori di crisi li aveva già individuati (e problematizzati) da
tempo. Sia nei suoi libri che nelle sue numerose conferenze sul tema. A partire
dal 2008, l’anno dei primi grandi crolli finanziari, quando pochi ne
prevedevano le implicazioni. Già allora Saccà poneva una domanda che ancora oggi
attende risposta: «Questa è una delle crisi del capitalismo o è “la crisi” del
capitalismo?».
Ma
la crisi economica – argomenta Saccà – altro non è se non la punta dell’iceberg
di una crisi di civiltà più generalizzata e diffusa. E allora occorre
«ricostruire la civiltà». Già, ma quale civiltà vogliamo? In risposta a questa
domanda, Saccà ha un’opinione precisa: «L’educazione sociale dovrebbe avere
come scopo fondamentale di insegnare ad ammirare l’uomo di genio, questo
trasfigura una società in civiltà. L’ammirazione è la base della civiltà. I
problemi pratici vanno risolti ma non sono la civiltà, costituita dalle manifestazioni
qualitative in arte, cultura, rapporti umani».
A
questo punto il libro abbandona la tradizionale formula saggistica ed apre ad
una sperimentazione stimolante e innovativa, dove generi diversi s’intrecciano
senza soluzione di continuità: «note diaristiche, momenti di cronaca, aforismi
teologici, l’insistenza sul mistero dell’esistenza, poesie, la morte, il tempo,
la gioia… C’è un’uscita in questo pandemonio?» si domanda Saccà con la consueta
ironia. No, non c’è. O forse sì, a patto di «Amare la vita a fondo perduto…».
E
per esemplificare questo concetto – «Amare la vita a fondo perduto» – che ci
pare rappresenti il nucleo centrale del libro e, a ben vedere, dell’intera
produzione letteraria dell’autore, potremmo citare un’analogia letteraria che emerge
con evidenza fra i numerosi spunti creativi dell’opera. L’analogia è con il
Prevert de “I ragazzi che si amano”, che Saccà ripropone con un’attuale ed
imprevista reinterpretazione: «Al bar, ragazzi, ragazze, si baciano, si fissano
negli occhi, si carezzano, si scambiano dolcetti, bibite, parlano dio sa
quanto, il segreto deve consistere nel parlare cretinamente, però, è la vita,
vivono, uno spettacolo, una fioritura».
Proprio
così. Nonostante la situazione generale e i sistemi economici che «ci
distruggono l’esistenza», la vita
purtuttavia va avanti. Come Saccà confessa, anche ricorrendo a spunti
autobiografici: «Le mie rivalse stanno nei miei libri, nei miei diari, nella
solitudine che mi evita le tensioni della lotta, lotto a modo mio, in me
stesso, per fare il possibile come se il mondo non esistesse. Riesco a
sopravvivere…». Ma non è un atto di rinuncia, il suo, si tratta piuttosto di un
anelito di vita, per salvaguardare un barlume di umanità, per rubare alle
circostanze esterne un attimo di gioia e un soprassalto di piacere: «“Lei è in
arresto, Prof. Antonio Saccà!”. Un’irruzione in casa mia di guardie armate.
“Perché?”, chiesi sgomento. “Perché ha vissuto un momento di felicità”. E mi
condussero via, ammanettato».
Il
libro si snoda così, lungo una linea di sviluppo incalzante, dove il dato razionale
viene costantemente superato dal fluire dell’emozione, secondo un’attenta
progressione che è anche frutto di “mestiere” letterario. Perché Saccà è
scrittore vero e se ne compiace, sebbene talora prenda le distanze anche da se
stesso: «Sono stato mezzo professore universitario, sono stato mezzo amante di
molte donne, sono stato e sono scrittore di mezzo successo e mezzo
insuccesso…».
«L’unica
mia certezza – conclude –, la morte. Sono stravagante a pensare tanto
assiduamente alla morte? Esiste ed è rovinosamente tragica, come non pensarla!
Esiste, certo, ma perché pensarla ossessionatamente? Nascere e morire. Io non
colgo nessun ordine, nessuna legittima ragion d’essere per come stanno le cose.
Sottomesso ma non convinto, morirò come un condannato che sa la propria
innocenza…».
Basta
così, non vogliamo procedere oltre per non sottrarre spazio emotivo alla libera
interpretazione del lettore (fu Proust ad affermare che «ogni lettore, quando legge, legge se
stesso»). Qualcuno potrà trovare questo libro provocatorio ed “estremo”, per l’ansia conoscitiva con cui
“aggredisce” la vita e la rappresenta senza filtri di mediazione. Qualcun altro
ne apprezzerà lo stile iperrealistico e l’analisi cruda, ma comunque pervasa da
un contrastato amore per l’esistenza.
Per
quanto ci riguarda, possiamo solo aggiungere
d’essere in presenza di un libro che incuriosisce e commuove. Perché
ciascuno potrà trovarvi qualcosa delle proprie inquietudini. Delle proprie incertezze
e delle proprie disillusioni. Che poi sono quelle dell’uomo contemporaneo,
giunto a un “porto franco” della storia dove tutte le opzioni sono possibili.
La
morte di un individuo è certificata in anticipo. Ma la storia di una civiltà può
essere capace di sussulti imprevedibili. Da una nuova spinta evolutiva verso
l’assoluto, prefigurata dalla metafora delle due ali nell’enciclica “Fides et
Ratio” («La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito
umano s’innalza verso la contemplazione della verità»), alla drammatica
frattura della storia profetizzata nel finale del celebre romanzo di Garcia
Marquez: «…le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una
seconda opportunità sulla terra».
Saccà queste due opzioni le contempla
entrambe. E nell’attesa che il destino individuale e collettivo si compia, svolge
la sua opera di coscienzioso cronista delle vicende e d’interprete appassionato
dello “spirito del tempo”. Slancio vitalistico e disillusione esistenziale: in
questo dualismo si cela il paradosso letterario di Antonio Sacca e, a ben
vedere, anche il motivo di fondo della sua inesauribile vena creativa.
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