12 novembre 2015

«Amare la vita a fondo perduto»: il paradosso letterario di Antonio Saccà

di Massimo Nardi


Antonio Saccà è un personaggio assai noto alle cronache letterarie. Narratore, saggista e poeta, già docente di sociologia delle forme espressive presso l’Università di Roma “La Sapienza”, ha pubblicato diversi libri di successo, come ad esempio: “Storia della sociologia” (Newton&Compton, 1995) o il più recente “Il padre di Dio” (Bietti Media, 2009).
Ma al di là del dato biografico, Saccà, catanese d’origine trapiantato a Roma, si segnala soprattutto per la sua originalità di pensiero, maturata attraverso il “gene” dell’ironia. Ecco infatti cosa “scrive” di lui il poeta John Milton (1608-1674): «Conosco Antonio Saccà? Certo, lo conosco. L’opera, le poesie. Ha sbagliato secolo. Fosse nato al mio tempo, altra accoglienza…!». Si tratta, ovviamente, di uno “scherzo letterario” che Saccà ha reiterato più volte nei suoi libri, quale espressione della sua naturale attitudine all’aforisma: «L’uomo è un attore che recita senza testo in un teatro vuoto». E ancora: «Due morti mi hanno ucciso. La morte universale. La mia arte di non saper vivere».
Questi due aforismi aprono uno spiraglio su un altro aspetto – quello più introverso e complesso – della personalità letteraria di Saccà. Che potremmo definire con un ossimoro: “credente agnostico”. Una condizione tipica di molti intellettuali del nostro tempo, incapaci di abbandonarsi all’atto illuminante della Fede, ma comunque impegnati in una sincera ricerca di senso. Come emerge da questo brano, tratto dal suo libro “Oltre Dio. Per una Metafisica del Nulla”:
«Non riesco a oltrepassarmi, a uscire da me, sono imprigionato nella mia mente, nella mia individualità, nella mia solitudine. Non mi sostiene alcuno. Nessuno mi può fornire soluzioni. Quando pure mi dicessi: la Ragione ha conquistato, Dio ti ha rivelato, poi sono io colui che consente, approva o non consente, non approva. E perfino se mi dicessi: non è così, tu sei obbligato a riconoscere il vero, nel dirlo io, confermo che sono io, appunto, colui che riconosce o non riconosce, che non posso liberarmi dalla prigionia della mia mente. È sempre la mia mente a concepire che Dio mi ha rivelato, che la Ragione ha stabilito. Dio e la Ragione esistono nella mia mente, per la mia mente, secondo la mia mente e posso disporne a mio arbitrio. Senza aiuto, senza riferimenti, nord, est, sud, ovest di me stesso, Stella Polare di me stesso, affidandomi al sentire come un cieco nella caverna buia, cane senza collare, esule in terra straniera…».
È appunto la riflessione sul mistero il tema dominante dell’opera di Antonio Saccà: l’incertezza e la solitudine della condizione umana di fronte al mistero che determina la tragicità della nostra esperienza, perennemente in bilico fra l’imperio della ragione e il richiamo della trascendenza. Senza che mai si possa giungere ad una soluzione definitiva in grado di rispondere alle domande che contano: “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo…?”. E soprattutto si possa dare una risposta all’angoscia esistenziale che deriva dalla coscienza della nostra finitezza e dal non sapere quale destino ci attende dopo la morte.
Da questa premessa umanissima e drammatica scaturisce la ricerca dello studioso per approfondire il senso della religione quale strumento di mediazione verso il divino, nonché l’impegno del poeta per accedere, attraverso il “medium” della parola, ad una sfera sovrasensibile che trascenda il limite invalicabile della ragione. Ecco un esempio della metafisica di Antonio Saccà in due originali poesie:

PARADISO PERDUTO
“È certo che l’umanità si estinguerà?”.
“È certo!”.
“E il sole?”.
“Perirà!”.
“E l’Universo?”.
“Eterno!”.
“Distruzione e ricombinazione?”.
“Così affermano”.
“Tutto qui!?”.
“Avessi altro da dichiararle
lo farei con gioia
non meno sua che mia.
Questa pare la condizione dell’esistenza…
Viva la vita!”.
“Sempre la vita viva!”.
E festeggiammo
le donne, la morte
il mistero,
sulle rovine dell’antichissima Troia.

*
MICHEL DE MONTAIGNE
Dopo Marte andrò sul possente Giove
quindi il nebbioso Saturno
poi la vicina familiare Luna
non ho un tragitto deciso
mi inoltro a caso
nel mio Universo,
un viaggio tra due, tre Galassie
e un’attrattiva che appagherò
e accoglierò a manate
rigenerante polvere di stelle,
incontrerò divinità greche,
mi avvicinerò al Carro del Sole,
ammirerò finalmente la bellissima Venere,
mi porterò un bagaglio di cuori, di occhi, di cervelli,
di motori incorporabili,
ho intenzione di restarmene migliaia di anni luce
nello Spazio,
ultima avventura
dell’umana ventura.

*
Il Prof. Carlo Jovine, neurologo della Congregazione delle Cause dei Santi, membro della Consulta medica che si è pronunciata in merito al miracolo di Wojtyla ed appassionato di poesia, così si esprime a proposito dell’opera letteraria di Saccà: «Nonostante la consapevolezza del rischio che corre ogni esploratore dell’inconscio, Saccà accetta la sfida e si lancia in un affascinante percorso attraverso le profondità esistenziali dell’essere umano, con il rigore critico dell’accademico e la libertà dello scrittore creativo. Nella sua opera s’avverte con intensità il dramma dell’uomo, combattuto tra la ragione, che lo porta ad una sorta di “horror vacui”, e il desiderio inconfessato di arrivare alla luce, all’illuminazione che consenta d’intuire il senso della vita».
«Nel mistero del nostro essere in quanto esistenze autocoscienti uniche – continua Jovine, citando il Premio Nobel Sir John Eccles – noi possiamo trovare i motivi di una speranza, dal momento che poniamo la nostra personale esperienza, delicata, sensibile e fugace, contro la terrificante immensità di uno spazio e di un tempo illimitati. Non siamo noi partecipi – conclude il neurologo – di ciò che ha un significato, dove altrimenti non vi sarebbe alcun significato? Non proviamo delle emozioni dilettandoci dell’amicizia, della gioia, dell’armonia, della verità, dell’amore e della bellezza, dove altro non vi sarebbe se non l’Universo enigmatico?».
Alla luce di queste riflessioni, leggiamo ancora una poesia di Antonio Saccà dedicata al celebre poeta inglese citato in apertura: John Milton, autore del poema epico “Paradise Lost” (“Paradiso perduto”), un capolavoro letterario che viene considerato un vero e proprio “dramma cosmico”.

MILTON
Scorrano i miei versi nel tuo corpo
come le sorsate di vino che mesci leggendoli.
Incessantemente presi dal Niente
non ci rimane che inebriarci di dimenticanza!
Leggimi con passione,
sii generoso nell’entusiasmo,
se ti entusiasmo.
Viviamo esaltandoci
o è inutile vivere.

***
Abbiamo scritto in apertura che Saccà è anche narratore e saggista, ed è appunto alla sua produzione in prosa che vogliamo dedicare la seconda parte della nostra riflessione. Con una premessa: la dimensione saggistica e narrativa, in Saccà, è intimamente legata a quella poetica (anzi, è in qualche modo subordinata ad essa), perché mostra la tendenza – che è propria della poesia – a sottrarsi al lucido predominio della ragione cognitiva per affidarsi ad un altro tipo di conoscenza: quella intuitiva. Che della poesia ha la visionarietà e lo sguardo prospettico.
Antonio Saccà ha scritto circa cinquanta libri: una produzione considerevole che, negli ultimi anni, ha registrato una decisa accelerazione nell’esigenza di rendere testimonianza degli impetuosi cambiamenti in atto, che minacciano le nostre radici antropologiche. Ma a dare la misura dello scrittore e dell’uomo Saccà (che sono, in fondo, una cosa sola) soccorre soprattutto il suo ultimo libro: “Il mio prossimo sono io” (2015, Edizioni Artescrittura). Un libro che potremmo definire una rappresentazione – di più: una accurata ricognizione – dell’insuperabile dualismo che pervade la vicenda umana. Un dualismo che si manifesta a partire dal titolo, “Il mio prossimo sono io”, che potrebbe apparire, ad un prima lettura, una esaltazione dell’esasperato individualismo che connota l’incultura contemporanea. Ed è invece l’esatto opposto: è l’urlo dell’essere umiliato ed offeso che rivendica la possibilità di esprimere la parte più autentica della propria natura. Quella più nobile e aristocratica. Un’aristocrazia dello spirito che riconosce la supremazia dell’arte e della cultura, e che rifiuta l’alienazione massificata, falsamente solidale e falsamente democratica.
«So che l’autore – scrive Saccà trincerandosi dietro la terza persona – avrebbe intitolato il libro: “Senza scampo”. La connessione dell’atrocità della Natura con la feroce Società fondava questa denominazione. Ma la realistica considerazione che dobbiamo risolvere ogni condizione permettendo alla Vita di non ridursi ad un afflitto viaggio tra il Niente ed il Nulla, gli fece mutare il titolo. Resta però, a suo giudizio, che raramente la Società fu nemica degli uomini come adesso».
Il libro si apre con un taglio saggistico di natura socio-economica che descrive le contraddizioni dell’attuale capitalismo, approdato ad una sponda distruttiva che cancella il lavoro e persegue il profitto attraverso l’impoverimento delle masse. Poggiando su un cocktail micidiale tra tecnologia, globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia. Facendo rimpiangere (e qui è evidente il riferimento a Rousseau) lo stato di natura dove «l’individuo almeno è libero, non ha una legalità da rispettare, può difendersi, mentre nello stato di società l’individuo, dovendo obbedire alla legalità, non può lottare contro la prepotenza perché la prepotenza ti schiaccia con il diritto».
Nei primi capitoli Saccà mostra il pregio della sintesi, focalizzando i fattori di crisi che mettono a rischio la tenuta del sistema. Ma queste pagine hanno un pregio ulteriore, di cui sono a conoscenza soprattutto gli estimatori e gli amici che, da anni, seguono il sociologo con attenzione e rispetto: la capacità di anticipare scenari complessi. Perché Saccà questi fattori di crisi li aveva già individuati (e problematizzati) da tempo. Sia nei suoi libri che nelle sue numerose conferenze sul tema. A partire dal 2008, l’anno dei primi grandi crolli finanziari, quando pochi ne prevedevano le implicazioni. Già allora Saccà poneva una domanda che ancora oggi attende risposta: «Questa è una delle crisi del capitalismo o è “la crisi” del capitalismo?».
Ma la crisi economica – argomenta Saccà – altro non è se non la punta dell’iceberg di una crisi di civiltà più generalizzata e diffusa. E allora occorre «ricostruire la civiltà». Già, ma quale civiltà vogliamo? In risposta a questa domanda, Saccà ha un’opinione precisa: «L’educazione sociale dovrebbe avere come scopo fondamentale di insegnare ad ammirare l’uomo di genio, questo trasfigura una società in civiltà. L’ammirazione è la base della civiltà. I problemi pratici vanno risolti ma non sono la civiltà, costituita dalle manifestazioni qualitative in arte, cultura, rapporti umani».
A questo punto il libro abbandona la tradizionale formula saggistica ed apre ad una sperimentazione stimolante e innovativa, dove generi diversi s’intrecciano senza soluzione di continuità: «note diaristiche, momenti di cronaca, aforismi teologici, l’insistenza sul mistero dell’esistenza, poesie, la morte, il tempo, la gioia… C’è un’uscita in questo pandemonio?» si domanda Saccà con la consueta ironia. No, non c’è. O forse sì, a patto di «Amare la vita a fondo perduto…».
E per esemplificare questo concetto – «Amare la vita a fondo perduto» – che ci pare rappresenti il nucleo centrale del libro e, a ben vedere, dell’intera produzione letteraria dell’autore, potremmo citare un’analogia letteraria che emerge con evidenza fra i numerosi spunti creativi dell’opera. L’analogia è con il Prevert de “I ragazzi che si amano”, che Saccà ripropone con un’attuale ed imprevista reinterpretazione: «Al bar, ragazzi, ragazze, si baciano, si fissano negli occhi, si carezzano, si scambiano dolcetti, bibite, parlano dio sa quanto, il segreto deve consistere nel parlare cretinamente, però, è la vita, vivono, uno spettacolo, una fioritura».
Proprio così. Nonostante la situazione generale e i sistemi economici che «ci distruggono l’esistenza», la vita purtuttavia va avanti. Come Saccà confessa, anche ricorrendo a spunti autobiografici: «Le mie rivalse stanno nei miei libri, nei miei diari, nella solitudine che mi evita le tensioni della lotta, lotto a modo mio, in me stesso, per fare il possibile come se il mondo non esistesse. Riesco a sopravvivere…». Ma non è un atto di rinuncia, il suo, si tratta piuttosto di un anelito di vita, per salvaguardare un barlume di umanità, per rubare alle circostanze esterne un attimo di gioia e un soprassalto di piacere: «“Lei è in arresto, Prof. Antonio Saccà!”. Un’irruzione in casa mia di guardie armate. “Perché?”, chiesi sgomento. “Perché ha vissuto un momento di felicità”. E mi condussero via, ammanettato».
Il libro si snoda così, lungo una linea di sviluppo incalzante, dove il dato razionale viene costantemente superato dal fluire dell’emozione, secondo un’attenta progressione che è anche frutto di “mestiere” letterario. Perché Saccà è scrittore vero e se ne compiace, sebbene talora prenda le distanze anche da se stesso: «Sono stato mezzo professore universitario, sono stato mezzo amante di molte donne, sono stato e sono scrittore di mezzo successo e mezzo insuccesso…».
«L’unica mia certezza – conclude –, la morte. Sono stravagante a pensare tanto assiduamente alla morte? Esiste ed è rovinosamente tragica, come non pensarla! Esiste, certo, ma perché pensarla ossessionatamente? Nascere e morire. Io non colgo nessun ordine, nessuna legittima ragion d’essere per come stanno le cose. Sottomesso ma non convinto, morirò come un condannato che sa la propria innocenza…».
Basta così, non vogliamo procedere oltre per non sottrarre spazio emotivo alla libera interpretazione del lettore (fu Proust ad affermare che «ogni lettore, quando legge, legge se stesso»). Qualcuno potrà trovare questo libro provocatorio ed “estremo”, per l’ansia conoscitiva con cui “aggredisce” la vita e la rappresenta senza filtri di mediazione. Qualcun altro ne apprezzerà lo stile iperrealistico e l’analisi cruda, ma comunque pervasa da un contrastato amore per l’esistenza.
Per quanto ci riguarda, possiamo solo aggiungere d’essere in presenza di un libro che incuriosisce e commuove. Perché ciascuno potrà trovarvi qualcosa delle proprie inquietudini. Delle proprie incertezze e delle proprie disillusioni. Che poi sono quelle dell’uomo contemporaneo, giunto a un “porto franco” della storia dove tutte le opzioni sono possibili.
La morte di un individuo è certificata in anticipo. Ma la storia di una civiltà può essere capace di sussulti imprevedibili. Da una nuova spinta evolutiva verso l’assoluto, prefigurata dalla metafora delle due ali nell’enciclica “Fides et Ratio” («La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità»), alla drammatica frattura della storia profetizzata nel finale del celebre romanzo di Garcia Marquez: «…le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra».
Saccà queste due opzioni le contempla entrambe. E nell’attesa che il destino individuale e collettivo si compia, svolge la sua opera di coscienzioso cronista delle vicende e d’interprete appassionato dello “spirito del tempo”. Slancio vitalistico e disillusione esistenziale: in questo dualismo si cela il paradosso letterario di Antonio Sacca e, a ben vedere, anche il motivo di fondo della sua inesauribile vena creativa.


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