1 giugno 2008

Perché il Tibet viva

di Piero Verni

Il problema tibetano è molto semplice, pur nella sua drammatica complessità. Il dominio cinese, in oltre sessant’anni di repressioni, non è riuscito a normalizzare il popolo tibetano né all’interno né all’esterno del Tibet

In queste ore nelle strade di Lhasa, pattugliata da oltre 20.000 soldati cinesi e da una cinquantina di blindati dell’Armata Rossa, decine e decine di prigionieri politici tibetani sfilano sui carri dell’esercito di Pechino ammanettati e a testa bassa mentre dagli altoparlanti una voce metallica intima a quanti non sono stati ancora arrestati di consegnarsi prima che sia troppo tardi. E sempre in queste ore sono stati affissi sui muri della cosiddetta Regione Autonoma del Tibet e delle contee e aree tibetane incorporate nelle province del Sichuan e del Gansu, manifesti in cui si avverte la popolazione che ogni assembramento verrà immediatamente sciolto con la forza dalla Polizia Armata che ha l’ordine di sparare sulla folla.
Questo è la situazione del Tibet odierno, governato da quella Cina che si sta gioiosamente preparando a celebrare la sua parata olimpica pronta ad incassare il plauso e la meraviglia del mondo per le sue conquiste e le sue scintillanti vetrine. Quella Cina autorefenrenziale che parla di sé come di una “società armoniosa” che grazie al “socialismo di mercato” è proiettata verso un futuro di superpotenza economica e grazie alla forza dei suoi muscoli (pochi giorni or sono Pechino ha aumentato del 18% il suo già oneroso budget per le spese militari) anche di superpotenza politica.
In un’intervista rilasciata alla giornalista Ursula Gauthier e pubblicata in gennaio dal settimanale francese le Nouvel Observateur, il Dalai Lama affermava che nel corso dell’ultimo incontro che i suoi inviati avevano avuto nel giugno 2007 con alcuni dirigenti cinesi, questi ultimi avevano “puramente e semplicemente negato l’esistenza di un problema tibetano”.
Adesso quei dirigenti dovranno ricredersi. Adesso, che a Lhasa sono esplose incontenibili la rabbia, la frustrazione, il furore delle donne e degli uomini del Tibet esasperati da oltre cinquant’anni di giogo coloniale brutale e inflessibile. Adesso, che a Labrang, Ngaba, Ganja, Machu e in altre località del Tibet storico si susseguono manifestazioni e proteste invariabilmente represse nel sangue. Adesso, che ovunque nel mondo si manifesta la disperazione del popolo tibetano.
L’orrore della carneficina di Lhasa. L’orrore delle fotografie dei cadaveri degli assassinati dalle pallottole cinesi sparate ad altezza d’uomo. L’orrore dei rastrellamenti, delle incarcerazioni indiscriminate, delle torture. Tutto questo dimostra che esiste un problema tibetano. Esiste per Pechino ma esiste anche per la diplomazia internazionale che fatica a rimanere muta, cieca e sorda (come certamente vorrebbe) di fronte alla tragedia che si sta consumando sul Tetto del Mondo.
E il problema tibetano è molto semplice, pur nella sua drammatica complessità. Il dominio cinese, in oltre sessant’anni di repressioni, non è riuscito a normalizzare il popolo tibetano né all’interno né all’esterno del Tibet. Le immagini che in questi giorni stanno circolando sui circuiti televisivi e sulla Rete, ci fanno vedere come la protesta sia portata avanti principalmente da giovani e giovanissimi. Che si tratti di laici o di monaci, si tratta sempre di persone che non erano nemmeno nate nel 1959. Che nonostante tutta la retorica e la disinformazione cinese continuano ad essere fedeli all’identità tibetana e non si piegano al pugno di ferro di Pechino. Che continuano a sperare e a lottare per un Tibet libero. Per rangzen, il termine tibetano che designa l’indipendenza così come quello sanscrito swaraj di gandhiana memoria.
Non a caso “Rise up, resist, return” (Insorgi, Resisti, Ritorna) è lo slogan principale di quella “Marcia Verso il Tibet” che cinque organizzazioni della diaspora tibetana hanno fatto partire da Dharamsala il 10 marzo e che attualmente, dopo un primo stop provocato dalla polizia indiana che il 13 marzo aveva arrestato i primi cento marciatori, è ripresa e proprio oggi ha lasciato lo stato indiano dell’Himachal Pradesh ed è entrata in quello del Punjab puntando verso Nuova Delhi. Oggi il popolo tibetano sente che l’occasione olimpica mette come non mai la Repubblica Popolare Cinese sotto i riflettori dell’opinione pubblica internazionale e questa consapevolezza, insieme alla sempre più forte disperazione, ha acceso una scintilla che a Lhasa come a Dharamsala, come in tanti altri luoghi ha convinto i tibetani ad agire. Credo sia importante sottolineare il peso che proprio la “Marcia Verso il Tibet” intrapresa dagli esuli in India ha avuto e continua ad avere per la situazione tibetana. Anche se sono da escludere le capacità organizzative di cui parlano i cinesi, che accusano la “cricca del Dalai Lama” di essere la responsabile dell’insurrezione di questi giorni, è però molto probabile che le notizie della “Marcia” diffuse in Tibet attraverso un passaparola di telefonate, Sms, Mms, lettere (non Internet perché in Tibet la comunicazione telematica è strettamente controllata dall’apparato poliziesco), ascolti collettivi dei programmi di Radio FreeAsia, siano state per i tibetani una ulteriore spinta a protestare. E infatti tra il 10 e il 13 marzo, mentre in India la “Marcia Verso il Tibet” si snodava lungo le strade dell’Himachal Pradesh, a Lhasa cominciavano a tenersi le prime manifestazioni. Dapprima sparuti gruppi di monaci poi masse sempre più ingenti di laici e religiosi, sono scese nelle strade della capitale tibetana per protestare contro l’occupazione cinese.
Sarà bene ricordarlo. Si è trattato per almeno tre giorni di manifestazioni assolutamente pacifiche dove non è volata nemmeno una pietra ma si sono uditi solo slogan e preghiere. Nonostante questo Pechino ha risposto immediatamente con la solita brutalità e durezza. Manifestanti arrestati e torturati in prigione, asfissianti controlli di polizia, monasteri assediati per impedire ai monaci di uscire. Ed è a questo punto che la collera dei tibetani è esplosa incontenibile contro ogni segno visibile della presenza cinese. I simboli dell’occupante (negozi, edifici, automobili) sono stati presi a sassate, divelti e a volte dati alle fiamme. In qualche sporadico caso a fare le spese della frustrazione tibetana sono stati anche alcuni coloni cinesi. I nodi di decenni di vite vissute come cittadini di terza classe nel proprio Paese, decenni di angherie, umiliazioni, sofferenze, discriminazioni sono infine venuti al pettine.
E’ difficile capire cosa stia passando nella testa della nomenclatura cinese in questo momento. Difficile stabilire se il segnale che sta arrivando loro dalle vie e dalle piazze di Lhasa, dai monasteri e dai villaggi dell’Amdo (luogo natale dell’attuale Dalai Lama) e del Kham, perfino da alcuni insediamenti dei nomadi, li farà recedere dalla posizione di totale chiusura in cui si sono autorinchiusi. Difficile capire se almeno qualcuno nelle stanze dei palazzi del potere di Zhongnanhai stia rimpiangendo di non aver dato ascolto e spazio alla posizione moderata e disponibile del Dalai Lama. Di aver sempre sempre chiuso in faccia la porta alla richiesta di dialogo del Dalai Lama. Di aver detto sprezzantemente ai suoi inviati che “non esiste alcun problema tibetano”.
Di almeno una cosa però adesso, grazie all’eroismo e al sacrificio di centinaia di persone, possiamo essere certi. Hu Jintao, Wen Jiabao e gli altri autocrati di Pechino hanno dovuto prendere atto che esiste un “problema tibetano”. A caldo stanno dando la colpa alla “cricca del Dalai” ma non si deve escludere che possano aver compreso come in realtà stanno le cose. Ed ora si trovano di fronte ad un bivio. Possono illudersi di pensare di risolvere il problema con ancora più repressione, ancora più torture, ancora più condanne a morte, ancora più coloni oppure, realisticamente, comprendere una buona volta l’irriducibilità della questione tibetana. Probabilmente è per loro l’ultima spiaggia. Perché se non ottiene almeno una modesta apertura di credito, la ragionevole politica del Dalai Lama non avrà più alcuna chance agli occhi del suo popolo che già oggi, nonostante l’immensa devozione che lo circonda sul piano religioso, politicamente non convince settori significativi della sua gente.
Nei prossimi giorni vedremo cosa accadrà nel Paese delle Nevi. E’ di pochi istanti fa la notizia che il Dalai Lama, come gesto estremo per porre termine alla carneficina e in risposta alle accuse cinesi di essere il mandante delle manifestazioni, si è dichiarato disponibile a dare le “dimissioni” dalla guida del suo governo. Si tratta probabilmente di una minaccia indirizzata ai dirigenti cinesi affinché gli consentano di poter continuare a chiedere al suo martoriato popolo moderazione. Nei fini e nei mezzi. Dubito che possa essere ascoltato con autentica sincerità da quanti hanno ancora le mani lorde del sangue di centinaia di vittime e non smettono di ricoprire l’Oceano di Saggezza di insulti e contumelie. Comunque vadano le cose però, ritengo che sia indispensabile che continui in India il movimento gandhiano della “Marcia Verso il Tibet” che potrebbe divenire per la questione tibetana, quello che la “Marcia del sale” del Mahatma Gandhi rappresentò per la lotta di liberazione dell’India. E’ fondamentale che la vitalità, l’energia, l’entusiasmo, che la “Marcia Verso il Tibet” sta suscitando tra i tibetani e i loro sostenitori internazionali non si spengano e anzi vengano continuamente alimentati. Solo così infatti le donne e gli uomini del Tibet, dentro e fuori il loro Paese, potranno trovare la forza, l’energia, l’ispirazione per continuare la lotta senza soccombere ai demoni della rabbia cieca, della disperazione e del furore. Solo così la scintilla della battaglia per un Tibet libero potrà rimanere ben viva e visibile a tutti. Anche ai cinesi di buona volontà.
Perché il Tibet viva.

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