di Giorgio Gasperoni
La pace, nel linguaggio comune, somiglia a una parola-cuscino: ci appoggi sopra la testa quando sei stanco di conflitti e tensioni. Ma la pace reale non è un cuscino. È un muscolo. E, come ogni muscolo, non cresce con le buone intenzioni: cresce con l’allenamento, con strumenti adeguati, con disciplina istituzionale. In una frase: la pace non è neutrale; è capacità.
C’è un equivoco che ritorna puntuale quando l’Europa parla di guerra e negoziati: l’idea che essere “per la pace” significhi stare sempre nel mezzo, distribuire ragioni in parti uguali, mettere sullo stesso piano responsabilità e torti. Ma la pace non è equidistanza: è imparzialità di metodo – regole chiare, trasparenza, verifica – unita a principi non negoziabili, primo fra tutti la tutela dei civili e del diritto internazionale. Se confondiamo i due piani, non mediamo: normalizziamo.
Da qui la lezione che arriva dalle notizie europee: l’Unione si muove non per romanticismo, ma per necessità. La discussione sugli asset russi, le scelte di finanziamento, la ricerca di coordinamento sono segni di un continente che, a fatica, sta capendo che la credibilità non nasce dai comunicati, ma dalla capacità di reggere il peso delle decisioni. Anche l’Europa “a due velocità” – tanto criticata – diventa, in tempi di crisi, un modo per non restare paralizzati dall’unanimità. Non è bello, ma è operativo. E oggi l’operatività è parte integrante della pace, perché riduce lo spazio dell’arbitrio e dell’aggressione.
Poi c’è l’Italia, che offre un’altra faccia della stessa verità: la pace sociale non si costruisce con promesse simboliche, ma con scelte sostenibili. Il capitolo pensioni, in particolare, racconta un paradosso: per anni si è venduta l’illusione che basti “cambiare una legge” per rendere il futuro più facile; poi arrivano i conti, l’invecchiamento demografico, i margini stretti della finanza pubblica, e la politica riscopre la parola che non fa vincere applausi ma evita disastri: responsabilità. Anche quando significa scontentare, ridurre scorciatoie, rimettere in fila le priorità.
Dentro questo quadro, persino il dibattito su difesa e aiuti civili va letto senza ipocrisie. Separare, come è stato detto, gli aiuti sociali ai civili da quelli militari può sembrare una disputa tecnica. In realtà è un punto etico: difendere un popolo non è solo fornire mezzi; è anche garantire ospedali, scuole, reti energetiche, dignità quotidiana. Se una politica di sicurezza dimentica i civili, diventa cinica. Se una politica “di pace” dimentica la sicurezza, diventa inefficace. La pace, ancora una volta, è capacità di tenere insieme ciò che la propaganda separa. La credibilità dell’Occidente e dell’Europa passa anche da questo: dalla coerenza tra i valori proclamati e le vite protette.
Se vogliamo una parola “pace” che non sia ornamentale, dobbiamo trattarla come un impegno pubblico: costruire capacità, investire in istituzioni, educare alla responsabilità, chiedere verità nelle narrazioni. La pace non è un sentimento. È un lavoro. E, oggi più che mai, è il lavoro più urgente.
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