di Giorgio Gasperoni
Mi sono ritrovato a leggere un articolo di Dayo Olopade, una scrittrice di origine nigeriana cresciuta negli Stati Uniti. Mi ha colpito subito la sua prima affermazione: “I deserti sono notoriamente multiformi. Visti da una certa prospettiva, essi sono ostili e l’ambiente intimidisce ed è impervio come una fossa di serpenti. Eppure, rispetto alle montagne, alle foreste, o agli oceani, invitano più facilmente ad essere attraversati. In Africa, il deserto del Sahara è sconcertante, può essere visto come un’autostrada del continente ma anche come una sua Grande Muraglia”.
Ma, quanto meno agli occhi dell’Economia Globale, la regione di Medio Oriente e Nord Africa ha differenze inconciliabili con l’Africa sub-sahariana.
Dayo Olopade ha passato tre anni a viaggiare in 17 paesi africani per scrivere un libro sull’Africa moderna (recensione del libro nelle pagine di questo giornale), e anch’ella aveva respinto l’idea di considerare l'Africa del Nord come parte della storia del continente. "Mi concentro sui quarantacinque paesi collegati tra loro per via del loro passato coloniale comune e di un presente relativamente sottosviluppato, escludendo il Nord Africa", aveva scritto. Aveva però fatto questa dichiarazione senza aver mai messo piede nell’Africa del Nord.
È stata di recente in Marocco (2015) come membro dell’African Leadership Network, un gruppo pan-africano presente e attivo in 39 paesi. Il tema della riunione era incentrato sulla sfida dei confini: un tema particolarmente azzeccato. I due terzi del gruppo non erano mai stati in Marocco.
Uno dei partecipanti, un uomo d’affari, le disse: "Quando ero piccolo, ci dicevano che l'Africa inizia a Limpopo [fiume, vicino al confine settentrionale del Sud Africa] e termina al Sahara".
Inoltre, è difficile far sì che un miliardo di persone si possa accordare su qualcosa, ma bisogna anche dire che quel consenso non sia stato ancora mai cercato.
La complessa logica per decidere se optare dentro o fuori dall'identità africana sembra portare a un punto morto tra l'Africa araba e quella nera.
Alcuni uomini d'affari del Sud Africa, facendo riferimento all’ "Africa", ne parlano come se non fossero loro stessi residenti in quel continente. Un sentimento simile prevale in alcune zone della società nordafricana. "Noi arabi ci sentiamo diversi, e non legati all’Africa sub-sahariana", dice Ayman Khaman, uno studente universitario marocchino che frequenta l’African Leadership Academy a Johannesburg. "La gente in Marocco ritiene di dover piuttosto allearsi con i francesi e gli spagnoli".
Tuttavia, secondo la dott.ssa Olopade, la geopolitica moderna sta cambiando gli incentivi. Gli ultimi cinque anni d’instabilità in Medio Oriente hanno rovesciato le opportunità del business; il FMI stima che la primavera araba sia costata alla regione 55 miliardi di dollari in perdita di commercio e turismo.
Nel frattempo, il brand dell'Africa è in aumento. "Ci sono persone che fanno un lavoro straordinario in tutto il continente. Quello che manca è la connessione tra loro", spiega Acha Leke, co-fondatore e direttore per McKinsey in Africa.
L'integrazione regionale è stata un sogno in Africa, fin dai tempi di Kwame Nkrumah. Ora, dice Abdou Diop, un cittadino senegalese che vive in Marocco da decenni, "Il Business potrà forse facilitare la collaborazione politica".
È difficile immaginare se considerare le ambizioni panafricane come qualcosa di reale, o un miraggio. Ci sono un sacco di concorrenti in competizione tra loro per costruire rapporti d’affari a sud del Sahara. Strategie commerciali "Sud Sud" sono in movimento in zone come Turchia, Brasile, Emirati Arabi Uniti e l'onnipresente Cina. Ma, come sempre in Africa, ciò che conta è essere locali.
Come Olopade riporta, con la crescita dell'Africa vengono attirati investitori, sia esteri che nazionali; ma una sfida chiave emersa è la mancanza di talenti nei posti chiave che questa crescita comporta.
Le imprese stanno operando in modi creativi per riempire posizioni di alto livello. Un modello è creare programmi di formazione manageriale interni alle aziende, come Diageo, Coca Cola e McKinsey stanno già facendo. Un altro approccio è individuare aree del continente in cui i talenti esistono, e trasferirli in paesi in cui vi è una carenza di competenze. C'è una tendenza emergente verso leader pan-africani. È ancora raro ma lentamente figure di questo tipo stanno emergendo.
La diaspora africana è stimata in circa 30 milioni di persone a livello globale, e sta pure emergendo come una fonte primaria di talenti per alcune di queste aziende. Con la crescita del continente alcuni africani, che se ne erano andati in cerca di migliori opportunità all'estero, stanno esprimendo la volontà di tornare. Economie come quella del Kenya stanno crescendo ad un ritmo veloce, il che costituisce sempre più un richiamo per i talenti della diaspora.
Ma questo modo di sentire non è condiviso ovunque sul continente. La diaspora sudafricana è meno disposta a tornare a casa, stando alle aziende. Nonostante l'economia sia la più sviluppata della regione, fattori economici e politici del paese sono visti come proibitivi, secondo un sondaggio effettuato.
Mentre il settore privato continua a crescere, le aziende dovranno affrontare le sfide non solo nel reclutamento dei migliori talenti, ma nel sostenere tale processo. Gli incentivi sono dei buoni stimoli, e il potenziale per salire in alto è più convincente, sempre secondo i dati raccolti. Questo offre alle aziende locali un vantaggio rispetto alle imprese straniere, e spiega perché molti keniani e sudafricani decidono di lavorare per le organizzazioni locali. I nigeriani, invece, hanno mostrato una preferenza per le società multinazionali.
1 Dayo Olopade, autore del libro “The Bright Continent”: breaking rules & making change in Modern Africa”
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