1 novembre 2013

San Suu Kyi in Italia: “L’Occidente ci ha aiutato ma è adesso il momento per cambiare la Birmania”

Il leader nella difesa dei diritti umani in Birmania e Premio Nobel per la Pace è in Italia. Dopo aver fatto tappa a Roma ed incontrato il presidente Letta, è giunta ieri a Torino dove ha rilasciato questa intervista a Mario Calabresi, pubblicata su "La Stampa" di oggi:
Da "La Stampa" del 30/10/2013 Intervista di Mario Calabresi

La voce è bassa, il tono gentile ma ogni risposta è diretta e sicura: «No, non mi sento affatto un’eroina. Non penso di essere un simbolo di pace nel mondo. Ci sono molte altre persone che lo fanno meglio di me». Solo alla fine dell’intervista farà due nomi, parlerà di due persone a cui sarà per sempre grata per l’appoggio costante che le hanno dato, due modelli nella lotta per la libertà e la democrazia: Václav Havel e Desmond Tutu.
Aung San Suu Kyi arriva a Torino in treno, vestita come non la conosciamo, avvolta in un impermeabile grigio. Il sindaco Fassino la aspetta al binario con un mazzo di roselline colorate che, nel tempo di un veloce passaggio in albergo, si trasformeranno nel tradizionale ornamento della sua capigliatura.
Negli anni degli arresti domiciliari ogni mattina usciva in giardino a prendere un fiore da mettere nei capelli, lo faceva per non lasciarsi mai andare, per rispettare uno stile. Oggi ci pensa Tin Mar Aung, la sua ombra, che la accompagna ovunque, che le fa da capo staff, da amica, da assistente. Lavorano insieme da 19 anni, una è un politico l’altra un medico, le accomuna l’idea che il futuro della Birmania dovrà ripartire dall’educazione, dalla possibilità di crescere coscienze critiche.


Che cosa ha chiesto alla comunità internazionale e al governo italiano in questo viaggio che l’ha portata da Bruxelles a Londra, a Roma?
«La cosa più importante è sostenere il nostro sforzo per emendare la Costituzione. Quella attuale non è democratica e non possiamo spingere il processo di riforme se prima queste modifiche non saranno effettuate. Finché non sarà rivista, non avremo una vera democrazia».

Pensa che le modifiche alla Costituzione, che non le permette di essere eletta perché vieta candidati con parentele straniere, avranno luogo in tempo prima delle elezioni?
«Abbiamo ottenuto una Commissione per la riforma della Costituzione e dovrà pubblicare un rapporto con le sue raccomandazioni proprio entro la fine di quest’anno: per questo è importante battere il ferro adesso. Il momento è adesso. Inoltre il 25 per cento dei posti in Parlamento resta riservato ai militari».

Che cosa possiamo fare per aiutare la Birmania nella sua battaglia per la democrazia?
«La cosa più importante è che l’Occidente sappia quello che sta succedendo e si tenga informato, al di là delle apparenze e delle dichiarazioni superficiali. Spesso dall’esterno è difficile capire, ma oggi ci sono tanti strumenti per approfondire. In apparenza, la Birmania sta già attuando riforme democratiche, ma non è affatto così. Pochissimi da fuori hanno studiato la nostra Costituzione, e di fatto pochissimi birmani hanno avuto la possibilità di studiarla, perché nel 2008 quando c’è stato il referendum per approvarla ne sono state stampate solo 10 mila copie, su una popolazione di 55 milioni di abitanti. È stata una cosa totalmente ridicola, che dimostra che questo governo non ha mai avuto intenzione di informare per davvero la popolazione su quale Costituzione avrebbe dovuto adottare. Il mio partito sta facendo questo sforzo e sta andando molto bene, c’è molto interesse. Ma il mondo deve sapere che cosa va cambiato e sostenerci».

Da politica attiva nell’opposizione al regime è diventata un membro del Parlamento e questo le ha portato molte critiche: come gestisce questa transizione?
«È da 20 anni che mi criticano: per alcuni non sono stata abbastanza intransigente e altri scoprono solo adesso che sono una politica, ma lo sono sempre stata. Ho sempre fatto opposizione come leader di un partito politico, non come attivista dei diritti umani».

Che cosa pensa delle sanzioni economiche internazionali contro i regimi dittatoriali nel mondo?
«Dipende dai Paesi e dal tipo di sanzioni. A Cuba, storicamente, le sanzioni non sono servite perché c’era l’Urss che interveniva per aiutare il governo di Castro. In Birmania secondo il Fondo monetario internazionale hanno avuto poca efficacia. Il nostro governo invece da un paio d’anni dà la colpa alle sanzioni per la crisi, che invece secondo l’Fmi è dovuta a una cattiva gestione dell’economia. Che sia vero o no, il fatto è che la percezione passata alla popolazione è che le sanzioni abbiano colpito il Paese. Io le ho sostenute perché servivano per sensibilizzare i miei cittadini sulla mancanza di democrazia e sulla cattiva immagine nel mondo del nostro regime militare».

Quanto è forte l’influenza della Cina in Birmania?
«La Cina ha investito economicamente negli ultimi decenni nel nostro Paese, ma da un anno e mezzo circa gli investimenti cinesi sono diminuiti. E credo che in futuro continueranno a diminuire, per due motivi: il primo è la mancanza di fiducia, si teme l’instabilità e non ci sono regole certe. Il secondo è la grave carenza di infrastrutture».

Dopo tanti anni agli arresti domiciliari, che effetto le fa viaggiare in giro per il mondo?
«Tutti i viaggi che sto facendo sono per lavoro, per cui non essere a casa significa solo più lavoro».

Che impressione ha avuto dell’Italia?
«Ci sono stata più di quarant’anni fa, da giovane studentessa, e ho dei bei ricordi. Tutti pensiamo all’Italia per come l’abbiamo studiata: quella degli antichi romani e dell’arte, quindi non è solo quella che ci raccontano le notizie d’attualità. A me, come a molti cittadini del mondo, sembra di conoscerla da sempre».

Com’è stato l’incontro con Papa Francesco?
«Molto bello. Ho sentito il calore e l’umanità che è capace di trasmettere. Sono qualità molto importanti per un leader religioso, specialmente di questi tempi».

Ha qualche rimpianto?
«Resta in silenzio per qualche secondo, sarà l’unico attimo di incertezza del nostro incontro, poi mi scruta: «In che senso, dove?». Capisco che non vuole parlare di fatti privati, così non le chiedo del marito che è morto lontano mentre lei era agli arresti domiciliari o dei figli che non ha potuto seguire, ma solo della sua battaglia politica: «No, nel complesso il lavoro che ho fatto per il nostro movimento per la democrazia è stato lento, ma soddisfacente».

C’è un messaggio che vorrebbe diffondere oltre alla battaglia per la democrazia nel suo Paese?
«La nostra battaglia non è unica: sempre più popoli lottano per la democrazia. È il solo sistema che ci permette di scegliere che tipo di Paese vogliamo. Nessuna democrazia è perfetta, ma solo lei prende in considerazione l’opinione del popolo».

Come ha reagito quando ha vinto il Premio Nobel per la Pace?
«Ero agli arresti domiciliari, l’ho saputo alla radio. Non mi ha sorpreso perché avevo sentito alla Bbc di essere stata candidata e da due settimane giravano voci sulla short list. Ma tutto mi è sembrato irreale, lontano, come se non avesse a che fare con me».

Se riuscirete a cambiare la Costituzione e se sarà eletta, quale sarà il primo punto della sua agenda?
«La pace e la stabilità. Dall’indipendenza a oggi non ci sono mai state. È ora di diventare un Paese veramente unito, capace di riconciliarsi».

Chi l’ha aiutata di più in questi ultimi vent’anni?
«Un po’ tutti Paesi dell’Occidente, a partire dagli Stati Uniti, in Europa alcuni più altri meno».

Ma non c’è una persona che ha fatto la differenza?
«Mi sento debitrice nei confronti dell’ex presidente ceco Václav Havel e dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu. Mi hanno sostenuto personalmente. Havel mi ha telefonato poco prima di morire e pochi giorni dopo ho ricevuto ancora una sua lettera. E Tutu ancora oggi ci sostiene da vicino. Sono stati capaci di farlo e di capirci meglio di chiunque altro perché veniamo dalla stessa storia, da un percorso simile, anche se noi siamo ancora all’inizio della nostra battaglia per la democrazia».

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