Entrato da molti anni in una spirale di violenza, di cui appare difficile prevedere la fine, il Kashmir pare incapace di uscire da una situazione di grave crisi, che rischia di mettere a repentaglio la sicurezza di tutta l’Asia Meridionale
di Emilio Asti
Teatro di uno dei contenziosi più complicati del nostro tempo, intorno al quale ruotano molteplici interessi, il Kashmir continua a pagare le conseguenze di un lungo conflitto, che dura da oltre 60 anni e ha trasformato questa regione, dove una volta le diverse comunità religiose convivevano in pace, in un luogo pieno di violenza e di dolore. Il fatto che di questo conflitto, che può rappresentare la scintilla di una nuova guerra tra India e Pakistan, non si parli molto nulla toglie alla sua gravità. Ogni tanto l’attenzione dei mass media si concentra sul Kashmir, con immagini di scontri violenti e distruzioni, costringendo la comunità internazionale a ricordarsi del lungo dramma di questa regione, che rimane una delle zone più militarizzate del mondo. Spesso silenzio e indifferenza hanno impedito che il grido di dolore degli abitanti del Kashmir trovasse ascolto. Si stima che negli ultimi 20 anni le vittime, tra civili e militari, siano state circa 80 mila, senza contare i feriti e i profughi. Un vero peccato per una regione, che per le sue molteplici bellezze naturali e il ricco patrimonio culturale, potrebbe essere una meravigliosa destinazione turistica.

Il Kashmir, il cui territorio situato tra India, Pakistan, Cina e Afghanistan, riveste un importante valore strategico, rappresenta un elemento fondamentale dell’identità nazionale sia del Pakistan che dell’India, entrambi contrari all’opzione di un Kashmir indipendente. Il Pakistan ritiene che la propria costruzione nazionale, basata sull’identità religiosa islamica, non possa essere completa senza il Kashmir, i cui abitanti professano in grande maggioranza questa religione. L’India invece con il possesso del Kashmir vuol dimostrare il proprio carattere di stato laico e multireligioso.
In un contesto regionale di per sé complesso, divenuto ancor più problematico dopo l’11 Settembre, il coinvolgimento di altri attori nella questione del Kashmir ha contribuito ad aggravarne la vicenda. Le analisi storiche e politiche sovente si limitano a considerare solo alcuni aspetti della disputa, senza addentrarsi a esaminarne le cause remote e le relative responsabilità. La controversia, infatti, trascende la dimensione meramente territoriale e ideologica e coinvolge altri fattori importanti, tra i quali il controllo da parte dell’India delle acque dei fiumi che dal Kashmir scorrono verso il Pakistan, vitali per l’agricoltura di questo paese.
Nella nuova fase delle relazioni internazionali, l’India, ormai divenuta la principale potenza dell’Asia Meridionale, vuol presentarsi come un baluardo contro il fondamentalismo islamico e non intende scendere a compromessi col Pakistan, colpevole, a suo dire, di appoggiare gruppi islamici radicali.
Già alla fine degli anni 80 nella Valle del Kashmir, dove le elezioni svoltesi, contrassegnate da brogli e massicce astensioni, non sono mai state regolari dilagava la protesta contro l’amministrazione indiana, con massicce manifestazioni e scioperi. La repressione indiana fu particolarmente dura contro la popolazione e in diverse occasioni molti manifestanti disarmati vennero brutalmente uccisi dai militari. In un crescendo di violenze venne dichiarato lo stato di emergenza e imposto il coprifuoco. L’India aveva dislocato circa 700 mila uomini, allestendo un campo militare accanto ad ogni villaggio, ed anche alberghi e scuole furono requisiti dai militari. Le forze di sicurezza indiane, considerate alla stregua di una forza di occupazione, operavano nella totale impunità, rendendosi colpevoli di uccisioni indiscriminate, stupri, sequestri e saccheggi. I rapporti redatti da alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani elencano una serie di dati che fanno rabbrividire e rivelano chiaramente le responsabilità del governo indiano.
In questo clima di terrore molti non hanno più avuto notizie dei loro cari, scomparsi senza lasciare traccia; molti giovani, parecchi dei quali criminalizzati solo per la loro appartenenza religiosa e per la giovane età, vennero brutalmente torturati e poi uccisi dai militari indiani. Alcuni ancor oggi recano sui loro corpi i segni delle torture subite. Basta guardare le molte tombe di giovani uccisi dalle forze di sicurezza per rendersi conto delle dimensioni di questa tragedia. Nulla meglio del villaggio di Dardpora, chiamato il paese delle vedove, può illustrare questi tristi eventi. Qui vivono, infatti, circa 300 donne i cui mariti e figli morirono a causa degli attacchi dei militari; molte di loro aspettano tuttora di riavere i resti dei loro cari.
Tra le violazioni dei diritti umani figurano anche la distruzione di villaggi e di raccolti, oltre alla dissacrazione di varie moschee. Anche il famoso tempio di Charar- i- Charif, simbolo della coesistenza fra indù e musulmani e frequentato da entrambi, venne distrutto nel 1995.
La situazione nella Valle del Kashmir costituiva un terreno fertile per lo sviluppo di movimenti radicali islamici, che ricevettero un nuovo slancio dall’esempio vittorioso dei combattenti afgani contro le forze dell’Unione Sovietica. Gli attacchi perpetrati da questi gruppi hanno fornito il pretesto alle forze governative per effettuare crudeli rappresaglie contro la popolazione, sospettata di collaborare con i ribelli. In molte occasioni i militari indiani hanno addossato ai combattenti islamici la responsabilità dei propri crimini.
Anche se apparentemente la Valle del Kashmir pare tranquilla, la guerriglia ha perso la sua virulenza e sono riapparsi i turisti, la realtà è ben diversa. Nonostante l’India cerchi di presentare questa zona come un’area ormai tornata alla normalità, si respira un’aria di forte tensione e dietro un’apparenza di calma si cela una realtà drammatica. Le misure di sicurezza rimangono severe e lungo le strade numerosi sono i posti di blocco con molti veicoli militari che pattugliano le strade e vigilano anche sui movimenti delle persone. Soprusi e vessazioni perpetrati dalle truppe indiane ai danni della popolazione, già duramente provata da molti anni di violenza, rimangono all’ordine del giorno. E’ impossibile calcolare quante persone siano tuttora incarcerate senza processo in condizioni di detenzione drammatiche e nell’impossibilità di provare la loro innocenza. Il conflitto ha portato con sé una lunga sequela di rancori e di vendette, oltre ad una fioritura di traffici illeciti e il timore e la diffidenza regnano ovunque.
In tutta la Valle del Kashmir si respira un’atmosfera di cupa rassegnazione tra fantasmi del passato e timori del futuro e i volti delle persone, marcati da molte sofferenze, dicono più di tante parole. Moltissimi giovani, stanchi di continuare a vivere nella paura aspirano a fuggire per lasciarsi alle spalle una vita segnata dalla paura e dagli stenti.
Il Kashmir è ancora lontano da una situazione di normalità e c’è tuttora il rischio che la disputa possa degenerare, anche se ci sono fondati motivi per ritenere che sia l’India che il Pakistan, entrambi dotati di armi nucleari, non intendano giocare la carta del conflitto aperto, che potrebbe avere conseguenze devastanti per tutti.
Sono stati fatti alcuni passi sulla via della pace, ma i progressi sono stati più apparenti che reali. Diversi progetti che potrebbero recare beneficio a tutta la popolazione del Kashmir sono guardati con diffidenza e restano sulla carta. Dopo lunghi anni di lotta il dialogo procede con lentezza tra rinvii, scambi di accuse per violazioni di frontiera e incidenti.
Nel momento attuale appare urgente avviare un autentico processo di riconciliazione tra le parti in causa, anche se nessuna di loro potrà vedere soddisfatte in pieno le proprie richieste. La comunità internazionale non può più continuare a chiudere gli occhi di fronte alla tragedia del Kashmir, considerando che la sua soluzione rappresenta un traguardo importante per la stabilità di tutta la regione.
In un contesto regionale di per sé complesso, divenuto ancor più problematico dopo l’11 Settembre, il coinvolgimento di altri attori nella questione del Kashmir ha contribuito ad aggravarne la vicenda. Le analisi storiche e politiche sovente si limitano a considerare solo alcuni aspetti della disputa, senza addentrarsi a esaminarne le cause remote e le relative responsabilità. La controversia, infatti, trascende la dimensione meramente territoriale e ideologica e coinvolge altri fattori importanti, tra i quali il controllo da parte dell’India delle acque dei fiumi che dal Kashmir scorrono verso il Pakistan, vitali per l’agricoltura di questo paese.
Nella nuova fase delle relazioni internazionali, l’India, ormai divenuta la principale potenza dell’Asia Meridionale, vuol presentarsi come un baluardo contro il fondamentalismo islamico e non intende scendere a compromessi col Pakistan, colpevole, a suo dire, di appoggiare gruppi islamici radicali.
Già alla fine degli anni 80 nella Valle del Kashmir, dove le elezioni svoltesi, contrassegnate da brogli e massicce astensioni, non sono mai state regolari dilagava la protesta contro l’amministrazione indiana, con massicce manifestazioni e scioperi. La repressione indiana fu particolarmente dura contro la popolazione e in diverse occasioni molti manifestanti disarmati vennero brutalmente uccisi dai militari. In un crescendo di violenze venne dichiarato lo stato di emergenza e imposto il coprifuoco. L’India aveva dislocato circa 700 mila uomini, allestendo un campo militare accanto ad ogni villaggio, ed anche alberghi e scuole furono requisiti dai militari. Le forze di sicurezza indiane, considerate alla stregua di una forza di occupazione, operavano nella totale impunità, rendendosi colpevoli di uccisioni indiscriminate, stupri, sequestri e saccheggi. I rapporti redatti da alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani elencano una serie di dati che fanno rabbrividire e rivelano chiaramente le responsabilità del governo indiano.
In questo clima di terrore molti non hanno più avuto notizie dei loro cari, scomparsi senza lasciare traccia; molti giovani, parecchi dei quali criminalizzati solo per la loro appartenenza religiosa e per la giovane età, vennero brutalmente torturati e poi uccisi dai militari indiani. Alcuni ancor oggi recano sui loro corpi i segni delle torture subite. Basta guardare le molte tombe di giovani uccisi dalle forze di sicurezza per rendersi conto delle dimensioni di questa tragedia. Nulla meglio del villaggio di Dardpora, chiamato il paese delle vedove, può illustrare questi tristi eventi. Qui vivono, infatti, circa 300 donne i cui mariti e figli morirono a causa degli attacchi dei militari; molte di loro aspettano tuttora di riavere i resti dei loro cari.
Tra le violazioni dei diritti umani figurano anche la distruzione di villaggi e di raccolti, oltre alla dissacrazione di varie moschee. Anche il famoso tempio di Charar- i- Charif, simbolo della coesistenza fra indù e musulmani e frequentato da entrambi, venne distrutto nel 1995.
La situazione nella Valle del Kashmir costituiva un terreno fertile per lo sviluppo di movimenti radicali islamici, che ricevettero un nuovo slancio dall’esempio vittorioso dei combattenti afgani contro le forze dell’Unione Sovietica. Gli attacchi perpetrati da questi gruppi hanno fornito il pretesto alle forze governative per effettuare crudeli rappresaglie contro la popolazione, sospettata di collaborare con i ribelli. In molte occasioni i militari indiani hanno addossato ai combattenti islamici la responsabilità dei propri crimini.
Anche se apparentemente la Valle del Kashmir pare tranquilla, la guerriglia ha perso la sua virulenza e sono riapparsi i turisti, la realtà è ben diversa. Nonostante l’India cerchi di presentare questa zona come un’area ormai tornata alla normalità, si respira un’aria di forte tensione e dietro un’apparenza di calma si cela una realtà drammatica. Le misure di sicurezza rimangono severe e lungo le strade numerosi sono i posti di blocco con molti veicoli militari che pattugliano le strade e vigilano anche sui movimenti delle persone. Soprusi e vessazioni perpetrati dalle truppe indiane ai danni della popolazione, già duramente provata da molti anni di violenza, rimangono all’ordine del giorno. E’ impossibile calcolare quante persone siano tuttora incarcerate senza processo in condizioni di detenzione drammatiche e nell’impossibilità di provare la loro innocenza. Il conflitto ha portato con sé una lunga sequela di rancori e di vendette, oltre ad una fioritura di traffici illeciti e il timore e la diffidenza regnano ovunque.
In tutta la Valle del Kashmir si respira un’atmosfera di cupa rassegnazione tra fantasmi del passato e timori del futuro e i volti delle persone, marcati da molte sofferenze, dicono più di tante parole. Moltissimi giovani, stanchi di continuare a vivere nella paura aspirano a fuggire per lasciarsi alle spalle una vita segnata dalla paura e dagli stenti.
Il Kashmir è ancora lontano da una situazione di normalità e c’è tuttora il rischio che la disputa possa degenerare, anche se ci sono fondati motivi per ritenere che sia l’India che il Pakistan, entrambi dotati di armi nucleari, non intendano giocare la carta del conflitto aperto, che potrebbe avere conseguenze devastanti per tutti.
Sono stati fatti alcuni passi sulla via della pace, ma i progressi sono stati più apparenti che reali. Diversi progetti che potrebbero recare beneficio a tutta la popolazione del Kashmir sono guardati con diffidenza e restano sulla carta. Dopo lunghi anni di lotta il dialogo procede con lentezza tra rinvii, scambi di accuse per violazioni di frontiera e incidenti.
Nel momento attuale appare urgente avviare un autentico processo di riconciliazione tra le parti in causa, anche se nessuna di loro potrà vedere soddisfatte in pieno le proprie richieste. La comunità internazionale non può più continuare a chiudere gli occhi di fronte alla tragedia del Kashmir, considerando che la sua soluzione rappresenta un traguardo importante per la stabilità di tutta la regione.
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