1 giugno 2010

“Tutti per uno”

La staffetta è davvero una gara speciale, non è come quando corri i tuoi cento metri, dai tutto te stesso e alla fine, o vinci o perdi.

di Roberta Selan
Cinque rintocchi precisi e severi del grande orologio a pendolo: nonno James prese in mano la sua tazza di tè fumante e cominciò a sorseggiare lentamente, con lo sguardo fisso sulla porta d’ingresso. A quell’ora di tutti i pomeriggi era solito fermarsi in salotto per il classico spuntino e per la solita occhiata ai quotidiani del giorno, ma sapeva che non avrebbe potuto farlo ancora per molto: questione di pochi minuti e i suoi due nipotini sarebbero rincasati da scuola, sarebbero entrati con un gran fracasso da quella porta e una volta di più gli avrebbero chiesto di raccontare o di ascoltare chissà quale avventura. Lui aspettava sempre con ansia quel momento della giornata, quei bambini erano la sua gioia, il suo sorriso, il futuro della sua famiglia: semplicemente li adorava. Eccoli finalmente! Le braccia al collo, un bacio grande e, come sempre, un fiume di parole, di esclamazioni, di “sai che” e di “perché?”. Dopo la solita merenda divorata in trenta secondi, Steven gli si sedette accanto, sul divano. “Nonno, oggi a scuola abbiamo parlato di come sono nate le Olimpiadi, nell’antica Grecia… Io ho raccontato a tutti che tu hai una medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi: sai che non volevano crederci?”. James si fece una risata sotto i baffi, scapigliando amorevolmente il nipote con una mano. “…È passato un sacco di tempo, quarantaquattro anni, per l’esattezza…!”. Davvero era passata una vita da quel lontano trionfo, eppure James ci pensava spesso come ad una delle pagine più belle ed importanti della sua giovinezza, e lo faceva con immenso orgoglio. “Nonno, mi fai vedere la medaglia un’altra volta?”. E già, non era la prima volta che Steven gli faceva tirar fuori dal cassetto quella grande patacca d’oro; anche se era piccolo, era già un grande appassionato di sport, a scuola aveva già più volte messo in mostra la sua spiccata predilezione per la corsa veloce, e quindi nel nonno vedeva una specie di eroe, uno da tenere come esempio vivente dei traguardi che si possono raggiungere, un campione da emulare. James ritirò fuori con grande piacere il cimelio dall’elegante custodia in velluto rosso: ogni volta che toccava quella medaglia provava un’emozione tutta speciale, restava a guardarla in silenzio, con la stessa tenerezza con cui un padre guarda la sua creatura… “Nonno, ti va di raccontarmi come l’hai vinta? Così poi lo dico ai miei compagni di scuola e loro la finiscono di dirmi che non è vero…”. James sospirò, sorrise al nipote e poi, rassegnato, si mise più comodo sul divano e chiuse gli occhi, quasi a voler ricordare meglio.
“Io allora ero veloce, ma non abbastanza per essere un titolare della Nazionale nelle gare internazionali che contavano davvero; ero considerato una riserva, ma a me bastava: sapevo che prima o poi avrei avuto la mia occasione per dimostrare il mio valore in pista. In verità partii per quelle Olimpiadi senza grandi speranze per poter scendere in pista; la mia gara erano i “cento” e i “duecento” piani, ma davanti in lista ne avevo molti, più forti e meritevoli di me. Poi, non si sa bene perché, l’allenatore mi chiese invece se me la sentivo di correre in terza frazione nella staffetta “quattro per cento”; non ero abbastanza allenato nei passaggi di testimone, ma accettai ugualmente: quando mi sarebbe capitata di nuovo un’occasione così? In batteria andò tutto benone, e in semifinale ancora meglio: ci qualificammo per la finalissima con un ottimo tempo, ricevendo i complimenti da parte di tutti. La finale poi fu a dir poco entusiasmante: vincemmo per un soffio, ma fu un trionfo meritato, guadagnato mettendo in campo il meglio di noi stessi e sbaragliando sul filo di lana le migliori squadre del mondo. Quando salimmo sul gradino più alto del podio e ci misero la medaglia d’oro al collo, mi sentii la persona più felice della terra… La bandiera saliva lentamente, l’inno nazionale rimbombava forte fuori dagli altoparlanti dello stadio e io avevo voglia di cantarlo, ma la voce non mi usciva proprio: ero troppo emozionato, era tutto così bello!”. “Ma nonno, non pensi che sarebbe stato più bello vincere l’oro da solo? Così non è tutto tuo, avete corso in quattro…!” osservò Adam, il nipote più grande, che nel frattempo si era avvicinato al fratello, incuriosito da quel racconto. James ci pensò su un attimo, per poi rispondere al ragazzino con grande convinzione. “No, niente affatto. Prima di tutto ognuno di noi ha avuto la sua di medaglia, uguale nel metallo, nella scritta, nel valore, in quello che ha significato per noi e per la nazione che abbiamo rappresentato. Poi, la staffetta è davvero una gara speciale, non è come quando corri i tuoi cento metri, dai tutto te stesso e alla fine, o vinci o perdi; in una staffetta tu corri per te ma anche per i tuoi compagni, se tu vai male precludi anche agli altri la possibilità di una vittoria finale, e viceversa: è un fantastico gioco di squadra in cui tutto deve andare alla perfezione se vuoi ottenere un risultato, ci deve essere una buona partenza del primo, ognuno deve per forza correre al limite delle sue possibilità, ci devono essere dei cambi perfetti, ci vuole anche una buona dose di fortuna per non perdere il testimone per strada o non invadere la corsia avversaria. Abbiamo vinto quell’oro insieme perché ciascuno ha fatto la sua parte, magari se io o un altro non ci fossimo stati e qualcun altro avesse corso al nostro posto, la squadra non avrebbe ottenuto lo stesso prestigioso risultato…”. “Che forte! È come per i moschettieri, tutti per uno e uno per tutti!”, esclamò con genuina ammirazione il piccolo Steven, pendendo una volta di più dalle sue labbra. “È vero!”, rispose nonno James, sorridendo di fronte a tanto sincero entusiasmo. “E come in staffetta si dividono i meriti di una vittoria, così ci si spartisce, quando è il caso, anche le responsabilità delle sconfitte: purtroppo non sempre si può vincere, ma sappi che in certe occasioni, tipo un’Olimpiade, l’importante è davvero poter esserci ed essere convinti di aver dato, qualunque sia il risultato ottenuto, il meglio di sé…”.”Spero anch’io un giorno di poter vincere una medaglia bella come la tua!”. “Perché no, io te lo auguro di cuore! In fondo anche la vita, se ci pensi bene, è una staffetta; io ho potuto fare certe cose perché i miei mi hanno preparato il cammino, poi, quando sono diventato vecchio, ho passato il testimone al vostro papà: un giorno anche lui lo passerà a voi e voi ai vostri figli, l’importante è che ognuno si impegni sempre, al massimo, per fare la sua parte in questo mondo, con entusiasmo, senza riserve, poi i risultati arrivano da soli…”. “Sei forte nonno! Grazie per avermi raccontato di nuovo questa storia…”, concluse Steven, stampandogli un baciotto sulla guancia barbuta per poi scomparire dietro la porta con un pallone in mano. E James pensò, ad occhi lucidi, che per un sorriso come quello ne sarebbe valsa sempre la pena.

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