di Rosetta Conti
Anche se il mondo è incamminato verso una sempre maggiore unita - e l'Europa ne è un chiaro esempio, resta pur sempre il fatto che la nostra è un'epoca caratterizzata anche da un forte individualismo. Ricercarne le origini storiche può servirci, perciò a capire meglio la nostra attitudine odierna e può aiutarci a comprendere come dobbiamo agire per evitare che esso diventi causa della nostra stessa infelicità.
Una delle caratteristiche della nostra epoca e della nostra cultura è l'individualismo. Risultante della sintesi fra eredità spirituale e cultura greca ed ebraica, esso è diventato uno dei connotati fondamentali del nostro tempo, alimentato anche dal nostro sistema economico che pone il profitto personale come motivazione per ogni attività.
Esso trova inoltre sostegno nel nostro sistema politico che incoraggia l'autodeterminazione individuale e la libertà personale.
Tuttavia, come molti hanno notato, il nostro individualismo è quasi sempre fuori misura; è diventato eccessivo. Il "farsi i propri affari" ha preso il posto di un giusto interesse e relazione verso un contesto più grande, sia esso la famiglia i vicini, la nazione o il mondo.
Come conseguenza la famiglia si sfascia, la città è sommersa dai problemi, la nazione e il mondo sono perennemente in crisi. E tragicamente tutto questo si ritorce verso l'individuo stesso.
Da dove nasce questo eccessivo individualismo? E in che modo si può restaurare un giusto equilibrio fra l'individuo e il suo ambiente sociale? Pur nei limiti della nostra conoscenza, possibili risposte a queste domande possono essere trovate nelle sorgenti spirituali della nostra cultura, particolarmente nel modo in cui la prima chiesa cristiana integrò le culture, ebrea e greca, di 2000 anni fa. Consideriamo l'individuo e la società in queste culture originali ed esaminiamo quindi la susseguente sintesi cristiana.
L'approccio ebraico
Nella Israele pre-cristiana, l'individuo esisteva non tanto come tale, quanto come membro della comunità. La ragione è che la vita del religioso ebreo era fondata sulla sua comprensione del lavoro di Dio nella storia e quel lavoro si basava non tanto su di lui individualmente quanto sugli israeliti, come popolo, come nazione. Troviamo questo orientamento riflesso in Esodo 19:6 per esempio, quando lo scopo creativo di Dio è descritto come " un regno di sacerdoti e una nazione santa". Allo stesso modo Deuteronomio 7:6 e 14:2 descrivono gli israeliti come "un popolo consacrato al Signore" .
Queste frasi riflettono ciò che era chiaro nella coscienza ebraica: la "nazione" e il "popolo" nel loro insieme erano il punto focale dell'attività di Dio. Di conseguenza la relazione dell'ebreo con Dio esisteva nell'ambito di questa sua appartenenza a questo più ampio contesto. Come Bernhard Anderson scrive nel suo studio del Vecchio Testamento:
"Il contrasto fra l'individuo e la comunità è completamente estraneo alla fede d'Israele, secondo la quale l'individuo è collegato a Dio come membro di una comunità... E solo come membro della comunità che l'individuo partecipa alle promesse e agli obblighi della fede... L'individuo loda Dio con la comunità adorante".
Tuttavia, nonostante questa identificazione dell'individuo con la comunità, nel pensiero ebraico c'è un chiaro riconoscimento del singolo. Buona parte delle sacre scritture ebraiche sono dedicate a guidare l'individuo verso la felicità e la benedizione divina.
Libri come i Proverbi, l'Ecclesiaste, Giobbe e alcuni Salmi si propongono di dare consigli per guidare saggiamente la vita dell'uomo. Fondamentalmente il loro insegnamento è che Dio benedice coloro che sono giusti.
Nel pensiero ebraico, quindi, l'insieme è primario e l'individuo subordinato ad esso, anche se quest'ultimo ha una relazione con Dio attraverso la sua appartenenza alla comunità e gli viene riconosciuto un proprio sentiero da percorrere. Così fra l'individuo e l'insieme non esiste conflitto inerente e il beneficio di uno concorre al beneficio dell'altro. La rettitudine del singolo determina la rettitudine della nazione e come membro della nazione l'individuo gode delle promesse dell'alleanza.
La situazione in Grecia era più complessa.
L'approccio greco
Da una parte le concezioni greche erano molto simili a quelle degli ebrei, dall'altra i greci pensavano in modo molto diverso. In linea generale, comunque, mentre in Israele l'enfasi era sull'aspetto comunitario, l'enfasi in Grecia fu posta sull'individualismo.
Il primo impulso a ciò, naturalmente, fu la filosofia greca. Dalla dottrina socratica "conosci te stesso" all'insegnamento degli stoici che ciascuna persona contiene una parte del "logos" universale, l'individuo era elevato ad una nuova posizione di dignità e valore.
Oltre a questo c'era una tendenza ad enfatizzare la sua indipendenza e considerarlo come una "completa entità in se stesso".
L'ideale di libertà dai legami con il mondo divenne lo scopo di tutte le scuole di "autarkeai", autosufficienza. Gli epicurei chiamavano questa condizione dell'individuo "tranquillità", gli stoici "integrità", gli scettici "indifferenza". I seguaci di Platone e i mistici la definivano in vari modi ma, principalmente "estasi". Comune a tutte queste correnti di pensiero era l'enfasi posta sul valore dell'individuo in se stesso.
Nonostante questo, i greci erano anche coscienti del valore dell'insieme, dello Stato, tanto che gli stessi Platone e Aristotele dedicarono ad esso la maggior parte dei loro scritti. E, in effetti, la vita dei greci era essenzialmente comunitaria, vissuta nell'ambito delle Città-Stato e inconcepibile se staccata da esse. Tanto è vero che per un autentico greco un uomo non avrebbe mai potuto essere totalmente buono qualora avesse vissuto al di fuori dello Stato, poiché era solo nella società e attraverso di essa che l'individuo poteva condurre una vita di rettitudine.
Anche se questa concezione potrebbe essere accostata a quella degli ebrei, fondamentalmente è molto diversa perché secondo la concezione ebraica la nazione era stata creata da un Dio trascendente ed esisteva solo per servirlo. La nazione d'Israele aveva uno scopo divino da raggiungere e questo si sarebbe realizzato attraverso lo svolgersi della storia. Per questo l'esistenza stessa d'Israele affondava le sue radici in una trascendenza ontologica e storica.
Il Cristianesimo
Nell'ambito delle prime chiese cristiane queste due culture si incontrarono ed entrarono in conflitto fra loro. Per dare una soluzione a questo problema, S. Paolo formulò la dottrina radicale del "Corpo di Cristo", come sintesi creativa più elevata che riconciliava e realizzava entrambi gli ideali ebraici ed ellenici. Ed è essenzialmente questa dottrina che tuttora rimane come risposta del Cristianesimo ai problemi dell'individuo e della comunità.
Paolo era un ebreo e per lui la realtà che predominava era la realtà dell'insieme. Tuttavia nella sua visione l'insieme era più che un semplice agglomerato di persone che Dio aveva riunito per uno scopo storico e trascendente: l'insieme, la Chiesa, era piuttosto il reale corpo di Cristo che continuava ad esistere in modo mistico.
Traendo il suo concetto dall'immagine stoica del corpo dell'umanità e dalle parole pronunciate da Gesù nell'Ultima Cena "Questo è il mio corpo", Paolo afferma che, con il Cristo nella posizione della testa (Col.1:18), tutti sono battezzati in un unico corpo (1 Cor. 12:13) e per questo i cristiani insieme costituiscono il corpo di Cristo e ne sono individualmente membri.
Questa non è assolutamente un'espressione simbolica di Paolo perché, per l'apostolo, la Chiesa è effettivamente il corpo di Cristo il cui spirito vitale penetra nell'individuo proprio perché egli è membro della Chiesa.
Allo stesso tempo, come parte del corpo di Cristo, l'individuo esperimenta la personale presenza e cura di un Dio d'amore.
In Atti 17:27-29, Paolo paragona la sua fede nella vicinanza di Dio a quella degli stoici: "Benché Egli non sia lontano da ciascuno di noi. In Lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: poiché di Lui stirpe noi siamo. . ".
E nella lettera ai Filippesi 2:12-13 afferma l'intimità della presenza di Dio: "Quindi miei cari...attendete alla vostra salvezza con timore e tremore. E Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo i Suoi benevoli disegni".
Qui, l'immanente "Logos" degli stoici viene concepito come la presenza di un amorevole Dio insito nell'uomo.
Paolo, perciò, non solo abbraccia implicitamente il concetto greco, ma basandosi sulla rivelazione cristiana, lo eleva ad un livello più alto ed infinitamente più ricco. Chiaramente per Paolo Dio è presente personalmente in ogni individuo, tuttavia, il veicolo attraverso il quale la presenza di Dio arriva all'uomo è il corpo di Cristo, la Chiesa. Nella lettera ai Colossesi 2:19 egli si riferisce a Cristo come al: "...capo dal quale tutto il corpo riceve... realizzando così la crescita secondo il volere di Dio. . . ".
Quindi è solo attraverso questo insieme più ampio che l'individuo ottiene la completezza della sua personale relazione.
Sia gli ebrei sia i greci avevano quindi parzialmente ragione e le loro concezioni furono sintetizzate e completate nella rivelazione cristiana dell'amore di Dio attraverso il Cristo.
Conclusione
Il primo compito delle chiese cristiane delle origini fu proprio quello di formulare una dottrina che riconciliasse le concezioni dei greci e degli ebrei. Il secondo compito fu quello di metterla in pratica. A distanza di 2000 anni si può constatare l'incredibile successo che ha avuto la prima fase di questo lavoro, ma ci sono parecchi dubbi sul successo della seconda.
Da dove nasce l'eccessivo individualismo? E in che modo si può restaurare un giusto equilibrio fra l'individuo e il suo ambiente sociale? Pur nei limiti della nostra conoscenza, possibili risposte a queste domande possono essere trovate nelle sorgenti spirituali della nostra cultura, particolarmente nel modo in cui la prima chiesa cristiana integrò la cultura ebrea e greca di 2000 anni fa.
Pur se tuttora la chiesa cristiana sta spingendo verso un approccio comunitario a Dio attraverso l'unità in Cristo, e pone enfasi sul valore di una fede vissuta in mezzo agli altri, predomina ancora la tendenza a stabilire un rapporto fortemente individualistico con Dio. Quindi è più che mai necessario trovare una soluzione a quest'eccessivo individualismo che si riflette in ogni manifestazione umana. E indispensabile trovare un equilibrio tra l'esigenza di realizzare una maturità e soddisfazione personali e quella di partecipare e contribuire alla vita sociale nell'ambito della comunità familiare, nazionale, mondiale.
Ancora una volta l'incentivo per quest'equilibrio non va ricercato in strutture esteriori, politiche o economiche che siano, bensì nella consapevolezza cui ogni individuo dovrebbe arrivare, che prodigarsi per il bene della comunità non significa per niente sacrificare il raggiungimento della propria felicità personale.
Realizzare lo scopo dell'individuo comporta l'affermazione e la valorizzazione della propria personalità, mentre la realizzazione dello scopo dell'insieme comporta il servizio e l'aiuto verso un gruppo più grande come la propria famiglia, la società o la nazione. I due scopi tuttavia non sono indipendenti, ma strettamente connessi fra loro e per nostra stessa natura noi, come individui, troviamo la felicità più grande quando contribuiamo al benessere della società con l'apporto delle nostre qualità e capacità individuali.
Per quanto una persona possa illudersi di arrivare alla realizzazione dei propri desideri interiori ed esteriori appartandosi dal contesto sociale, ben presto si renderà conto che, in effetti, non può soddisfare tutte le sue esigenze da sola, ma ha bisogno della complementarietà degli altri, tanto quanto gli altri hanno bisogno di lei. Il prendere coscienza di questa basilare verità è il primo passo verso la soluzione del problema dell'individualismo. Il secondo è il cambiamento d'atteggiamento dell'individuo stesso che comincia ad agire non guardando solo al proprio interesse personale, ma ponendo se stesso al servizio di un più gran benessere pubblico.
Nessun commento:
Posta un commento