1 giugno 2010

La società della finzione

Una società si alimenta, non tanto dalle azioni in sé, quanto dalle motivazioni che le producono, degli intenti nobili o ignobili. Per questo la nostra cultura rischia di morire.

di Giuseppe Calì
Uno degli argomenti sicuramente più dibattuto e non solo ultimamente, è quello dei diritti umani. È comunque una riflessione che come “Universal Peace Federation” affrontiamo in profondità ed attenzione. Una società giusta deve tenere conto delle istanze di chiunque e fornire risposte equilibrate, per il bene individuale e complessivo.
Confesso che, pur essendo cosciente del valore delle discussioni in atto un po’ dovunque, mi trovo a disagio. Indagando sulle cause di questa mia perplessità, scopro che in effetti ciò che mi blocca è la consapevolezza della mancanza dei presupposti giusti all’affermazione dei diritti, come comunemente intesi. Vale a dire, che tanto se ne parla, quanto non se ne riesce a venirne a capo.
Presupposto per il diritto, è la responsabilità e presupposto per la responsabilità è la verità. Senza conoscenza non può esserci consapevolezza e quindi libertà e responsabilità.
Come parlare quindi di diritti umani? Fintanto che non chiariamo cosa intendiamo per “diritti” e quale concezione abbiamo dell’ “uomo”, è molto difficile persino identificare chiaramente le tante violazioni che avvengono spesso sotto i nostri stessi occhi e nelle nostre stesse società libere. È molto facile parlare di violazioni in Cina, a Cuba, in Corea del Nord o in altri paesi dittatoriali, dove gli avvenimenti assumono dimensioni macroscopiche, ma non è altrettanto facile identificare il grado di libertà delle nostre società cosiddette “libere”. E vado subito al dunque.
La nostra società si è trasformata in un grande “reality show”, anche se in questa definizione molto diffusa si mettono insieme due termini palesemente in contraddizione tra di loro: una cosa, o è “reality” o è “show”. Così, per schivare il paradosso l’abbiamo definita: “società mediatica”, cercando di dare dignità culturale ad un fenomeno che invece ci priva di dignità, mettendo in piazza quasi inesorabilmente, spettacolarizzandoli, gli aspetti peggiori dell’animo umano.
Il Papa, nel discorso di conclusione al convegno per i giornalisti cattolici, il 7 ottobre 2010, dice testualmente: “Oggi, ad esempio, nella comunicazione ha un peso sempre maggiore il mondo dell'immagine con lo sviluppo di sempre nuove tecnologie; ma se da una parte tutto ciò comporta indubbi aspetti positivi, dall'altra l'immagine può anche diventare indipendente dal reale, può dare vita ad un mondo virtuale, con varie conseguenze, la prima delle quali è il rischio dell'indifferenza nei confronti del vero. Infatti, le nuove tecnologie, assieme ai progressi che portano, possono rendere interscambiabili il vero e il falso, possono indurre a confondere il reale con il virtuale. Inoltre, la ripresa di un evento, lieto o triste, può essere consumata come spettacolo e non come occasione di riflessione. La ricerca delle vie per un'autentica promozione dell'uomo passa allora in secondo piano, perché l'evento viene presentato principalmente per suscitare emozioni. Questi aspetti suonano come campanello d'allarme: invitano a considerare il pericolo che il virtuale allontani dalla realtà e non stimoli alla ricerca del vero, della verità”.
Non c’è un’area nella quale non siamo costretti a sorbirci dosi industriali di insincerità. Colpisce al cuore la finzione perpetrata quotidianamente, da autentici mostri, che fingono dolore, per crimini commessi da loro stessi. Il caso recente dello zio di Sara Scazzi, non fa altro che ripetere lo stesso cerimoniale di tanti altri eventi che hanno coinvolto persino ragazzi giovanissimi autori di cose atroci ed impensabili, salvo poi presentarsi al pubblico, anzi agli spettatori, con le vesti candide delle colombe. Con quale disinvoltura fingono commozione, sgomento, mentre uccidono e violentano persino i propri cari?!
Nello sport, calciatori che si tuffano per ingannare arbitro, pubblico ed avversari, i quali poi fingono di indignarsi visto che prima o poi faranno esattamente la stessa cosa quando l’occasione si presenterà. Giornalisti che fingono di dire la verità mirando soltanto, nel migliore dei casi a vendere sensazioni a caro prezzo, mentre somministrano veleno. Magistrati che fingono di amministrare giustizia, mentre si incaricano in realtà di servire l'una o l’altra fazione. Politici che fingono di combattere per la giusta causa, mentre nascondono le battaglie di potere che motivano il loro impegno. Professori che fingono di insegnare e studenti che fingono di imparare. Poveri che si fingono ricchi e ricchi che si fingono poveri. Religioni che fingono di dialogare, mentre preparano i tamburi di guerra. Il mondo dei lupi travestiti da agnelli e degli agnelli travestiti da lupi.
Vuol dire che non esistono atleti, politici, magistrati, religiosi, giornalisti e comunque cittadini, onesti? Assolutamente no, ma la loro presenza si perde nel marasma mediatico, che tutto ingloba, tutto copre e tutto trasforma. È il Grande Show, che sarebbe anche attraente ed intrattenente, se non fosse che ci priva di un diritto fondamentale: il diritto alla libertà di coscienza che può esistere soltanto in presenza di verità.
Come abbiamo fatto ad imparare a recitare così bene? Quando si finge ci si nasconde: si nascondono le proprie paure, insicurezze, sconfitte e frustrazioni. Una volta era fuga da sé stessi, ora è qualcosa di più: è violenza, secondo un'assurda e controproducente logica di sopravvivenza che ottiene esattamente l’effetto contrario. Mentre fingiamo moriamo dentro, una parte di noi si spegne. Non possiamo fingere a noi stessi, alla nostra coscienza, che infine si rifiuta di partecipare e crea i suoi anticorpi. Nasce una depressione sottile, strisciante, camuffata, da divertimento senza gioia, da conoscenza senza cultura, da trionfalismo senza vittoria, da amore senza sentimento e sentimento senza amore. Assistiamo impotenti al crollo della bellezza umana, delle sue vere capacità creative: campioni che improvvisamente diventano nullità, saggi che si trasformano in falsi profeti, artisti geniali che si riducono a giullari di qualche corte politica. Ogni volta che uno sportivo usa un inganno per vincere, la passione sportiva muore, esattamente come accade per l’amore tra amanti che si tradiscono, così come muoiono pian piano, ma inesorabilmente, la dignità della persona e l’autostima, fonte della forza di carattere e della vera affermazione del sé. Ogni volta che un politico usa l’arte della retorica e si appella “al popolo”, per convincerlo di cose che lui stesso non crede, solo per colpire l’avversario, è la Politica stessa a morire. Una società si alimenta, non tanto dalle azioni in sé, quanto dalle motivazioni che le producono, degli intenti nobili o ignobili. Per questo la nostra cultura rischia di morire.
In questo gioco perverso nessuno si salva: né noi né il nostro prossimo, ne le vittime, né i carnefici della verità, in una sorta di globalizzazione della finzione. Dall’est all’ovest, dal Cristianesimo all’Islam, dai paesi sviluppati a quelli poveri, ognuno secondo le proprie modalità e le proprie ritualità sociali, in una sorta di massacro globale delle coscienze. Nessuno è immune e tutto e tutti sono sacrificabili in nome del relativismo: “The show must go on”. Guai a chi non si sottomette alla logica del grande “set”. Chi cerca semplicemente di essere sincero viene preso per “non credibile”, per “estremo” ed in effetti lo è perché confinato ai margini dell’impegno pubblico, fuori dallo show business.
È la scena di un dramma esistenziale dal quale è difficilissimo uscire e nello stesso tempo non si ha speranza di esserne veramente protagonisti, condannati a recitare comunque tutti da comparse, perché la protagonista vera è la finzione stessa. Ad un individuo sono lasciate poche scelte: isolarsi dalla vita pubblica e vivere per sé stessi, o entrare nell’arena a rischio costante “di eliminazione”, come appunto nei “reality show”. Pochi sono rimasti gli ambiti, gli spazi di tregua temporanea, nei quali cercare di recuperare almeno un po’ di credibilità verso sé stessi.
Cosa ci rimane, se non vogliamo rassegnarci? Una grande sete di sincerità. Ma non di quella sincerità finta che camuffa l’odio, il risentimento e le proprie frustrazioni e gelosie, il “ti dico quello che penso”, quando invece ti dico tutto quello che ti può fare più male. Io ho sempre pensato che ciò che diciamo, prima di tutto, identifica noi stessi, più che la realtà altrui. “Non è ciò che entra dalla bocca che contamina l’uomo, ma ciò che ne esce… le cose che escono dalla bocca procedono dal cuore; sono esse che contaminano l'uomo. Poiché dal cuore provengono pensieri malvagi, omicidi, adulteri, fornicazione, furti, false testimonianze, maldicenze”, disse il più grande uomo di verità.
La sincerità vera è quella che si nutre di verità a qualsiasi costo, anche contro se stessi. Quella che crea spazi di libertà piuttosto che chiudere in catacombe di artificialità. Quella che esiste per il bene supremo, il bene comune di Dio e degli uomini. Quella che serve il prossimo con umiltà e restituisce dignità ed onore all’uomo ed alla donna, ai genitori ed ai figli, a chi governa ed è governato, a chi amministra e a chi è amministrato, nel tentativo di arrivare a comprendere che abbiamo bisogno gli uni degli altri, ma per come siamo veramente. Quella infine che riunisce persone vere a persone vere, portandole a mettere le proprie differenze al servizio della comunità. Abbiamo bisogno di sublimare la nostra essenza piuttosto che annegarla nel mare dell’inconsistenza. È da questo anelito che può nascere un nuovo modo di vivere ed una nuova società.
In conclusione, voglio proporre l’affermazione di un diritto umano alternativo, antico e nuovo nello stesso tempo: il diritto alla sincerità, ad essere se stessi ed all’evoluzione vera, che consiste nell’emancipazione dalla menzogna e dalla finzione. Forse, in questo modo, anche gli altri diritti dell’uomo potranno trovare quel terreno fertile che fino ad ora ha scarseggiato, incluso il diritto alla felicità.

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