Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne
In Nepal, dopo la conclusione del decennale conflitto interno nel 2006, la South Asia Peace Initiative (SAPI) della UPF ha creato uno spazio in cui leader civici, educatori e rappresentanti dei giovani potessero ricostruire la fiducia. La vita comunitaria restava fragile, segnata da tensioni economiche e risentimenti irrisolti, ma la UPF ha sostenuto gruppi di donne che hanno iniziato a facilitare conversazioni semplici e strutturate per impedire l’escalation dei conflitti. Hanno invitato giovani, funzionari municipali e anziani dei villaggi a sedersi insieme e affrontare questioni come la pressione verso i matrimoni precoci, le molestie negli spazi pubblici e l’instabilità all’interno delle famiglie in via di recupero dopo il conflitto. Questi incontri offrivano un luogo affidabile in cui esprimere preoccupazioni prima che si trasformassero in danni. A migliaia di chilometri di distanza, in Kenya, dopo la crisi post-elettorale del 2007–2008, donne mediatrici Ambassadors for Peace della UPF nella Rift Valley svolsero un lavoro simile. Si spostarono tra famiglie che vivevano in condizioni di sfollamento temporaneo, ascoltando, documentando minacce e fornendo canali sicuri per segnalare abusi. La loro presenza rassicurava chi aveva perso casa e sicurezza che qualcuno si preoccupava ancora della loro incolumità.
Una storia di altro tipo si è svolta a Città del Capo, nel novembre 2018, quando l’Africa Summit ha riunito leader politici, organizzatori civici e rappresentanti religiosi. Diverse sessioni si sono concentrate sulle condizioni strutturali che espongono le donne alla violenza: scarsa efficacia del controllo del territorio, isolamento dei distretti rurali, dipendenza economica e limitata protezione legale. Delegati di Sudafrica, Mozambico, Costa d’Avorio e Ghanahanno analizzato casi studio su programmi di polizia di prossimità e progetti di cooperazione interreligiosa che offrivano modalità pratiche per ridurre la vulnerabilità. Le discussioni sono rimaste ancorate all’esperienza quotidiana. Si è parlato di donne costrette a percorrere lunghe distanze per approvvigionarsi d’acqua e soggette a molestie, di nuclei familiari intrappolati in cicli di difficoltà economica e delle lunghe ombre proiettate dai conflitti. Le riflessioni del summit hanno poi circolato in altri forum UPF in Africa, contribuendo negli anni successivi al dialogo sulle politiche.
All’opposto del globo, a Buenos Aires, il progetto Peace Road portava un messaggio tutto suo. Quando la marcia del 2019 è arrivata al Planetario Galileo Galilei, i partecipanti—tra cui parlamentari, gruppi giovanili, associazioni per i diritti delle persone con disabilità e rappresentanti interreligiosi—si sono uniti in un gesto simbolico di unità. I loro striscioni invocavano dignità, i loro interventi respingevano la discriminazione, e la loro solidarietà pubblica incoraggiava le vittime di abusi a superare lo stigma che spesso le mantiene in silenzio. Queste marce non erano progettate come campagne specifiche di genere, e tuttavia offrivano uno spazio pubblico sicuro in cui la società poteva parlare apertamente della violenza che colpisce le donne e riaffermare una responsabilità collettiva.
I rapporti d’archivio rivelano ulteriori storie dal Sud-Asia, dove Nepal, India e Sri Lanka hanno ospitato, dal 2010 al 2018, dialoghi su come i conflitti lascino le donne sfollate, prive di diritti legali ed esposte alla violenza domestica. Funzionari, parlamentari e leader comunitari hanno partecipato a questi incontri, riconoscendo che senza istituzioni stabili e tutele giuridiche chiare, le donne restano vulnerabili molto tempo dopo la fine dei combattimenti. Più a ovest, in Sierra Leone, Liberia e Ghana, programmi di resilienza comunitaria hanno esplorato il nesso tra povertà, tratta e traumi postbellici. Capi tradizionali, associazioni femminili e organizzatori giovanili si sono incontrati per affrontare le cause strutturali che pongono le donne a rischio. Nel frattempo, in regioni del Sud-Est asiatico e dell’Africa orientale, tavole rotonde interreligiose hanno offerto un’altra prospettiva. I leader religiosi hanno discusso di come norme culturali ereditate possano essere reinterpretate per affermare la sicurezza, la dignità e lo status sociale delle donne.
Due esempi particolarmente vividi si distinguono. Il primo è Waris Dirie, laureata del Sunhak Peace Prize istituito dalla Dr.ssa Hak Ja Han, cofondatrice della UPF e destinataria di più riconoscimenti internazionali per i diritti umani, che ha servito come Inviata Speciale dell’ONU (1997–2003) ed è divenuta una delle voci più influenti al mondo contro le mutilazioni genitali femminili. La sua testimonianza personale, offerta con chiarezza e determinazione, ha contribuito a trasformare la comprensione globale della pratica e a costringere le istituzioni ad affrontare realtà a lungo ignorate. Ha viaggiato ampiamente, ha parlato senza timore e ha costruito coalizioni che hanno cambiato leggi nazionali e norme comunitarie. Il suo lavoro ha dimostrato come l’autorità morale di un singolo individuo possa rimodellare interi ambiti di policy.
Il secondo esempio è l’educatrice afghana Dr. Sakena Yacoobi, anch’essa laureata del Sunhak Peace Prize. Ha fondato ed esteso scuole per ragazze in momenti in cui un simile impegno comportava enormi rischi personali. Insistendo perché le ragazze ricevessero istruzione anche negli ambienti più restrittivi, ha ridotto la vulnerabilità allo sfruttamento e ha rafforzato il tessuto sociale delle comunità. La sua determinazione ha creato spazi sicuri per apprendimento, dignità e speranza, e la sua influenza si è estesa ben oltre le aule che ha costruito.
Nel loro insieme, queste storie compongono un’unica narrazione. La violenza contro le donne non è solo un fallimento giuridico o un problema culturale; è una minaccia alla stabilità delle comunità e all’integrità morale delle società. In tutti i continenti e nel corso degli anni, leader, peacebuilder, educatrici e attiviste hanno fatto un passo avanti—con modalità e temperamenti diversi—per orientare le loro comunità verso la sicurezza e la dignità. Il loro lavoro mostra che il cambiamento significativo spesso inizia con passi modesti, compiuti con costanza, sostenuti dalla fiducia tra vicini e da una comprensione condivisa: ogni donna merita una vita libera dalla paura.
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