29 marzo 2022

EXITTRAGEDY. Pensare che volevamo la pace in Afghanistan

“Dedichiamo questo libro all’Afghanistan la cui sabbia numerose volte abbiamo calpestato e respirato, a coloro che hanno sacrificato la propria vita, alla collega Maria Grazia Cutuli uccisa in un agguato il 19 Novembre 2001”

di Maria Clara Mussa e Daniel Papagni

 Edito da LoGisma

Con questa dedica incomincia il nostro libro: una raccolta di aneddoti e testimonianze vissute, con il mio collega fotoreporter Daniel Papagni, nel corso dei venti anni in cui si è svolta la missione di pace in Afghanistan, durante la quale si sono succedute fasi differenti nella gestione dei rapporti istituzionali con il Paese, con il progetto finale di una Exit strategy, allorché fosse stato raggiunto l’obiettivo: la pace. Il libro nasce proprio dall’esigenza di rendere giustizia ad un popolo che da decine e decine di anni cerca di sopravvivere in una continua lotta contro poteri perversi. Abbiamo compiuto numerose missioni giornalistiche, sia embedded con i contingenti internazionali, sia unembedded, frequentando la popolazione afghana, condividendone le abitudini e partecipando alle loro vicissitudini, in modo particolare con le donne afghane. Rientravamo dalle nostre missioni giornalistiche con argomenti e foto da pubblicare sul nostro webmagazine Cybernaua, ma, soprattutto, rientravamo consapevoli di avere caricato sulle nostre spalle la responsabilità di raccontare la realtà, la tragedia, la voglia di vivere e lavorare di quel popolo indomito. Dopo l’abbandono da parte della Nato, avvenuto in modo repentino nell’agosto 2021, tale responsabilità si è fatta sentire ancora più forte.

Dovevamo rendere onore al popolo afghano e, nello stesso tempo, ai cinquantatré caduti italiani che nel corso della lunga missione hanno sacrificato la propria vita. Dovevamo, con questo libro, abbracciare le loro famiglie, per non farle sentire ancora più sole. Trascorrendo lunghi periodi insieme ai contingenti impegnati nella missione abbiamo fatto grandi esperienze e tratto importanti insegnamenti. Adottare il sistema di vita dei soldati in attività operative in Paesi cosiddetti a rischio significa seguire regole precise per garantire la sicurezza sia propria, sia nei confronti dei soldati. 

Abbiamo condiviso esperienze con i paracadutisti della brigata Folgore nelle trincee avanzate, come la fob Sterzing, nella valle del Mushai; abbiamo vissuto in tenda con gli alpini a Shindand, una base avanzata molto operativa; trascorso periodi anche difficili con temperature gelide, sia a Bala Murghab, la fob maledetta, sia a Bala Baluk. Abbiamo sorvolato gli altipiani afghani con ogni tipo di elicottero, italiani e americani, chiedendoci, nel superare punti altamente pericolosi per la presenza degli insorgenti, come fosse possibile che un tale scenario, travolgente per la sua bellezza, fosse attraversato dai razzi e dai colpi di Rpg ogni giorno. Nei numerosi reportage, abbiamo raccontato la vita con i nostri soldati, appartenenti ad ogni forza armata, piloti dell’Aeronautica, carabinieri, Forze speciali di Marina Militare ed Esercito quali il Reos, Reggimento elicotteri operazioni speciali; abbiamo condiviso il cibo nelle loro mense e i ricoveri improvvisati nei bunker, durante i “rocket attack” (attacchi alle basi con razzi). Ricordiamo perlustrazioni sotto le notti stellate afghane indimenticabili, immersi nel fango delle giornate invernali o soffocati dalla sabbia fine come borotalco nei periodi estivi, con 50 gradi.

Abbiamo ascoltato i loro sogni, i loro racconti di mondi lontani, di figli e mogli con cui comunicavano tramite web. Troppi di loro abbiamo accolto quando son giunti all’aeroporto di Ciampino, in bare avvolte nel tricolore, assistendo con il cuore gonfio di angoscia al dolore inenarrabile delle madri. Abbiamo anche narrato delle esperienze compiute con le forze armate afghane, addestrate dai nostri militari. Ricordo ancora l’emozione provata allorché il braccio destro di Ahmad Shah Massoud, il “Leone del Panjishir, il maggiore Asghur, dopo avermi rilasciato l’intervista, con fierezza e orgoglio mi fece dono del “pakol”, il berretto che Massoud usava portare e che rappresenta l’emblema della volontà dei mujahiddin di risorgere e dare stabilità al Paese. Nel momento in cui, con grande rispetto e grande orgoglio da parte mia, mi donò il pakol, stringendomi anche la mano, il mio pensiero andò a colui che aveva sacrificato la vita per il proprio Paese, un Paese in cui ancora stavano creando terrore e disordini gli “insorgenti”, come vengono definiti i taliban, quelli che mai avrebbero considerato una donna degna di rispetto da parte di un uomo islamico; se poi avessero addirittura visto come una signora veniva “onorata” con un simbolo afghano, stringendo persino la mano ad un uomo, sicuramente avrebbero lanciato non solo anatemi. Ed ancora emozione al ricordo degli incontri con Maria Bashir, allora procuratrice del tribunale di Herat e strenua attivista in difesa delle donne, con la quale abbiamo avuto interessanti colloqui relativi ai diritti delle donne afghane che, attualmente, a causa delle restrizioni ulteriori dei taliban, continuano a subire tragedie inenarrabili. Maria Bashir, che viveva sotto scorta, ora è cittadina italiana, lontana da coloro che la minacciavano. Numerosi anche gli incontri con alcune colleghe afghane e con signore impegnate in attività imprenditoriali, non certo facili da svolgere in quella terra martoriata; incontri in cui si confidavano con noi sulle difficoltà che ogni giorno dovevano affrontare a causa delle limitazioni riservate alle donne anche da parte della stessa famiglia, legata alle tradizioni culturali mai sopite. Nei venti anni di missione Nato, conclusa in modo molto discutibile, una parvenza di conquiste nel settore dei loro diritti si era raggiunta: potevano circolare senza dover subire l’accompagnamento di un uomo di famiglia; potevano cessare di indossare il burqa sostituendolo con il chador; potevano frequentare scuole ed università e svolgere attività remunerate. Ne avevamo incontrate molte, felici di poter narrare la “scalata” ai propri diritti “conquistati”. Ora, da molte di loro, riceviamo email con richiesta di aiuto, terrorizzate dalla situazione che si è instaurata nel Paese. Siamo riusciti a farne uscire alcune da Kabul e da Herat, insieme a collaboratori di ditte italiane ed interpreti che hanno lavorato al fianco dei militari. Si parla di collaboratori e non solo di interpreti, perché numerosi sono stati i cittadini afghani che hanno lavorato con ditte italiane impegnate nella ristrutturazione dell’Afghanistan. Una per tutte, ricordiamo la R.I. Group, fornitrice di servizi logistici e costruttrice delle basi in cui operavano i militari italiani, strenua sostenitrice dell’importanza dell’inclusione di operai locali nelle attività di costruzione svolte nel Paese, aiutando così le famiglie afghane nel processo di crescita verso una pace sognata da lungo tempo. Pace che attualmente appare ancora più lontana dopo la presa di potere dei talebani, come sottolineiamo nel nostro libro, Exit tragedy: una tragedia annunciata.

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