“Più grande è il nostro potere materiale,
più grande è il nostro bisogno di ispirazione spirituale e di valori”
Arnold Toynbee
di Giuseppe Calì
“Lo stile di vita europeo è sinonimo di “libertà, uguaglianza, democrazia e rispetto della dignità umana”, accesso ai servizi, “protezione delle persone più vulnerabili”. E si è affermato a caro prezzo e a fronte di grandi sacrifici. Ecco perché non dovrebbe mai essere dato per scontato, perché non è né immutabile né garantito per sempre. Viene messo in discussione ogni giorno da antieuropeisti all’interno e all’esterno dell’Europa, per non dire del fatto che abbiamo visto potenze straniere interferire nelle nostre elezioni dall’esterno”.
Così la nuova presidente eletta della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, in una lettera a Repubblica e agli altri quotidiani della Leading european newspapaer alliance spiega perché ha deciso di battezzare il portafoglio cui fanno capo le politiche migratorie “protezione dello stile di vita europeo”.
Iniziamo parlando dell’origine di democrazia e libertà, che possiamo fare risalire alla Grecia classica da cui nascono le idee fondanti della politica. L’antica Atene fu la scuola della Grecia e dell’intera civiltà che da essa derivò. La “Polis” o città stato, tra il VI e IV secolo a.C., fu l’unità della vita sociale e rimarrà un punto di riferimento e direi un orizzonte intellettuale fino ad oggi. Gran parte degli ideali politici moderni, quali giustizia, libertà, costituzione e governo, hanno origine dalle riflessioni dei suoi filosofi.
La nascita della polis coincise anche con la nascita della legge scritta come norma razionale sottoposta a discussione e comune a tutti ma, nello stesso tempo, superiore a tutti. Ciò significava che tutti erano in modo uguale legislatori e che tutti potevano far parte dei tribunali, così come dell’Assemblea. Insomma il cittadino era colui che di volta in volta comanda ed è comandato. La cittadinanza per un Greco era qualcosa di cui si faceva parte, come si fa parte di una famiglia.
Tutti gli interessi dell’Ateniese gravitavano intorno ad essa: arte, religione, riti e cerimonie, mezzi di sostentamento dipendevano dalla polis, la cui costituzione non era dunque una struttura legale, come per lo Stato moderno, ma un «sistema di vita», secondo l’espressione di Aristotele: la città era una vita in comune.
L’individualismo, il guardare ai soli interessi privati era considerato nell’Atene dell’età di Pericle un disvalore, e ciò andava di pari passo con l’ideale secondo cui nessuno doveva essere escluso dagli affari della città per differenze di rango o di censo. La sola discriminazione era il merito, per cui ognuno veniva scelto per la posizione che gli competeva rispetto alle sue doti naturali.
Purtroppo, con la guerra del Peloponneso, l’esperienza dell’Atene democratica ha fine e la storia prende mille altre pieghe nei secoli a seguire, molto lontane da quel miracolo politico.
Facendo un bel salto, passiamo all’era cristiana, con il confronto tra “Città di Dio” e “Città dell’uomo”. Il messaggio cristiano è in tutto e per tutto un messaggio di redenzione, il cui significato si colloca a prima vista in uno spazio diverso da quello della politica. Tuttavia, l’intreccio tra cristianesimo e politica è fondamentale per la storia dell’Occidente, a causa naturalmente della portata decisamente rivoluzionaria del cristianesimo, che si concretizza nel tema dell’uguaglianza di tutti gli uomini, che si fonda sul tema del valore infinito di ogni singolo individuo in quanto creato da Dio.
“Non c’è né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, perché voi non fate tutti che un solo corpo in Gesù Cristo” San Paolo nell’Epistola ai Galati
Il cristianesimo dunque rovescia i valori che avevano dominato la classicità: al posto della forza, della potenza, della ricchezza, predica la carità, la fratellanza, la povertà. Difende i poveri, gli umili, i servi, perfino i peccatori, in cui riconosce il valore assoluto dell’uomo, e in cui invece il pensiero classico aveva visto l’impossibilità di realizzare la virtù e la riuscita umana.
Si racconta nel Vangelo che i Farisei, volendo tendere un tranello a Gesù per comprometterlo con l’autorità romana, gli inviarono due loro discepoli per chiedergli se era permesso o no pagare l’imposta a Cesare:
…ma Gesù, conoscendo la loro malizia, ripose: «Ipocriti, perché mi tentate? Fatemi vedere la moneta del tributo». Gli presentarono allora un denaro. E disse loro: «di chi è l’effigie e di chi è il nome?». «Di Cesare» risposero. Allora disse: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio».
Queste parole hanno segnato la fine dell’autocrazia spirituale dello stato, hanno fondato la distinzione tra spirituale e temporale e posto le basi per quello che molto tempo dopo sarà il liberalismo. A partire da questo punto, il cristiano è tenuto ad una doppia lealtà, assume due serie di doveri, di diverso valore, nei confronti di due autorità indipendenti, e che rimandano alla dualità dell’essere umano, diviso tra la sua natura corporea e materiale e la sua natura spirituale. E se le due serie di doveri sono in conflitto bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini, come risponde Pietro al sommo sacerdote (Atti degli Apostoli, 5).
Agostino, vescovo di Ippona (354-430 d.C.) parte dal tema patristico dell’esistenza di uno stato di natura di purezza e uguaglianza tra gli uomini. Agostino ribadisce comunque con fermezza il «date a Cesare quel che è di Cesare», e quindi il dovere di pagare le imposte e di rendere al potere temporale gli onori che gli spettano: ogni potere deve essere onorato «anche da coloro che sono migliori di lui». Così facendo, il cristiano in realtà ubbidisce, più che agli uomini, a Dio, che così ha ordinato che egli faccia.
Il XIII secolo fu contrassegnato da un grande evento intellettuale: la riscoperta di Aristotele. Questo fatto ebbe un’enorme importanza per lo sviluppo intellettuale dell’occidente europeo. Aristotele fu ben presto accolto nella filosofia cattolica romana fino a diventare, nell’arco di un secolo, la pietra angolare di un sistema nuovo e duraturo della filosofia cristiana stessa. Questo fondamentale rinnovamento del pensiero cristiano, fu compiuto dai maestri degli ordini mendicanti e in particolare da due domenicani: Alberto Magno e il suo discepolo Tommaso d’Aquino. Aristotele, portava al Medioevo una visione nuova della vita intellettuale greca; vi portava l’idea che la chiave per la conoscenza del mondo naturale è data dalla ragione. Ciò portò ad un immenso sforzo intellettuale per conciliare Aristotele con il sistema della fede cristiana e per costruire un sistema di conoscenza naturale e teologica universale. Fu dunque proprio Tommaso, sulle orme del suo maestro Alberto Magno, a dedicarsi all’impresa di cristianizzare Aristotele. Egli intendeva infatti “servirsi” dell’aristotelismo come di un valido sostegno filosofico per una fede profonda, insomma di operare una sintesi di fede e ragione. Così facendo, egli aprì la strada ad un nuovo modo di pensare la politica, e costruì quell’imponente edificio teorico che è il tomismo, in cui appunto la ragione pagana si sposa con la teologia della Rivelazione, dando luogo ad una filosofia politica veramente originale.
La filosofia di Tommaso volle essere una sintesi universale, un sistema onnicomprensivo, ordinato e coerente di tutto il conoscibile. Tommaso distingue tre tipi di leggi: La legge eterna, promulgata da Dio, la legge naturale, attraverso cui l’uomo partecipa alla ragione di Dio, ed è finalizzata al bene comune ed infine la legge umana, che diventa la necessaria applicazione della legge naturale, a causa dell’egoismo umano.
E arriviamo infine allo Stato moderno, il cui concetto descrive la forma di ordinamento politico e di gestione del potere che ha origine in Europa a partire dal XII-XIII secolo. Si caratterizza per il monopolio del politico, per cui si può anche parlare di un’identità tra lo Stato e il politico. Questo monopolio viene esercitato attraverso procedure e mezzi razionali: il diritto, che stabilisce norme astratte, generali e impersonali per evitare ogni forma di arbitrio; un’amministrazione burocratica, basata sulla gerarchia e la professionalità. Tutto ciò garantisce la legalità ovvero l’obiettività, la prevedibilità del processo politico-amministrativo.
In quanto unico soggetto politico collettivo dotato di piena sovranità, lo Stato moderno è caratterizzato di conseguenza da tre elementi tra loro integrati: il monopolio del potere legittimo (sovranità), un territorio e una popolazione.
In questo scenario una serie di fattori quali l’indebolimento progressivo di impero e papato, le guerre di religione del XVI e XVII secolo, la necessità di aumentare la pressione fiscale, produsse delle trasformazioni lente ma inesorabili che portarono verso lo Stato assoluto, forma dello Stato moderno in senso proprio, la cui funzione diventò specificamente e prettamente “politica”. Ciò significò anche un’essenziale e definitiva rinuncia a fondare il potere su un qualche credo religioso. Lo sviluppo dello Stato assoluto si completò con la costruzione di un esercito permanente e stanziale, finanziato e organizzato dal sovrano, e la conseguente crescita degli apparati fiscale, burocratico e giudiziario.
La guerra fu strumento fondamentale ed inevitabile per la costruzione dello Stato, ma non lo fu soltanto in un'ottica interstatale: la guerra, la presenza di eserciti permanenti a tutela dell’ordine pubblico, permise infatti allo Stato il monopolio della violenza anche in tempo di pace nei confronti della popolazione interna. Le guerre di religione che lacerarono l’Europa del XVI e XVII secolo furono la matrice o perlomeno il necessario punto di passaggio nella creazione dello Stato. Una genesi drammatica dunque, a cui si aggiunge il paradosso che le guerre di religione non portarono al trionfo di una fede sull’altra, ma al superamento di ogni pretesa di fondazione del potere su una qualsiasi fede. Ne derivò una fondamentale conseguenza, che segna anch’essa la grande novità portata dall’avvento dello Stato moderno: la religione cessò di essere parte integrante della politica, la quale giunse a giustificarsi ormai solo dal suo interno, per i fini terreni e materiali (ordine e benessere) che era chiamata a realizzare. E che poteva realizzare appunto attraverso l’unità e la territorialità del comando, e attraverso un corpo qualificato di aiutanti “tecnici”. Fin dai suoi albori la Stato si presentò come l’unificazione nel momento politico della gestione del potere.
Da allora tante cose sono successe e tante idee, nel bene e nel male, hanno attraversato la nostra storia. Tutto ciò è inciso nel nostro DNA di Europei, che non siamo eredi di cose buone soltanto, ma anche di enormi malvagità, anche nella storia recente.
Possiamo, quindi, veramente ed in modo così deciso, identificarci con il modello europeo che la von der Leyen propone? Possiamo rivendicare fino in fondo la superiorità morale del nostro stile di vita, nei confronti di altri popoli? Nonostante il benessere, maggiormente diffuso rispetto a molti altri luoghi della terra, rimangono troppe sacche di povertà e miseria morale e troppe sofferenze ed ingiustizie irrisolte, per cantare le nostre lodi di fronte al mondo. Direi che ci sono molti “se” e molti “ma” e non tutto ciò che rappresentiamo può essere motivo di orgoglio o di esempio.
Per elencare alcuni possibili punti da cui ripartire, a mio avviso, come prima cosa, dovremmo uscire da questo mito del “progresso a tutti i costi”, come se tutto ciò che facciamo e decidiamo sia sempre e comunque buono. Non tutto ciò che chiamiamo progresso lo è in realtà, perché molte delle nostre cosiddette conquiste, provocano sofferenze e problematiche ancora più grandi, anche quando vengono fatte usando nomi altisonanti ed illusioni di emancipazione. Il risultato è un guazzabuglio di idee confuse che ci governano e ci proiettano nel caos e nella divisione, nonostante l’apparente ordine. Cito Goethe, attualissimo nel dire:
“Dottrine confuse per azioni confuse governano il mondo. Il mondo contemporaneo non merita che si faccia qualcosa per lui: ciò che esiste oggi, il momento dopo può crollare. Dobbiamo lavorare per mondo passato e futuro: per il primo, per riconoscerne i meriti, per il secondo, per cercare di innalzarne il valore. Delle conquiste che siamo in grado di apprezzare, abbiamo il germe in noi”.
Infine, per proiettarci verso un futuro migliore, dovremmo essere aperti verso idee ed ideali nuovi nostri ma anche quando provengono da altre parti del mondo, vista la dimensione globale in cui oggi viviamo. Forse, anche noi, spesso saccenti fino all’arroganza, abbiamo qualcosa da imparare dagli altri.
Concludo con un’ultima citazione dall’autobiografia del Rev. Moon, “Un cittadino globale, amante della Pace”
“Le filosofie e i metodi dell'educazione che ci hanno dominato finora devono essere cambiati, perché possano contribuire al raggiungimento delle mete comuni dell'umanità. Il ruolo dei religiosi è ancora molto importante. Piuttosto che esporre teorie complicate e affermare la superiorità della propria fede, essi devono infondere nei propri studenti la saggezza che li porti ad amare l'umanità e ad edificare un mondo di pace. Devono insegnare il principio della negazione di sé. Non possiamo aspettarci un futuro di felicità per il genere umano, se non ci impegniamo in prima linea nell'insegnare ai nostri discendenti i principi della pace. In definitiva, l'umanità è fatta tutta di fratelli e sorelle e il mondo è un'unica famiglia”.
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