Prof. Marco Lombardi
Marco Lombardi è direttore del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica, dove è ordinario di sociologia e insegna Cooperazione nelle aree di post-conflict e crisis management. Coordina da anni i progetti di intervento nelle aree di crisi (Afghanistan, Siria, Somalia, etc.), dirige ITSTIME, centro di ricerca sulla sicurezza e il terrorismo. È Ambasciatore di Pace di UPF dal 2000.
Le nuove forme di conflitto diffuso sollecitano strategie innovative di risposta sul piano politico e interrogano la cooperazione quale sistema di intervento adeguato alle nuove sfide. Per questa ragione riflettere sugli strumenti utili per realizzare la missione di UPF è necessario, soprattutto quando gli scenari di riferimento cambiano in maniera significativa. Con questo intento, di condividere con voi strategie e strumenti per “fare Pace”, offro alcune considerazioni, seguite da una recente esperienza sul campo e concluse da una proposta.
Le considerazioni evidenziano, prima, un mutamento di paradigma per comprendere il nuovo scenario, poi la radicale drammaticità delle nuove forme di conflitto e, infine, la centralità della cultura come strumento di diplomazia. Perché a questo punto dobbiamo fare: la Pace è Urgente.
Il mutamento di paradigma: dalla globalizzazione alla reticolarità
Non è forse ancora abbastanza chiaro come la globalizzazione – di cui si parla quotidianamente – sia ancora un processo incompiuto e incompreso, che si tenta di contenere nei paradigmi interpretativi del passato senza fare il salto concettuale che comporta un cambiamento di per sé radicale. Si potrebbe aggiungere che forse questo salto “non si è voluto fare”, nella speranza di mantenere le forme di “ordine precedente”: per questo la globalizzazione si spiega, in genere, come “complessità”, dovuta all’intensificarsi delle relazioni tra una rete sempre più fitta di nodi, e come “omologazione”, diffusione di uniformità che garantisce relazioni lineari tra i nodi.
Il mutamento del conflitto: la Guerra Ibrida
Il mondo è caratterizzato, sempre più, da quella forma di conflitto diffuso, pervasivo e delocalizzato che si chiama Guerra Ibrida, che coinvolge numerosi attori che, finora, “non potevano stare insieme” in un contesto di guerra che si manifesta sotto forma non convenzionale. Per spiegarmi, provate a immaginare un campo di gioco sul quale una squadra si presenta per giocare a rugby, un’altra per giocare a calcio, una terza per giocare a pallavolo e, infine, arriva un arbitro internazionale per regolare questo incontro di tennis. Appare evidente che tutti gli attori in campo si confrontano senza condividere regole alcune, strategie neppure, ma consapevole, ciascuno, di dover vincere e di poter essere l’unico a vincere. Fuori di metafora questa è la Guerra Ibrida, quella dove eserciti regolari, terroristi, insurgens, freedom figthers, media, NGO, etc. si confrontano senza regole: il Diritto Umanitario Internazionale così come la Convenzione di Ginevra sono orpelli ormai desueti.
Si tratta di quella guerra che ha suscitato in Papa Francesco questo commento (30 novembre 2014, nel viaggio di ritorno dalla Turchia): “È una mia opinione, ma sono convinto che noi stiamo vivendo una terza guerra mondiale a pezzi, a capitoli, dappertutto”. E quest’altro nel Presidente Mattarella (19 agosto 2015, 36° Meeting di Rimini): “Il terrorismo, alimentato anche da fanatiche distorsioni della fede in Dio, sta cercando di introdurre nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Africa, i germi di una terza guerra mondiale”.
Ma si tratta di una narrativa insostenibile, civilmente e anche politicamente: chi oggi, cittadino o governante, è disponibile ad accettare consapevolmente la possibilità di trovarsi in pieno terzo conflitto mondiale? Da cui la negazione dell’evidenza del conflitto, agito su una molteplicità di piani concorrenti (quello militare, economico, mediatico, culturale, tecnologico, etc.) che permette a ciascuno di sentirsi al sicuro senza esserlo realmente.
Le conseguenze drammatiche di questa situazione sono: l’aumento esponenziale delle vittime tra “i civili” e la dilatazione di quell’area grigia che non è né di guerra né di pace che costituisce il nuovo scenario incerto in cui andare ad operare. Perché la Pace è Urgente.
La centralità della cultura: la Cultural Diplomacy
È evidente che in questo momento ci troviamo in un sistema globale turbolento che cerca nuove forme di stabilità che devono essere affidate a nuove forme di “diplomazia”. Le identità locali sono degli ancoraggi cognitivi importanti, infatti una risposta alla turbolenza si ha rinforzando le culture locali medesime, intese come il serbatoio di identità che favorisce l’interpretazione del cambiamento, purché esse siano in rete tra loro. L’identità sociale della comunità, espressa nelle sue pratiche culturali, genera la resilienza necessaria ad affrontare l’incertezza del conflitto. Ed è la dimensione reticolare, cioè relazionale, che permette alle identità sociali di superare i particolarismi loro propri e dispiegare le loro potenzialità nella “rete delle diversità”.
Negli ultimi decenni è di molto aumentata l’insistenza, e il peso, della cosiddetta Public Diplomacy nel contesto delle pratiche di governo delle relazioni internazionali: il “soft power” si è affiancato all’ “hard power” tradizionale soprattutto nelle aree di conflitto, offrendo nuovi strumenti per la gestione delle crisi per identificare percorsi non conflittuali. Ancor più negli ultimi anni, al termine di Public Diplomacy si è affiancato quello di Cultural Diplomacy, in cui hanno un ruolo rilevante le culture locali, intese come sistemi di conoscenza, credenze, arti, comportamenti, indirizzi etici e morali, o ogni altro oggetto anche immateriale costruito da una comunità.
Purtroppo, la stessa cooperazione, intesa come strategia della diplomazia, è intrappolata nel modo vecchio di vedere, a cui partecipa un sistema di relazioni internazionali e di teorie politiche superate.
UPF può andare oltre perché è nel suo DNA una strategia di “interventismo culturale”, fondato su un sistema di valori condivisi, che garantisce la performance. Da cui: la Pace Urgente è possibile.
L’esperienza in Siria
L’esperienza maturata in questi anni nei contesti di crisi mi ha portato, con gli amici di Perigeo IPC e dei Padri Barnabiti, nella guerra siriana, a Maaloula nel gennaio 2019.
Maaloula antico villaggio a una cinquantina di chilometri da Damasco, 1500 metri di quota, la culla della cristianità siriana, dove le comunità musulmane, greco-cattoliche e greco-ortodosse hanno convissuto da sempre e dove ancora si parla l’aramaico, è stato luogo di aspre battaglie con i terroristi qaedisti di Al Nusra, che lo hanno occupato per due anni.
Culla della civiltà aramaica, ospita il monastero greco-ortodosso Mar Taqla (Santa Tecla), dove erano conservati i resti della santa, discepola di San Paolo. Qui è anche il monastero greco-cattolico Mar Sarkis, dei SS Sergio e Bacco, del VI secolo d.C. Sulle sue pareti, accanto all’antichissimo altare, erano 26 icone di scuola siriaca scomparse, forse distrutte o forse vendute. Tra queste quella della Cena Misteriosa: un’ultima cena in cui Cristo non siede al centro e la tavola è semicircolare: era il simbolo della comunità tutta, che spiritualmente si ritrovava quotidianamente a quel desco. La nostra missione, per Damasco, Homs e Aleppo ci ha portato a riconsegnare alla comunità la fedele copia di questo pezzo di cultura identitaria locale: la cerimonia avvenuta nel monastero, di fronte all’antico altare, ha ricomposto i pezzi della comunità martoriata che si è ricostituita allora come tale, capace di condividere una visione, un progetto e un futuro perché ha ritrovato i legami culturali che la generavano. Questa iniziativa ha confermato la priorità del processo di ricostruzione simbolico identitaria rispetto a quello di ricostruzione materiale post-emergenziale: la progettazione delle infrastrutture, che è associata alla visione di un futuro, è utile solo dove le radici della comunità siano state recuperate.
Cultural Focal Points: strumenti di diplomazia
La ricomposizione del patrimonio culturale locale deve essere quindi una priorità in contesti di intervento in situazioni di crisi o conflitto, attraverso la valorizzazione dei saperi locali e la loro divulgazione.
Tale linea metodologica ha come obiettivo la gestione e riduzione dei conflitti, ponendo al centro degli interventi la valorizzazione del patrimonio culturale e della memoria storico – sociale di una comunità o di un gruppo sociale il cui strumento principale è la definizione di Cultural Focal Points (CFP), elaborata all’Università Cattolica. Essi sono un insieme di raccolte rappresentative della cultura materiale e immateriale di una specifica comunità e di attività di riproduzione della cultura locale e diventano i motori propulsori di iniziative di scambio culturale, promozione del dialogo e della conoscenza reciproca tra le varie realtà etniche coinvolte.
Il Cultural Focal Point è:
- statico: è un museo, nella misura in cui rappresenta processi culturali e mostra artefatti;
- dinamico: è un luogo di incontro in cui si riproduce ciò che si preserva, favorendo il dialogo e la trasmissione verticale della memoria insieme all’apprendimento del “come fare”;
- singolare: sottolinea le peculiarità culturali di una singola comunità, che rafforzando la propria identità acquistano consapevolezza e resilienza che si esprimono come “nodo competente” della rete globale;
- plurale: perché ogni cultura si ritrova nella relazione necessaria con gli altri nodi (culture) della rete, mantenendo reciproche relazioni funzionali.
Conclusioni progettuali
Intervenire per fare la Pace è Urgente, si tratta dell’unica certezza in uno scenario altamente imprevedibile, perché l’attesa non è sostenibile eticamente né funzionalmente.
La strategia culturale, organizzata nella prospettiva della Cultural Diplomacy e resa operativa con lo strumento dei Cultural Focal Point, è adeguata al nuovo scenario reticolare e complesso, orfano di governance, la cui umanità ci chiede di non aspettare: sto continuando i progetti in Siria; altri in Somalia dove a Bosaso-Puntland si è creata una scuola; in Oromia – Etiopia dove si lavora per ricomporre il conflitto etnico, e via così.
In questo contesto, prima ancora che le istituzioni governative nazionali e internazionali, sono proprio le organizzazioni universali (di proposito non uso locuzioni quali “internazionali”, “non governative”) a poter agire da attori protagonisti, per la specificità culturale che le contraddistingue. Mi sento di dire che questa può essere una sfida sulla quale organizzarci.
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