15 marzo 2013

La società del Prozac

Editoriale del 1° numero 2013 del nostro periodico, Voci di Pace.
di Giuseppe Calì
Dichiarazione di Indipendenza Americana, 4 luglio 1776
“Noi consideriamo le seguenti Verità evidenti di per sé: che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono stati dotati di alcuni diritti inalienabili dal loro Creatore, che tra questi diritti ci sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità, che per assicurare questi diritti sono istituite tra gli uomini delle forme di governo che traggono il loro giusto potere dal consenso di coloro che sono governati, Che ogniqualvolta una forma di governo diventa distruttiva di queste finalità è diritto del Popolo modificarla o abolirla e istituire un nuovo governo, posando le sue fondamenta su tali principi e organizzandone il potere nella forma che pare la migliore per realizzare la propria sicurezza e felicità”.
Abramo Lincoln diede questa definizione, che riassume bene lo spirito che animò i pionieri della democrazia: “La democrazia è il governo del popolo, dal popolo, per il popolo”. Possiamo definire ancora così le nostre democrazie? Abbiamo rispettato le promesse dei nostri padri fondatori? Abbiamo onorato il sacrificio dei santi, degli eroi e dei patrioti che, per vedere giustizia, libertà e fratellanza, hanno sacrificato la loro vita?  È dalla risposta a queste domande che potremo capire verso quale società ci stiamo avviando. In effetti, siamo a un nebbioso crocevia tra progresso e decadenza, e non capiamo chiaramente quale strada prendere. In queste situazioni è sempre saggio fare un passo indietro e ritornare alle radici. Non si può proseguire soltanto spinti dalla cieca volontà di affermazione. Nella natura esiste un equilibrio perfetto tra opposti e così, come il giorno segue la notte e viceversa, è necessario che all’attivismo ossessivo segua qualche momento di riflessione collettiva e profonda.
Credo sia il momento di ripensare bene alle questioni fondamentali: la vita e la sua continuità generazionale, la ricerca della felicità, il bisogno di pace, sicurezza e prosperità, la convivenza e la qualità delle relazioni, la partecipazione alla vita della collettività e il rapporto tra libertà e responsabilità. Sto citando solo alcuni dei temi importanti sui quali riflettere, in un momento di transizione delicato come questo, per ritrovare la via. Generalmente queste discussioni sono riservate alle varie élite culturali e religiose, ma penso che sia venuto il momento di coinvolgere tutta la comunità. Oggi i mezzi di comunicazione non mancano e comunque sarebbe un modo per formare ed elevare una nuova coscienza, che diventi la base per una società nuova, veramente moderna, e un pensiero nuovo, che fornisca la base per una vera cultura della pace.
Cito Gustavo Zagrebelsky, importante costituzionalista italiano: “La democrazia si alimenta di convinzioni etiche e ideali che cercano di diffondersi e di affermarsi fino a diventare forza costitutiva della società. Ciò presuppone però il libero confronto e questo, a sua volta, la libera e diretta partecipazione di coloro che vi portano le proprie convinzioni, quale che ne siano la fonte e il fondamento, laico o religioso. La democrazia è, per così dire, un regime in prima persona, non per interposta persona. Se essa è occupata da forze che agiscono come longa manus di poteri esterni, diventa il luogo di scontro e prepotenza di potentati che obbediscono alle loro regole e non rispondono a quelle della democrazia: potentati che sono, tecnicamente, irresponsabili”. 
Oggi siamo narcotizzati con discorsi pseudo-politici insulsi, che un giorno sostengono qualcosa per poi dire il contrario il giorno dopo, mentre la gente è chiamata a fare da comparsa, da “clac”. La nostra è diventata una società di “guardoni”, nella quale la massima aspirazione è guardare ed essere guardati, nonché apparire, indipendentemente da ciò che si è veramente. Viviamo come pedine di un sistema, che ci fa credere che con 100-200-300 euro in più al mese potremmo vivere bene. O che puntando su una qualsiasi lotteria potremmo risolvere tutti i nostri problemi. O che possiamo essere felici quando la nostra squadra del cuore vince, mentre intorno tutto il resto crolla. O che votando per qualche incantatore potremmo avere più giustizia. Tutto questo mentre quotidianamente siamo avvelenati mentalmente e fisicamente, e ai nostri figli viene negato in innumerevoli modi il diritto sacrosanto alla felicità e al futuro.  Kant diceva: “Lo scopo della politica è la felicità del popolo”. Oggi una frase del genere suona fortemente ironica. Non sentiamo neppure più dolore per il giogo che ci hanno attaccato al collo, facendoci accettare logiche anti-felicità e anti-libertà, facendole passare per regole giuste, mentre favoriscono solo pochi a scapito dei molti e distruggono i nostri sogni, le nostre aspirazioni e la nostra speranza. Che fine ha fatto il diritto inalienabile alla ricerca della felicità? 
Giovanni Sartori scrive nel suo articolo sul Corriere della Sera del 23 Gennaio 2013: È vero che, in condizioni normali, l’economia «tira» di più se siamo ottimisti. Questo principio è stato consacrato negli Stati Uniti dalla formula della consumer confidence, la fiducia del consumatore, e del positive thinking, del pensare positivo. Ma la severissima recessione di gran parte dei Paesi benestanti oramai incrina questa fiducia nella fiducia. Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è “Prozac Leadership” di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il crac è figlio di una cultura che «premiando l’ottimismo ha indebolito la capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al pericolo».
Quali sono questi pericoli? Beh, oggi ce n’è un supermercato a disposizione, la scelta è ampia ed elencarli tutti sarebbe impossibile. L’angoscia è diventata la musica di sottofondo della nostra esistenza, ma noi siamo “anestetizzati”, non la percepiamo più come tale e rifiutiamo di svegliarci.
Il filosofo greco Antistene disse: "La conoscenza più utile alla vita è disimparare ciò che non è vero". Dovremmo fare una riesamina dei luoghi comuni della nostra cultura, falsamente progressista. Mettere in discussione il  “politically correct”, che purtroppo spesso trionfa a scapito della vera politica e dell’uomo stesso per cui è creata. Vediamo un esempio tra i tanti, diventato oggi oramai luogo comune.
Essere “moderni” oggi vuol dire pensare che le coppie omosessuali possano in tutto e per tutto essere equiparate alle coppie tradizionali composte da un uomo ed una donna, incluso in questo il diritto di avere, educare e crescere figli. Si parla di diritti dell’uomo, che nessuno deve osare mettere in dubbio. Si sostiene che gli omosessuali siano sotto attacco da parte della società e che si debba proteggerli.
Io credo che il problema sia esattamente opposto. Pur sostenendo i diritti che ogni individuo ha e biasimando fortemente gli atti di violenza insensata e simil-razzista, io dico che sono i movimenti gay che stanno aggredendo la nostra società a tutto campo. E non è una questione di gusti sessuali. Tutto ciò non ha niente a che fare con le scelte sessuali. Alla base di questa campagna c’è un progetto ideologico, la visione di una società diversa e direi opposta. Nessuno si sognerebbe, giustamente, di sindacare oggi su ciò che un individuo fa nella propria intimità e come gestisce la propria vita sessuale. Ciò che sta avvenendo invece è un vero e proprio attacco politico, mediatico, ideologico alle fondamenta della società e dei valori che stanno alla base della nostra esistenza. E come sempre la società “benpensante” reagisce tiepidamente, con molto “buonismo”, soprattutto perché non vede la portata di questa battaglia da cui dipenderà molto del nostro futuro.
Gli aggrediti non sono gli omosessuali, ma sono la vita e la famiglia, che ne costituisce la base indispensabile e quindi anche il futuro. C’è un accanimento che non si può spiegare semplicemente con la protezione di alcuni diritti ovviamente importanti. Infatti non basta e non basterà dire che si farà una legge per garantire la convivenza e la cura reciproca dei conviventi: questi vogliono tutto, incluso il diritto di gestire la vita di altri esseri, quelli sì indifesi, che sono i bambini. Questo è il fronte ultimo, oltre il quale c’è la capitolazione completa dell’essere e l’estirpazione delle radici stesse dell’esistenza. Quando una società arriva al punto di non potere garantire più i diritti dei veri indifesi, che sono i bambini, ad avere un padre e una madre, vuol dire che oltre c’è soltanto il baratro. Quando si arriva a dare definizioni del tipo “genitore 1 e genitore 2” per non menzionare i termini “padre” e “madre”, vuol dire che la cultura del nulla si è impossessata di tutti noi. Ripeto, gli aggrediti siamo noi persone qualsiasi, diventato popolo della sopravvivenza. Io so che persino molti omosessuali, pur essendo in qualche modo di parte, ma essendo persone di coscienza, riconoscono l’insensatezza di queste richieste. È anche a loro che chiedo di riflettere e di reagire all’omogeneizzazione che è fatta dai movimenti che li rappresentano, anche a spese della loro giusta libertà di pensiero. Questa è una questione di coscienza, non di sesso in senso stretto.
Ricordo che alla base della vita c’è l’unione di uno spermatozoo maschile e di un ovulo femminile. È vero che oggi si può concepire un bambino in provetta, senza sapere chi sia il padre o la madre, ma la vita comunque nasce dall’unione di un elemento maschile e uno femminile e quindi è fatta per essere alimentata, preservata e sviluppata nell’unione di questi due elementi. Noi, in qualsiasi modo ciò avvenga, nasciamo da un padre e da una madre e abbiamo bisogno di un padre e di una madre, almeno fino a che non maturiamo la nostra interdipendenza, la nostra capacità di gestire la vita in modo autonomo, seppur non separato dalle radici, che sono i nostri genitori.
Tornando alla dichiarazione iniziale, che riguarda la ricerca della felicità: veramente pensiamo che, agendo in modo così innaturale, potremo migliorare la nostra condizione? Non la miglioreremo certo sostituendo le parole cardine di qualsiasi tradizione, che sono padre e madre. Non la miglioreremo eliminando, in un solo colpo fatale, la spiritualità e l’amore connessi al comandamento “onora il Padre e la Madre”. Se oggi arrivassimo a dire “onora il genitore 1 e il genitore 2”, domani diremo “fregatene di avere dei genitori”. Certamente non è questa la strada per la nostra felicità.
Voglio ricordare, infine, che chi tace acconsente ed è quindi arrivato, per le persone di coscienza, il tempo di parlare con forza.
Gibran, nel suo “Il Profeta”, descrive bene lo stato d’animo attuale: “La disperazione indebolisce la vista e chiude il nostro orecchio. Non vediamo altro che gli spettri del fato, e udiamo solo il battito del nostro cuore inquieto. La forza che difende il cuore dalle ferite è la stessa che gli impedisce di dilatarsi alla sua massima grandezza”.
Amare vuol dire trovare Il coraggio di opporsi, di reagire, di manifestare la propria dignità originale. Abbiamo bisogno di un movimento per liberare l’uomo dal giogo che ha imposto a se stesso.

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