Fiaba
di Antonio Saccà
Quando Caligola divenne imperatore fu soddisfatto. Quel che desiderava, lo compiva. Bastava che parlasse, e parlare valeva comandare. “Faccio la guerra”, e faceva la guerra, e tutti gli altri a fare la guerra obbedendo. “Faccio la pace”, e faceva la pace, e tutti gli altri a fare la pace, obbedendo. “Voglio che il mare sia trasportato nel mio palazzo!”, e tutti a lavorare per costruire canali da condurre il mare nel palazzo di Caligola. “Non voglio il mare nel mio palazzo!”, urlava l'Imperatore e tutti subito ad ostruire i canali impedendo al mare di giungere al Palazzo dell'Imperatore. “Voglio che domani lo schiavo Tullio sia ucciso”, stabiliva l'Imperatore. Tutti afferravano lo schiavo Tullio per ucciderlo il giorno dopo, il giorno dopo stavano per ucciderlo, ma l'Imperatore urla: “Voglio che lo schiavo Tullio non sia ucciso e gli si dia libertà”, e le guardie liberavano lo schiavo Tullio, che sanguinava al braccio. “Sia ucciso chi ha ferito lo schiavo Tullio”, gridò l'Imperatore, e schiavi e guardie furono uccisi tutti giacché non venne scoperto il feritore. “Portatemi dieci donne giovani e vergini” comandò una notte l'Imperatore, gli schiavi e le guardie cercarono e presero dieci donne giovani e vergini trascinandole dall'Imperatore. “Uccidetele”, disse l'Imperatore appena le vide. Schiavi e guardie mozzarono il capo alle disperate fanciulle. Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove...”. “No, quest'ultima non uccidetela!”. E l'ultima donna non fu uccisa.
Un mattino, mentre assaporava frutta dolce del remoto Oriente, l'Imperatore disse: “Voglio qualcosa si speciale, mai accaduto, voglio dormire con la Luna, stanotte! Portatemela, presto!”. I dignitari, le guardie, gli schiavi udirono e non udirono, capirono e non capirono. Forse era una donna, la Luna? L'Imperatore, irato, ridisse: “Stanotte voglio dormire con la Luna. In fretta, è buio!”. Dignitari, guardie, schiavi si sparsero inutilmente come dei cani, ma fu un ingegnoso pittore a risolvere l'imbarazzo, dipinse una donna al modo lunare, una punta sui piedi, una punta sul capo, e la falce lungo il corpo. L’Imperatore la penetrò, e la notte seguente vedendo le stelle proclamò che erano tutte sue figlie, abbracciandole con mani al cielo. Non passano molti giorni e Caligola desidera accoppiarsi con una Montagna, l'Etna, e invia schiavi e condottieri perché la sradicano dalla Sicilia e la depositino nel suo letto. Il che fu compiuto al pari della Luna, lo stesso pittore segna alberi, piante, erbe, lava e in capo della neve e del grigio fumo, l'Imperatore la possiede e da quel momento prese a dire che tutte le montagne e le colline e le selve e le pianure erano sue figlie. Per qualche tempo non richiese, camminava taciturno negli sconfinati edifici dai quali imperava sul mondo, non parlava, non ascoltava, chiuso, avanti e indietro, imprigionato nei suoi pensieri, i cortigiani lo osservavano lontani e muti, finché un pomeriggio d’improvviso, ad altissima voce: “Morte, ti voglio nel mio letto, feconderò te pure, e cesserai di uccidere, la mia immortalità la diffonderò a tutti gli uomini!”. I consiglieri, udendo, lo sconsigliarono, la Morte è un'assassina invincibile, Caligola rideva a gola piena, non soltanto egli era immortale, soltanto lui era invincibile, ripeteva, ma avrebbe fecondato di corpuscoli immortali la Morte, annientando gli spiriti mortiferi. Non vi fu bisogno di un pittore, la Morte si presentò, ossiccosa e gracchiosa, e si stese accanto all'Imperatore, che, senza indugio, la possedette e inseminò. Una, due... dieci volte, infuriando. La Morte restava impassibile, nessun piacere dell’Imperatore, e soprattutto nessun figlio immediato come nel passato con la Luna e la Montagna. Caligola continuò a possederla, finiva e ricominciava, la Morre restava muta e inerte. Forsennato da quella indifferenza, Caligola strinse l'Ossiforme sbraitandole: “Ti ucciderò con le mie mani!”, e la strinse erculeamente al collo. Strabiliante, le ossa c'erano ma non venivano strette, dissolte al contatto, e così il petto, il ventre, ossa nulla. “Esisti o non esisti?”, chiese l'Imperatore sbalordito. “Io sono l'esistenza dell'inesistenza”, gracchiò la Morte. “Perché uccidi gli uomini?”. “E' un dono di natura, la Natura mi ha concesso questa possibilità”. “Non puoi mutarla?”. “È la Natura che decide, non io!”. “E come mai io non muoio, la Natura è capricciosa?”. “Assolutamente non lo è”. “Eppure io sono immortale!”. “Ma tu non sei immortale!”. “Bada come gracchi, scimmia nuda, che ti faccio arrostire! Io sono immortale”. “Tu non sei immortale!”. “Io sono immortale”. “Tu non sei immortale!”. “Io sono immortale, io sono l'Imperatore!”. “Tu sei Imperatore ma non sei immortale”. Caligola assaltò la Morte colpendola di spada, pugnale, lancia, non attraversando che aria. Allora comprese che la sua immortalità era un'illusone concepita dagli uomini per imporre sudditanza agli altri uomini e che egli sarebbe morto come chiunque. Guardò l'occhio vuoto della Morte: “È certo che morirò?”. “Tutto ciò che esiste, muore”. “Allora, una cortesia”, “Dimmi”. “Che la mia morte sia tragica, un suicidio, un omicidio, per segno di quanto orrenda è la morte, non voglio la finta serenità e compostezza d'animo, come se morire fosse un passeggiare sui prati. Mi fai orrore, schifo, ti odio, sciaguratissima e voglio che sia una morte orribile al tuo pari”. L'Imperatore Caligola fu accontentato. Morì ucciso, una orrenda morte, quale è la Morte.
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