In occasione del 20 luglio 2019, che segna ben 20 anni dall’inizio di una delle più gravi persecuzioni nella Storia, quella del Falun Gong in Cina, Epoch Times ha intervistato Antonio Stango, presidente della Federazione Italiana Diritti Umani – Comitato Italiano Helsinki (FIDU).
Il Falun Gong è una disciplina spirituale di meditazione basata sui principi di verità, compassione e tolleranza e che ha come scopo il miglioramento del carattere; comprende anche esercizi fisici per la salute del corpo. Il regime cinese la perseguita dal 1999, da quando il Partito Comunista Cinese ha avuto timore di perdere il monopolio sulle menti delle persone e ha scatenato la sua ira contro i pacifici mediatori.
Dopo un lungo anno di indagini, il 17 giugno un tribunale internazionale indipendente di Londra ha concluso all’unanimità che in Cina il prelievo forzato di organi dai prigionieri di coscienza (molti dei quali ancora vivi nel momento del prelievo) è una realtà tutt’ora in corso e che avviene «su scala significativa». La fonte principale degli organi, ha concluso il tribunale, sono proprio i praticanti del Falun Gong (90 mila trapianti illegali all’anno). Dal momento che obiettivamente si tratta di un crimine mai visto nella Storia, cosa si sente di dire a questo riguardo?
La problematica è duplice. Da un lato, infatti, ci sono ormai da anni gravissimi indizi circa il sistematico prelievo forzato di organi in Cina: questo è certamente configurabile come un crimine contro l’umanità, per il quale dovrebbero essere condotte indagini ufficiali dirette a identificare precise responsabilità penali individuali sia dell’intera catena di comando che lo autorizza, sia degli autori degli interventi di espianto. Dall’altro lato, è certa al di là di ogni possibile dubbio e ammessa anche dalle autorità del regime di Pechino la terribile repressione del Falun Gong, così come di intere comunità etniche e religiose, attuata con i campi di lavoro e di cosiddetta ‘rieducazione’ in cui sono detenute e private della dignità umana milioni di persone. È il regime cinese nella sua interezza a portare la responsabilità di un tale sistema.
Il noto giudice del tribunale, Geoffrey Nice, ha concluso che le prove dimostrano che il regime cinese ha commesso crimini contro l’umanità, e c’è inoltre «per molti motivo di credere che la possibilità che sia stato commesso anche genocidio diventi altamente probabile». Ha quindi affermato che i governi e gli organismi internazionali «in potere di avviare indagini e procedimenti presso tribunali internazionali o presso l’Onu, hanno ora un dovere: verificare se è stato commesso un genocidio». Perché i governi secondo lei (compreso quello italiano) non danno alla questione l’importanza che merita? Pensa che adesso, dopo il giudizio del tribunale di Londra, possano considerare la questione più seriamente (come auspica il giudice Nice)?
Per le accuse di crimini contro l’umanità e di genocidio (così come, del resto, per i crimini di guerra), dove uno Stato non sia in grado di condurre i processi o non intenda farlo, dovrebbe intervenire la giustizia internazionale – come è avvenuto con i tribunali ‘ad hoc’ per i crimini commessi negli anni Novanta nella ex Jugoslavia e in Ruanda e come avviene, per gli Stati parte e in alcuni casi particolari anche per altri Stati, con la Corte Penale Internazionale dell’Aja. Questa è stata istituita con lo Statuto di Roma, approvato il 17 luglio 1998 ed entrato in vigore il 1° luglio 2002; ma la sua operatività non è ancora così efficace come i suoi promotori – inclusi molti di noi delle organizzazioni per i diritti umani – avevano auspicato. Infatti, non solo la Cina non è parte di quello Statuto, ma il suo regime contesta (anche sulle base di proprie interpretazioni del diritto internazionale consuetudinario) la possibilità che l’Ufficio del Procuratore della Corte inizi un procedimento motu proprio per crimini contro l’umanità commessi in Stati che non hanno aderito allo Statuto di Roma. Inoltre, lo status ufficiale della Cina come membro permanente, con diritto di veto, del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e il suo peso economico nelle relazioni bilaterali incutono una certa soggezione a governi timidi e incerti. Gli Stati democratici dovrebbero riacquistare fierezza, fermezza, lungimiranza e capacità di negoziare partendo proprio dalla priorità del rispetto dei diritti umani, non da apparenti interessi immediati che in realtà finiscono per creare sudditanza e che nel medio e lungo termine possono tradursi in un disastro anche economico.
Il 20 luglio 2019 segna il 20esimo anno dall’inizio della persecuzione del Falun Gong. In questi ultimi 20 anni, i praticanti del Falun Gong hanno chiesto giustizia e fatto appello alle coscienze in tutto il mondo, al fine di esortare la comunità internazionale a intraprendere azioni concrete per porre fine alla brutale persecuzione per mano del Pcc. Cosa pensa ne sarà della tirannia del Pcc, secondo lei durerà ancora per molto?
Un regime di partito unico, con tutto il potere concentrato nell’esecutivo, magistratura non indipendente, funzione parlamentare poco più che decorativa, assenza totale di libertà dei media e apparato repressivo onnipresente – ora rafforzato anche con l’uso spregiudicato di tecnologia informatica e intelligenza artificiale – tende a perpetuarsi senza alcuno scrupolo né limite. Tuttavia, conservo la speranza che l’interazione con le società aperte del mondo libero e il coraggio di tanti cittadini cinesi che continuano a voler affermare la propria coscienza sfidando ogni rischio riusciranno a produrre frutti di libertà. L’impegno delle nostre organizzazioni della società civile, della politica, dei media e degli ambienti accademici dei Paesi democratici dovrebbe essere volto a mostrare sempre, senza cedimenti, la superiorità del sistema di rispetto effettivo dei diritti umani e delle libertà fondamentali, che del resto ha i suoi pilastri nella Dichiarazione Universale del 1948 e nei successivi Patti Internazionali in materia. Confido che un giorno le stesse autorità cinesi si rendano conto dell’opportunità di una riforma che releghi nella storia del passato gli orrori del totalitarismo e consenta lo sviluppo di un sistema politico-sociale maturo, dove la libertà all’interno – che è un bene in sé – sarà anche garanzia di una più stabile cooperazione internazionale.
Il 13 marzo 2019 gli Usa hanno pubblicato le loro ‘Cartelle nazionali sulle pratiche per i diritti umani’, che documentano violazioni in quasi 200 Paesi e territori; il segretario di Stato Mike Pompeo ha fatto i nomi di Iran, Sud Sudan, Nicaragua e Cina. Lo stesso Pompeo ha tuttavia sottolineato che la Cina è un «discorso sé stante» quando si tratta di violazioni dei diritti umani. Cosa ne pensa in merito?
Non solamente secondo l’attuale amministrazione degli Stati Uniti, ma secondo qualsiasi rapporto delle più attendibili organizzazioni per i diritti umani, la Cina si presenta con uno dei livelli più bassi di rispetto dei diritti umani, con caratteristiche di sistematicità e con una difesa ideologica oltranzistica delle violazioni stesse. Un cambiamento potrà avvenire, naturalmente, soltanto dall’interno della Cina stessa, ma è fondamentale che nei Paesi democratici si evidenzino in modo chiaro e senza tentazioni di condiscendenza le problematiche esistenti e si chieda alla Cina come a qualsiasi altro Stato, nell’ambito di un dialogo bilaterale e multilaterale costruttivo, di mostrare i risultati di un effettivo progresso. Questo sarà un bene per la Cina e per il resto del mondo: è un interesse comune di tutta l’umanità.
Articolo originale ripreso da Epoch Times, vedi qui
Antonio Stango ha diretto anche progetti internazionali e condotto missioni di monitoraggio dei diritti umani in numerosi Paesi, fra i quali Cuba, Marocco, Mauritania, Kazakistan, Moldova, Federazione Russa e Ucraina. Oltre all’impegno sul campo, è professore a contratto di Diritti umani e di Diritto internazionale umanitario alla Link Campus University di Roma, e ha tenuto corsi sui diritti umani in diversi Paesi d’Europa, Asia Centrale e Medio Oriente; segue regolarmente i lavori delle principali istituzioni internazionali in materia.
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