22 marzo 2021

GIOVANI e PACE

La nostra “squadra editoriale” si arricchisce di nuove componenti giovani

di Godwin Chionna 
L’avvento del 2021, e soprattutto la conclusione del 2020, sono stati generalmente accolti con grande entusiasmo e il desiderio di lasciarsi alle spalle un anno che molti avranno senza dubbio definito nefasto. Nonostante i primi giorni di quest’anno ci abbiano mostrato che il 2021 non mancherà certo di sfide altrettanto (se non più) provanti di quelle vissute l’anno scorso (tanto per cominciare, già il mese di gennaio ci ha riservato, nel giro di pochi giorni, le “sorprese” dell’irruzione a Capitol Hill e della crisi di governo nel nostro paese), raramente nel recente passato abbiamo affrontato l’inizio di un nuovo anno con maggior speranza, o perlomeno desiderio, di vivere un anno migliore e diverso dal precedente. 
Qui a Voci di Pace non facciamo eccezione, e in occasione del primo numero del 2021 siamo lieti di annunciare al¬cune novità, di cui vogliamo farvi partecipi. Anzitutto, l’allargamento della nostra squadra editoriale, che si arricchisce di nuove componenti giovani, che ringraziamo e salutiamo. 
La maggior parte di loro fa parte del progetto YSP - Youth and Students for Peace (Giovani e Studenti per la Pace), lan¬ciato nel 2017 dalla dott.ssa Hak Ja Han Moon e che comin¬cerà da quest’anno a collaborare più strettamente con la no¬stra rivista. Come risultato, abbiamo deciso di lanciare una sezione specificamente dedicata ai giovani: “Giovani e Pace”, che fa l’esordio con questo numero. Quindi, se il 2021 dovrà essere un anno di cambiamenti, si può ben dire che la nostra redazione non ha voluto essere da meno. Per celebrare questo esordio, per l’editoriale mi sono quindi proposto di farmi ispirare proprio dalle due parole della no¬stra nuova sezione. 

COSA VUOL DIRE “GIOVANE”? 
La risposta può sembrare scontata, ma in realtà non esiste una definizione universale di gioventù, così come non esiste una definizione univoca di età adulta. Quindi, cosa distingue un “giovane” da un “adulto”? Ci sono diversi modi per rispondere, a diversi livelli. 
Un primo livello, che può essere definito biologico, è legato al raggiungimento di una soglia d’età oltre la quale l’individuo è considerato pienamente responsabile delle proprie azioni, tipicamente intorno tra i 17 e i 21 anni, a seconda dei Paesi. C’è poi un passaggio professionale, per cui un giovane che completa il percorso di studi e comincia a contribuire alla società con il proprio lavoro può iniziare ad essere considerato adulto. 
Infine, c’è un rito di passaggio che riguarda la sfera personale e familiare, che si verifica quando il giovane esce di casa e/o inizia il proprio nucleo familiare (questo rito era primaria¬mente rappresentato dal matrimonio). 
Questi tre tipi di soglia per l’entrata nel mondo adulto sono molto diversi, ma hanno almeno un aspetto fondamentale in comune: la responsabilità. 
Che si tratti dell’acquisizione del diritto di voto o del diritto di guidare, o dell’ingresso nel mondo del lavoro, o dell’accettazione dell’impegno nei confronti della generazione successiva preparandosi a costruire una propria famiglia, tutti questi momenti che definiscono l’ingresso nell’età adulta sono connotati da una presa di responsabilità di qualche tipo. In un certo senso, si può dire che l’età della giovinezza ha lo scopo di preparare gli adulti del futuro alle responsabilità che dovranno prendere di fronte alla società, e il valore di queste soglie simboliche dell’età adulta consiste nel fatto che forniscono un orizzonte chiaro ai giovani, una linea di demarcazione tra un’età di (relativa) spensieratezza e l’età della responsabilità. 
Un tempo queste soglie erano molto ben definite: le persone erano abituate ad una serie di “riti di passaggio”, diversi a seconda della cultura di appartenenza, ma ben riconoscibili e riconosciuti all’interno della società e comunità in cui vivevano. Al giorno d’oggi, tuttavia, queste linee di demarcazione sono generalmente meno nette che in passato. L’aspettativa sociale nei confronti dei giovani per il superamento dei tradizionali riti di passaggio si è affievolita o modificata, per varie cause socioeconomiche e culturali. Questo vuole anche dire che i giovani d’oggi sono meno pronti (o desiderosi) di assumersi le loro responsabilità? Che abbiamo una generazione di eterni Peter Pan (i famosi bamboccioni di cui si parlava tanto qualche anno fa), che spesso con la complicità delle proprie famiglie pospongono il fatidico ingresso nell’età adulta? Naturalmente semplificare la questione in questi termini sarebbe profondamente scorretto, se non altro per rispetto dei tanti giovani che non corrispondono affatto a questa descrizione: eppure, la tendenza a rifuggire dalle responsabilità esiste e si manifesta in modi diversi, fino a sconfinare nel campo del patologico. È un tema di cui non si parla abbastanza, purtroppo, ma che deve fare riflettere: per fare un esempio, si stima che il numero di hi-kikomori in Italia (persone che si recludono volontariamente in casa anche per interi anni, rifiutando ogni contatto con la società) si aggiri intorno alle 100.000 persone, per la stragrande maggioranza giovani maschi - mentre in Giappone, luogo di nascita del fenomeno, sarebbero almeno 1 milione. Cosa porta a questa auto-esclusione, e come mai in particolare i giovani vivono questa situazione? La risposta sta in parte nel rifiuto della società odierna e della “parte” che ciascuno di noi gioca in essa, che porta purtroppo questi giovani - spesso molto intelligenti e sensibili - al cosiddetto social withdrawal. 
In un certo senso, educare i giovani significa metterli nelle condizioni migliori per imparare cosa significhi la responsabilità, il che purtroppo spesso non accade, con gravi potenziali conseguenze. Penso infatti che una società che non si cura a dovere dei propri giovani non può considerarsi veramente “in pace”. Ecco, la parola “pace”. 
Prendendo in mano vari dizionari, è interessante notare come troviamo che le definizioni fornite hanno tutte uno schema di base comune. 
Il primo significato dato a questa parola è sostanzialmente “assenza di conflitto”. Il secondo si riferisce invece a uno stato di “relazioni armoniose e di concordia”. Infine, la terza definizione è “condizione di tranquillità spirituale o materiale”. .

... UNA SOCIETÀ CHE NON SI CURA A DOVERE DEI PROPRI GIOVANI NON PUÒ CONSIDERARSI VERAMENTE “IN PACE”. 

È uno schema che a mio avviso dice molto su come tendiamo a vedere la pace: principalmente come qualcosa di esogeno, generato da condizioni esterne che sfuggono al nostro controllo. D’altronde, è indubbio che la prima accezione della parola “pace” a cui la maggior parte di noi pensa è proprio “assenza di guerra”. Tutto ciò può sembrarci assolutamente normale o anche corretto da un punto di vista logico, ma cela una trappola abbastanza sottile. Infatti, definire un concetto come “assenza di qualcosa” equivale a dire che tale concetto non possiede una sua realtà propria; ma è così, nel caso della pace? Accettare solo questa definizione negativa della pace implica che, per raggiungerla, è “sufficiente” eliminare la guerra; è davvero così che funziona? La risposta è semplicemente no. 
La pace non è meramente “non guerra”, possiede una sua sostanza propria. È fatta di buone relazioni, in cui vige innanzitutto il rispetto per la controparte e il rifiuto della volontà di prevaricare sull’altro con la violenza o altri mezzi. È fatta di incontro, di dialogo, anche di riconoscimento delle differenze esistenti, senza che queste siano necessariamente causa di conflitto. In ultima analisi consiste nella capacità di comprendere l’altro senza negarlo, una capacità che non può essere istituzionalizzata con regole o sistemi, ma solo appresa e trasmessa ai singoli individui, tramite la cultura. Tutto ciò richiede un notevole sforzo costruttivo, e la parola “pace” intesa come sola eliminazione di tutte le guerre non dice niente di tutto ciò. Perché la pace è uno sforzo attivo, e se viene ridotta alla mera negazione di qualcos’altro, ci sfuggirà sempre di mano. Suggerisco quindi di cambiare l’ordine proposto dai nostri dizionari, di rifrasarlo così: la pace è uno stato di relazioni armoniose e di concordia, che si instaura tra soggetti in condizione di serenità spirituale e materiale, che sfocia naturalmente nell’assenza di conflitto.

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