22 marzo 2021

Coronavirus e racconto: la narrazione dell’infopandemia

Prof. Marino D’Amore, Università Niccolò Cusano

 Prof. Marino D'Amore
Il Coronavirus rappresenta il grande nemico che il mondo sta affrontando. Una drammatica questione che si dirime tra misure mediche emergenziali e decisioni amministrative draconiane. Anche l’uso della terminologia appare confuso, dividendosi, soprattutto mediaticamente, per un periodo tra influenza ed epidemia sino all’ufficializzazione mondiale della pandemia. In questo momento di profonda confusione alcuni punti si mostrano nella loro inequivocabile evidenza:

In primo luogo ci troviamo di fronte a un tipico caso di infopandemia: un sovraccarico d’informazioni sul tema prima contrastanti, poi ipertranquillizzanti e infine giustamente allarmanti, stimoli informativi che non chiariscono la questione e soprattutto neutralizzano la legittimità autorevole di ogni fonte: tale contrasto coinvolge e connota le differenti posizioni del mondo scientifico e di quello istituzionale, ma rappresentano anche una divisione interna al primo, catalizzando una profonda sfiducia su tutto ciò che viene detto e che prolifera, alimentato e diffuso dalle dinamiche piramidali del web. Senza contare le fake news che in un periodo di allarme sociale e di abbassamento dei filtri razionali di interpretazione trovano terreno fertile.

Il racconto iconografico dei mass media suggerisce scenari apocalittici che amplificano il timore e gli effetti del messaggio, ormonato anche dalla serializzazione di un’ipercomunicazione caratterizzata da continui aggiornamenti che di fatto acuiscono la percezione tensiva della situazione, soprattutto quando aumentano le vittime e i contagiati. La situazione è molto seria e la sua gravità non è calcolabile se non nel breve periodo, tuttavia anche una normalizzazione, non nei contenuti ovviamente ma nelle sue modalità, della comunicazione giornalistica aiuterebbe a far comprendere meglio la difficile realtà che stiamo vivendo. Una realtà che non viene percepita da tutti con la considerazione che merita, soprattutto riguardo al prezzo alto che si sta pagando in termine di vittime. L’overload informativo e l’invasività di ogni immagine funziona meglio di qualsiasi altro contenuto, meglio della parola, soprattutto nei social, nell’epoca della convergenza multimediale e della società dell’immagine, provocando o un cieco allarmismo o uno scetticismo lassista, senza una giusta via di mezzo.

Il proliferare delle fake news inficia il lavoro dei buoni comunicatori e dei divulgatori scientifici, fattori che hanno aumentato esponenzialmente la destabilizzazione cognitiva, insieme a uno sfrenato individualismo baumiano che si è palesato in diverse circostanze. A una drammatica incognita medica ed emergenziale che si declina secondo dinamiche globalizzanti si oppone una giusta nemesi: l’efficacia speculare di uno strumento strettamente sociale come il distanziamento. In tale contesto quest’ultimo da giusta misura medica diventa indifferenza sociale, deresponsabilizzazione che mitiga la componente solidale in ogni forma di rapporto, fino ad arrivare potenzialmente all’esclusione. Secondo Bauman, nella modernità liquida, ogni relazione si contestualizza all’interno di un individualismo esasperato che esteriorizza le sue attività all’interno di un altrettanto sfrenato consumismo. Quest’ultimo le contestualizza: qualunque rapporto i connotati del transitorio, diventa presto obsolescente pronto a essere sostituito dal successivo senza soluzione di continuità. Si tratta di una bulimia consumistica che non mira tanto al possesso quanto alla fruizione temporanea di oggetti, relazioni e alla soddisfazione del desiderio che li anima. Un sentimento in cui immergersi e appagarsi. 

La comunicazione che accompagna quotidianamente questa vicenda, tuttavia, continua ad apparire al contempo abnorme nella sua mole e confusamente singhiozzante nei suoi contenuti.

Un’ipercomunicazione, come detto, divisa tra aggiornamenti drammatici di decessi, presenzialismi televisivi, teorie complottiste e negazionismi di settore, elementi che alimentano dubbi e cristallizzano una situazione di fluida incertezza baumaniana, che però, per ora, non vede cambiamento.

Le parole hanno un peso e sono uno strumento di potere e di responsabilità: il potere di essere ascoltati e guadagnare autorevolezza e la responsabilità di influenzare masse d’individui. La loro incomprensione arricchisce paradossalmente di significato altre manifestazioni umane autoindotte o imposte come, appunto il distanziamento sociale. Esso sembra essere l’unica arma a disposizione che certamente sta cambiando e cambierà ancora le nostre vite e le loro dinamiche relazionali. Insomma, esiste la possibilità di un necessario ripensamento del nostro modus vivendi e degli scambi a esso sottesi. In questo momento sono proprio le parole a modulare, mitigandolo, un processo di distanziamento che da misura sanitaria potrebbe diventare una consuetudine comportamentale.

La comunicazione deve neutralizzare la frammentazione infopandemica che vive e ricostruirsi in una pancomunicazione che attualizzi una collaborazione sinergica, condivisa e partecipata tra tutti gli attori internazionali.  Una comunicazione globalizzante e multidisciplinare, strutturata dal professionismo medico, istituzionale, psicologico e sociologico affinché concepisca e diffonda informazioni condivise guidate da un intento unitario. Una pancomunicazione che intacchi un potenziale isolamento e risvegli la voglia di comunità, della normalità di un quotidiano proiettato verso un futuro, faticoso ma indispensabile, di rinascita.

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