20 marzo 2020

La Cooperazione tra le Fedi

Le religioni difficilmente dialogano: le persone sì. Sembra che negli ultimi decenni alcune autorità di assoluto rilievo e prestigio, ma anche persone ordinarie e “normali”, comincino finalmente a comprendere che l’arroccamento identitario non paga ma produce violenza e tragedie.

di Valentino Cottini
Il 21 giugno scorso Papa Francesco ha tenuto a Napoli uno dei suoi discorsi memorabili in occasione del convegno “La teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo”, promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. Un discorso tenuto “ai suoi”, ma programmatico e di lungo respiro, perché riguarda la formazione delle future guide e degli intellettuali cattolici: la formazione teologica cattolica dovrà dialogare con le istituzioni sociali e politiche, con tutte le discipline, con tutte le culture in mezzo alle quali si trova a operare e con tutte le religioni, senza rinchiudersi nella torre d’avorio identitaria che diventerebbe ghetto e sancirebbe la morte del pensiero. “Il modo di procedere dialogico – dice Papa Francesco – è la via per giungere là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli”. E Dio sa quanto i simboli, i paradigmi e i pregiudizi siano determinanti in tutte le culture e in tutte le religioni.
Ma il suo sguardo si focalizza poi sul Mare Mediterraneo “all’inizio del terzo millennio. Non è possibile – prosegue il Papa – leggere realisticamente tale spazio se non in dialogo e come un ponte – storico, geografico, umano – tra l’Europa, l’Africa e l’Asia. Si tratta di uno spazio in cui l’assenza di pace ha prodotto molteplici squilibri regionali, mondiali, e la cui pacificazione, attraverso la pratica del dialogo, potrebbe invece contribuire grandemente ad avviare processi di riconciliazione e di pace. Giorgio La Pira ci direbbe che si tratta, per la teologia, di contribuire a costruire su tutto il bacino mediterraneo una grande ‘tenda di pace’, dove possano convivere nel rispetto reciproco i diversi figli del comune padre Abramo”. Ed è stato spesso tra i fratelli di queste religioni che, ci piaccia o no, sono nati alcuni dei principali motivi di attrito che hanno tinto di rosso sangue le acque azzurre del “mare nostrum”, riproponendo l’atavico feroce conflitto tra Caino e Abele. Non si tratta solo del tema dei porti chiusi ma anche della cultura del sospetto, si tratta di un’identità culturale e religiosa considerata come un fortino da difendere con le unghie e con i denti da un’ondata di barbari che la smantellerebbero. Sto pensando ai secoli di polemica aspra e talora sanguinosa che è arrivata alle orribili aberrazioni del secolo scorso. Sto pensando all’enorme cimitero che è diventato il Mar Mediterraneo già nei secoli passati e ancora oggi nelle lotte favorite “anche” dai conflitti interreligiosi. Sto pensando a ciò che sta producendo oggi il risorgere dell’antisemitismo e dell’islamofobia sulla sponda nord e della cristianofobia sulle sponde meridionale e orientale del nostro mare.
Dal punto di vista cattolico la svolta risale al Concilio Vaticano II, dal quale sono scaturiti un cambiamento di prospettiva e un processo che, speriamo, evolveranno nei tempi lunghi della storia. Un cambiamento di prospettiva importante è stato il passaggio dalla religione in se stessa ai suoi aderenti. Sono i cristiani che incontrano ebrei o musulmani e viceversa. Le religioni difficilmente dialogano: le persone sì. Sembra che negli ultimi decenni alcune autorità di assoluto rilievo e prestigio, ma anche persone ordinarie e “normali”, comincino finalmente a comprendere che l’arroccamento identitario non paga ma produce violenza e tragedie.
La chiesa “in uscita” ha organizzato il grande convegno interreligioso di Assisi del 27 ottobre del 1986. Fu una grande occasione di incontro, in cui si è potuto costatare che religiosi di diversa tradizione “possono” pregare insieme. Erano già momenti difficili quelli che stava vivendo il mondo interreligioso negli ultimi decenni del secolo scorso: il perenne conflitto israelo-palestinese, la questione afghana e la nascita di Al-Qā‘ida, la guerra tra Iraq e Iran e poi tra Iraq e Kuwait con la prima guerra del Golfo, il decennio oscuro dell’Algeria, fino alla tragedia delle Torri gemelle di New York l’11 settembre del 2001. Il tentativo del dialogo interreligioso già allora era (e ancora rimane) quello di disinnescare il detonatore religioso dalla violenza e dalla guerra. È bestemmia implicare Dio, nelle questioni politiche e geopolitiche. Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno ma prende piuttosto le parti di coloro che subiscono ingiustamente violenza. Nel frattempo erano nati nella chiesa organismi permanenti di dialogo: il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e il Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Queste istituzioni hanno intessuto una fitta rete di relazioni con organismi religiosi ebraici e musulmani importanti, alcuni dei quali ancora sussistono e producono rapporti interpersonali e documenti interessanti.
Ma l’iniziativa del dialogo non è partita solo dalla chiesa cattolica. Le derive del fondamentalismo violento, che ha imperversato soprattutto (anche se non solo) in campo islamico, hanno condotto a prendere coscienza che si tratta di un problema serio e urgente anche per l’islam. Ricordo in particolare la ormai famosa “Lettera dei 138 saggi”, Una parola comune, dell’ottobre 2007, indirizzata in primo luogo al Papa Benedetto XVI e ai capi di tutte le chiese cristiane. Fu, a mio parere, il promettente inizio di una nuova ermeneutica condivisa da un gruppo significativo di autorità islamiche. Nella Lettera, per la costruzione della pace mondiale, si proponeva alle chiese cristiane di accordarsi sul fatto che il cuore di ambedue le religioni è il duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, che è anche compendio dell’ebraismo. Ancora in ambito musulmano, sono importanti alcuni documenti prodotti da al-Azhar e la carta di Marrakesh a proposito di cittadinanza e di minoranze. Ma ci furono (e continuano) anche le visite di esponenti religiosi musulmani, sia sunniti che sciiti, in Vaticano o al Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso e l’apertura a Vienna del Centro Internazionale per il Dialogo Interreligioso e Interculturale sponsorizzato dall’Arabia Saudita (KAICIID). Ricordo infine le numerose dichiarazioni da parte dei massimi esponenti religiosi musulmani per sconfessare episodi di violenza e per promuovere atteggiamenti di pace.
Non è tutto oro ciò che brilla, ma si tratta piuttosto di avviare e di incentivare dei processi che smascherino la violenza per quello che essa è e non le forniscano motivazioni religiose; si tratta di puntare sui valori condivisi dalle religioni senza sminuire ciò che esse legittimamente propongono di differente. Ciò che è diverso va accolto e rispettato; su ciò che è comune si può lavorare insieme. È ciò che è accaduto ultimamente con il documento sulla fratellanza umana firmato da Papa Francesco e dal Grande Imam di al-Azhar Ahmed al-Tayyeb il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi. La diversità rispetto alla miriade di documenti precedenti nati da convegni più o meno riusciti o prodotti all’interno di una delle religioni, è che questo documento è stato preparato da due commissioni che hanno “lavorato insieme” durante un intero anno. Questo significa fiducia e stima reciproca, volontà di ripercorrere, senza snaturarle, le rispettive tradizioni religiose reinterpretandole in funzione della situazione presente, sotto l’egida di due autorità di assoluto prestigio internazionale. Dall’alto della loro autorità, inoltre, Francesco e Ahmed al-Tayyeb si sono impegnati a diffondere il medesimo documento presentandolo a tutte le istanze politiche e legislative internazionali e a farlo diventare strumento di studio nei rispettivi centri di ricerca e di formazione. Basta leggerlo per accorgersi delle profonde operazioni ermeneutiche sulle rispettive tradizioni religiose, come quelle sulla libertà religiosa e la piena cittadinanza, e il deciso smarcamento dalla violenza in nome della religione. Che anche in questo caso si tratti dell’avvio di un processo, è confermato dall’istituzione di una speciale commissione per l’attuazione del documento, che tende ad allargarsi a membri di altre religioni, come sembra sia già avvenuto.
Lavorare insieme, dunque, con fiducia reciproca, su valori condivisi. Questa è la metodologia concreta che, se Dio vuole, potrà portare alla pacificazione tra le religioni mediterranee.
Gli ostacoli principali su questa strada, a mio parere, restano due. Il primo è che questi passi di cui ho parlato restino confinati solo a una élite e che non abbiano una ricaduta – come direbbe il compianto Cardinale Tauran – a livello della strada; i mezzi di comunicazione dovrebbero fare molto di più in questo senso. Il secondo è la frammentazione delle religioni, con la questione importante della rappresentatività. Ribadisco: si tratta di processi avviati, che si spera diano frutto nel tempo.
Concludo ritornando a Papa Francesco e al suo discorso di Napoli, nel quale egli richiama il compito per i cristiani di conoscere e di studiare sia l’ebraismo sia l’islam. La conoscenza serena dell’altro dovrebbe portare a “cercare una convivenza pacifica dialogica. Con i musulmani siamo chiamati a dialogare per costruire il futuro delle nostre società e delle nostre città; siamo chiamati a considerarli partner per costruire una convivenza pacifica”. Forse sarà così possibile per i cristiani della sponda settentrionale guardare alle sponde meridionale e orientale del Mar Mediterraneo senza chiusure pregiudiziali che impediscano “uno stile di vita e di annuncio senza spirito di conquista, senza volontà di proselitismo – questa è la peste! – e senza un intento aggressivo di confutazione”.

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