1 marzo 2020

Mediterraneo: rapporto tra migrazioni, globalizzazione e esclusione sociale

L’approccio interculturale presuppone che le culture si aprano e si arricchiscano reciprocamente in un’interazione dinamica e creativa, nel rispetto delle proprie identità.

di Marino D’Amore
Nella stagione storica del progresso e dell’innovazione tecnologica l’immigrazione è ancora un fenomeno imprevedibile, complesso, in grado di mutare la morfologia dell’esistenza antropica sul nostro pianeta. Essa rappresenta un processo attraverso cui una massa di individui è costretta ad abbandonare il territorio di appartenenza divenuto invivibile a causa di criticità quali persecuzioni politiche, religiose, o guerre, nella speranza di ottenere condizioni di vita migliori. 
L’iniziale impostazione umanitaria del paese di accoglienza abdica a favore del fatale parallelismo, alimentato da determinate parti politiche e amplificato dai mass-media, tra fenomeni migratori e criminalità tout court. Una congruenza, sociale e semantica, spesso infondata, che s’inietta prepotentemente nelle credenze di un’opinione pubblica acritica, abbandonando qualsiasi dinamica valutativa narcotizzata da venti populisti e sovranisti. Ogni generalizzazione è pericolosa e superficiale, tuttavia le problematiche che emergono, in relazione all’insediamento e al radicamento su un territorio di etnie diverse sono diverse: i bisogni primari dei migranti, la ghettizzazione, le differenze culturali, il deficitario inserimento sociale e tra queste, non ultima per importanza, è da segnalare la presenza di una potenziale minaccia terroristica. 
La percezione della sicurezza di affievolisce e cerca nelle nuove comunità il capro espiatorio contro cui abbattersi. In questo modo si neutralizza la comunicazione trans-culturale e l’interazione autentica tra etnie e religioni, riducendo al minimo anche la possibilità di un incontro diretto, del face to face con l’altro, di una reciproca e fattuale comprensione. Secondo mere dinamiche meccanicistiche la ghettizzazione e la vessazione sociale spingono ad abbracciare ideologie fanatico-religiose che promettono il riscatto, se non in questa vita in quella successiva. A questo si aggiunge la stigmatizzazione di intere compagini sociali in base a caratteristiche ritenute fortemente identitarie che li rendono diversi. Ne consegue l’alienazione forzata di individui percepiti come anomali, isolati dal corpus comunitario a cui vorrebbero aderire, ma dal quale sono stati ostracizzati. Un oltraggio immeritato, come lo definisce Bauman, che richiede e giustifica una vendetta destinata a ribaltare il giudizio della società e tornare in possesso del rispetto indebitamente rubato (Bauman, 2005).
La pessima gestione del fenomeno migratorio ha vanificato tutti i tentativi d’integrazione generalmente intesa. Il multiculturalismo racchiude semanticamente un concetto di società in cui più culture riescono a realizzare una convivenza sostenibile. Tale concezione, fondata sul rispetto reciproco tra gli attori in gioco, è figlia dell’intenzionalità omologante dei processi di globalizzazione e del suo dialogo con la glocalizzazione e le sue specificità, in cui lo scambio, l’interdipendenza tra gruppi, etnie e minoranze in particolare, si contestualizzi all’interno di attualizzazioni identitarie, che rifuggano la forzata adesione a una cultura dominante ma al contempo l’arricchiscano di contributi peculiari permeati di appartenenza. Tuttavia le criticità e il modello d’integrazione sopracitato, potrebbe non avere un effetto inclusivo ma escludente che, di fatto, negherebbe a tali minoranze la loro partecipazione alla società, alla cultura nazionale, transnazionale e globale. In termini operativi le politiche multiculturali avrebbero aumentato la frammentazione, catalizzando la parcellizzazione fra le componenti della società. Esse, in alcune loro declinazioni sarebbero fautrici della loro nemesi speculare e al contempo contradditoria: il monoculturalismo. La soluzione multiculturale consiste nel permettere a ogni singola cultura di esprimersi liberamente all’interno dei limiti determinati da essa stessa, limiti che rappresentano il perimetro che ne sancisce la natura assoluta e indipendente e la esenta dai doveri di relazione e interazione con le altre. Storicamente alcuni periodi storici sono stati particolarmente fertili per queste commistioni: ad esempio il medioevo islamico, dove gli arabi svolgevano un ruolo di mediazione culturale rendendo il bacino del Mediterraneo una piattaforma di collegamento tra diverse culture; quindi il rinascimento europeo che con il carattere inclusivo tra popoli diversi ha preconizzato il sistema-mondo di Wallerstein come cifra socioculturale dei nostri tempi. Le culture, infatti, sono realtà fluide, figlie della società liquida baumiana, i cui componenti interpretano e rinnovano le loro tradizioni, declinandole all’interno di un mutamento che è conseguenza delle loro interazioni continue. L’incontro tra tendenze globali e rivendicazioni locali dicotomizza tale processo di cambiamento: la diffusione omologante di un modello occidentale, sia sul piano economico che culturale, si contrappone all’emersione di rivendicazioni identitarie che si esplicano e si innestano tra tradizione e modernità. Il concetto di multiculturalismo è complesso e, secondo dinamiche metonimiche, si compone di diversi elementi concettuali. In primo luogo è bene sottolineare che ogni cultura è eziologicamente multiculturale perché in essa sono riscontrabili contaminazioni, commistioni, sedimenti provenienti da epoche, luoghi e da popoli diversi: il cristianesimo è un’appartenenza significativa e caratterizzante dell’identità europea, anche se la sua origine è rintracciabile nell’Oriente, semitico e alcuni dei sui tratti peculiari sono nati dalla commistione con culti pagani di diversa provenienza. In secondo luogo, con il termine multiculturalismo possiamo indicare la coabitazione territoriale tra diversi gruppi linguistici, culturali, religiosi. È necessario, in questo senso, attivare strumenti cognitivo-interpretativi per decodificare la complessità di contesti spaziali che spesso vengono ideologicamente ridotti ad entità monolitiche, indistinte e impermeabili, sottovalutando le loro dinamiche dialogiche. Altro elemento da valutare, citando Khanna, il confine nazionale fisico o politico è rigido, quello culturale è fluido parafrasando Bauman: comunità diverse possono avere consuetudini culturali simili, mentre altri che vivono nello stesso territorio possono essere, nel loro background valoriale, profondamente diversi. La cultura vetero-ideologica degli stati-nazione viene detronizzata dalla pluralità dinamica degli elementi che costruiscono identità proteiformi e dematerializzate, il cui ciclo di vita si riduce sensibilmente. In terzo luogo, ogni società è intrinsecamente multiculturale, perché in essa coesistono diversi sistemi valoriali che confliggono o si confondono. In Europa, ad esempio, coabitano culturalmente visioni della famiglia, posizioni contrapposte su temi universali come la pace o la guerra, organizzazioni politiche democratiche contrapposte specularmente alle loro nemesi antidemocratiche, fino ad arrivare all’eterna dicotomia, valoriale e continentale al contempo, tra laicità e religione. Inoltre i rapporti tra culture sono spesso caratterizzati da asimmetrie di potere: un centro dominante che egemonizza e sottomette sterminate periferie sociali e culturali. Gli immigrati arrivano prevalentemente da quest’ultime con il desiderio di intraprendere una socializzazione anticipatoria con intenti preparatori a un modello emancipatorio che, di fatto, non avviene mai, sostituito da uno escludente che ghettizza e amplifica le divisioni. L’incombenza e la velocità delle trasformazioni sociali in atto richiedono soluzioni diverse e innovative, figlie di un processo interculturale. L’intercultura catalizza una dinamica estensiva dei confini della democrazia tout court attraverso l’attualizzazione di un modello partecipativo e condiviso, fondato sul riconoscimento e il rispetto delle differenze, che miri alla realizzazione di una comunità basata su una simmetria necessaria per creare spazi di negoziazione e gestire le trasformazioni sociali in atto, che miri a una coesione sociale duratura e stabile. La visione interculturale è una forma di dialogo tra realtà diverse; essa comprende tutte quelle risorse, individuali e comunitarie, che consentono uno scambio comunicativo efficace e opportuno tra soggetti che provengono da paesi differenti. Spesso intercultura è sinonimo di multietnicità, poiché la comunicazione e la collaborazione tra individui, associazioni o stati con culture diverse non avviene solo a distanza, ma si verifica anche all'interno di un medesimo contesto fisico, di una società multietnica appunto che mette in relazione realtà diverse per crearne una nuova, condivisa e ricca di nuovi valori e contingenti significati. Come ideologia e dottrina politica, esso si basa su un immaginario collettivo secondo cui ogni cultura deve essere considerata pari a ogni altra, sia da un punto di vista culturale sia legislativo. In linea con tale impostazione nei Paesi anglosassoni alcuni reati contro la persona vengono ormai depenalizzati o trattati con esenzioni di pena perché́ commessi in base a consuetudini di culture particolari che sostanzialmente giustificano quei comportamenti. Le culture di appartenenza non sono immobili ma evolvono come universi simbolici mobili, che si intrecciano e si condizionano reciprocamente. L’approccio interculturale presuppone che le culture si aprano e si arricchiscano reciprocamente in un’interazione dinamica e creativa, nel rispetto delle proprie identità. Tale modalità di azione intende promuovere il rispetto del pluralismo, come l’approccio multiculturalista, ma anche concretizzare momenti d’intesa di armonizzazione tra le differenze, cominciando, ad esempio, dalla formazione scolastica per stimolare istanze educazionali che valorizzino le più significative esperienze storiche di dialogo e coesistenza tra culture. Il modello francese si palesa come universalista e assimilazionista, fondato sui diritti individuali: esso postula l’adesione alla cultura dominante come unica via per integrarsi in una realtà socioculturale che mette oggettivamente in discussione la praticabilità di questo modello. Anche nel caso della Gran Bretagna le politiche multiculturaliste odierne mostrano i residui dell’epoca coloniale, una filosofia di controllo indiretto fondata sulla mancata ingerenza nel diritto e nelle consuetudini locali, delegando il controllo a rappresentanti delle comunità eletti come interlocutori affidabili nell’ottica di un sostanziale mantenimento delle specificità culturali, etniche, religiose. Questo modello si può quindi definire multiculturale, ma a contempo comunitario: nel senso che l’appartenenza a una determinata comunità rappresenta il presupposto per ottenere un trattamento giuridico diverso che riconosce legittimità politica e giurisprudenziale a realtà collettive, che si differenziano dal diritto comune. Nel caso francese neutralizzare la differenza ha significato concretizzare la possibilità di integrazione solo per coloro che consapevolmente abbracciavano la cultura autoctona rinunciando alla propria. Risultato, rafforzando l’esclusione sociale e la ghettizzazione per tutti gli altri. In Gran Bretagna invece la valorizzazione della diversità ha parcellizzato la società catalizzando alla creazione di realtà comunitarie parallele, dove più che l’integrazione e il dialogo tra le diverse appartenenze si persegue il controllo sociale. Manca in entrambi i modelli quello scambio interazionale tra le componenti sociali che dovrebbe costituire il corollario di un reale intento comunitario e partecipativo alla vita economica, culturale, istituzionale. L’Italia è ancora in tempo per scegliere un modello d'integrazione, diverso da quelli sopracitati e da quello funzionalista della Germania che punta solo sull'inserimento dei migranti nel mercato del lavoro, negando loro il diritto di partecipare alla vita politica e di acquisire la cittadinanza. Le classi dirigenti europee per anni hanno rifiutato la crisi strutturale della civiltà occidentale, solo recentemente alcuni leader hanno compreso come l’assunzione acritica del paradigma multiculturalista ha condotto i governi del continente a superficialità e sottovalutazioni fatali sui temi dell’immigrazione, dell’integrazione, delle politiche della sicurezza, favorendo il reclutamento terrorista e minando la percezione della sicurezza delle sue popolazioni, causa di dinamiche discriminatorie ed escludenti.

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