1 marzo 2008

Dio nelle Parole: l’esperienza ebraica

Come terreno privilegiato dell'incontro tra Dio e l'uomo, la Bibbia è soprattutto dialogo all'interno di un discorso che vede da una parte un “Io” e dall'altra un “tu” che risponde.

di Marica Dal Cengio

“Amerai il signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le forze”. Migliaia sono i precetti che il Dio dell'Antico Testamento impone come obbedienza incondizionata. Eppure questi precetti assumono i caratteri della meditazione quando sono profondamente affissi nel cuore dell'anima; sono parole che debbono accompagnare ogni gesto e ogni sguardo dell'uomo.
“Non esiste un processo contemplativo che non parta da una meditazione della parola divina”. La parola divina espressa dal linguaggio è la verità nel senso originario ebraico ed è il fondamento anche della Quabbalah ebraica.
Quabbalah significa, alla lettera, tradizione, non è il nome di un determinato sistema di dottrine, piuttosto di un insegnamento religioso che dall’epoca talmudica (V secolo d.C), fino ai giorni nostri ha avuto un’ininterrotta continuità storica.
Tale tradizione si basa sul convincimento che la lingua, la sua lingua, cioè l'ebraico, non possiede solo i caratteri dell'espressione umana – ovvero che non sia stato prodotto convenzionalmente affinché gli uomini possano intendersi tra loro – ma che, essendo essa sacra, rechi l'impronta di Dio.
Nel linguaggio, dunque, sarebbe presente qualcosa che va oltre la sua forma di espressione: qualcosa che si mostra solo per simboli e che rappresentando la più profonda essenza spirituale del mondo, ha un valore mistico: la lingua raggiunge Dio perché procede da Dio.
Il mondo della Quabbalah è un mondo di simboli in cui tutto si rispecchia in tutto, in cui la Torah non è semplicemente un testo sacro, ma la parola di Dio cristallizzata, in cui ogni lettera è una concentrazione di energia trascendente con significati che vanno al di là di una comune interpretazione letterale. E l'uomo può accedere a questa energia attraverso la Kavannah, la giusta attenzione o giusto spirito. La Kavannah secondo i cabalisti, conferisce ai riti ed alle preghiere tradizionali un nuovo spessore e significato dando loro valore ed efficacia; permette, cioè, ad un atto o ad un gesto comune, di diventare autentici. Senza questa intenzione l'uomo non potrebbe mettersi in contatto con il divino: essa “non si appoggia su cerimonie esteriori ma si fonda interamente sull'espressione dei sentimenti personali di ogni singolo individuo che vi partecipa. Per questo, colui che prega deve considerare se stesso come se la Presenza di Dio gli stesse di fronte e deve dirigere il suo cuore verso il cielo”.
Le fonti tacciono sull'epoca e sul modo in cui è iniziata questa mistica della preghiera: forse risale ad un periodo anteriore alle crociate; certo l’enorme valore attribuito alla esatta dizione dei testi testimonia una profonda consapevolezza della parola e del suo intimo potere magico. Abraham Abulafia, famoso cabbalista dell'XIII secolo, insegnava alcune tecniche meditative basate sulla ripetizione del nome di Dio e sulle lettere dell'alfabeto ebraico. La combinazione delle lettere e l'ordinata meditazione su di esse rappresentava per Abulafia, la “logica mistica”, ovvero “l'intima armonia del pensiero nel suo movimento verso Dio”. Da qui la profonda convinzione che ogni lingua parlata fosse composta di lettere sacre che il mistico – attraverso una recitazione delle stesse e il controllo della respirazione, accompagnato da precisi movimenti della testa e delle mani –poteva usare per comunicare con Dio. Questo perché ogni lingua deriverebbe dall'ebraico, sarebbe cioè una sua corruzione restando tuttavia affine ad esso.
Il contatto con Dio, devekuth, non è però automatico: la pura intenzione e la conoscenza delle tecniche da sole non bastano. La tradizione della Quabbalah è anche ricezione di un sapere, cioè di un'esperienza che solo alcuni sono in grado di trasmettere, è l'atto che fa di qualcuno un mequbbal cioè un “recipiente” capace di ricevere questo sapere, e ugualmente sottoposto a molte cautele e restrizioni, in una parola: segreto.
Come terreno privilegiato dell'incontro tra Dio e l'uomo, la Bibbia è soprattutto dialogo all'interno di un discorso che vede da una parte un “Io” e dall'altra un “tu” che risponde.
Colui che prega si rivolge al Signore in seconda persona, in particolare con il nome ineffabile di YHWH. “Se dirigi il tuo cuore nella preghiera, sii lieto di sapere che la tua preghiera è ascoltata”; ma è bene ricordare che la creatura non ha alcun diritto sul Creatore. Sperimentare Dio come un “Tu” che sta davanti significa rivolgere l'attenzione come ad una persona e questo, come tutti i concetti riguardanti Dio, rischia di denigrarlo allo stato di oggetto.
“Dio non è semplicemente colui che sfioriamo quando siamo ai limiti di noi stessi: al contrario, egli è il fondamento e il centro della nostra esistenza e, sebbene possiamo raffigurare noi stessi che tendiamo a Lui oltre la sera della nostra esistenza quotidiana, non di meno partiamo da Lui e restiamo in Lui, come fondamento stesso della nostra esistenza e realtà”.
La nostra rappresentazione di Dio deve piuttosto essere decifrata e stemperata continuamente mediante un’esperienza personale di fede: “Dio giorno non è una persona, personalissimo è il suo modo di farsi incontro a noi.
La grande voce di Dio parla del silenzio, della mitezza, quando l'uomo arriva a dominare le sue agitazioni; la voce che afferma è un lieve sussurro, una brezza leggera.
Silenzio non significa tanto assenza di parola, quanto espressione di uno stato interiore, di una profondità e pienezza in cui la Natura può parlare; la Natura, infatti, è muta per chi la copre con il rumore del proprio vaniloquio. Non a caso, spesso, è il deserto ad essere identificato come l'uomo, luogo di Dio per eccellenza: un nulla fatto di pietra e di sabbia dove solo la voce del vento sembra viaggiare indisturbata poiché nessun ostacolo si frappone fra il suo andare e venire. In ebraico il deserto è midbar, il luogo del silenzio, che contiene dentro di sé la parola davar e le dieci parole aseret ha-dibberot, ovvero i Dieci Comandamenti
Il vento ruach non è solo un fenomeno atmosferico, è piuttosto uno dei modi con cui Dio crea e governa il mondo: ruach è qualcosa in movimento capace di mettere altre cose in movimento.
Ci rimane una poetica interpretazione di Meir Ibn Gabbay (XIII secolo): “Quando le corde di due strumenti sono accordati, è sufficiente che una vibri perché l'altra si metta a cantare; quindi poiché Dio è silenzio in quale altro modo l'accordo dell'anima con Dio potrebbe esprimersi se non con il silenzio?”.

Tratto da “ Natura e Benessere” N°16 edito da F.N. Editrice srl

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