3 aprile 2025

Lontane da Gaza

di Emma Garroni*

La stanza risuona di voci: arabo e inglese si mescolano nei sorrisi e nelle parole cordiali riservate a quelle persone che si ha davvero voglia di conoscere.

Ci troviamo a Betlemme, nell’ufficio di Pro Terra Sancta, dove le donne della città imparano a cucire e a ricamare grazie a un corso di formazione online tenuto da Maha, una ragazza di Gaza rimasta bloccata in Egitto dopo lo scoppio della guerra. Maha si è reinventata, trasformando la sua attività di artigiana in un corso erogabile digitalmente, capace di annullare le distanze e le barriere della guerra.

Maha non è l’unica cittadina di Gaza costretta a un esilio non voluto: tra le donne che siedono in questa stanza ce ne sono tre che vengono da Gaza e che ora non possono più farvi ritorno. I veli colorati incorniciano i loro volti, segnati dal dolore e dalla forza necessaria a rimanere salde.

«Siamo arrivate a Betlemme prima dello scoppio della guerra», racconta Najiya, «e ora non possiamo più tornare».

Najiya ha ventiquattro anni e una figlia di un anno, Hana, affetta da gravi problemi cardiaci. È per Hana che Najiya è qui: «A Gaza non ci sono strutture adatte a garantire a mia figlia le cure necessarie. Inizialmente siamo andate al Tel Hashomer Hospital di Tel Aviv, dove mia figlia è stata sottoposta a un’operazione a cuore aperto. Le hanno impiantato una batteria cardiaca per aiutare il suo cuore a sopravvivere». Lo sguardo di Hana è limpido, e il suo sorriso trasmette l’innocenza di tutti i bambini mentre la madre la tiene tra le braccia.

«Anche mio figlio Omar è stato operato al cuore», interviene Fawziyya, «perché è nato con solo metà cuore funzionante».

Tutte e tre le donne condividono una storia simile: un figlio malato, la necessità di curarlo, i viaggi da un ospedale all’altro, e poi l’impossibilità di tornare. «Siamo passate anche noi per il Tel Hashomer per curare l’infezione all’occhio di mia figlia Nour, ma non riuscivano a trovare le giuste medicine. Nour ha solo sei anni e mezzo», sospira Dima. «Siamo state trasferite poi ad Ashdod, e infine qui, a Betlemme, dove siamo costrette a rimanere».

«Se uscissimo da Betlemme per tornare nella nostra città, dovremmo accettare di non poter più lasciare Gaza, di non poter più tornare qui».

Najiya, Fawziyya e Dima si guardano con un’intesa che solo la condivisione di un dolore comune può dare, una comprensione che prescinde dalle parole. «Non possiamo permettercelo: i nostri figli hanno bisogno di cure, non possiamo rischiare di non tornare a Betlemme. Dobbiamo aspettare che ci diano i permessi» – «il che significa aspettare che la guerra finisca».

Najiya e Dima vorrebbero tornare a Gaza: «Ho perso quasi tutto: la mia casa è andata distrutta, mio fratello è morto in questa guerra; però è lì casa mia, è quella la mia terra».

Najiya rimane in silenzio, le sue parole sospese. Poi Dima prende la parola: «Io tornerei a Gaza subito, anche se mi dessero il permesso mentre la guerra è ancora in corso, perché ho i miei figli lì». Fa una pausa; negli occhi si legge lo strazio di una madre che sa di non poter fare altrimenti. «Ma non posso farlo: condannerei Nour a una morte certa. È dura, molto dura».

Fawziyya tace, mentre le altre raccontano il loro desiderio di tornare. Il suo sguardo è profondo, quasi ferisce chi lo incrocia. Poi spiega: «Io no, non tornerei indietro. Non ho più niente a Gaza: la mia casa è distrutta, mio marito è morto da dieci anni; e questa guerra mi ha portato via anche i miei figli. Ne avevo cinque: ne sono morti quattro, sotto le bombe e gli attacchi armati. Mi resta solo Omar».

Abbiamo dato nomi di fantasia a queste donne coraggiose, per tutelare la loro sicurezza. A Fawziyya abbiamo dato il nome di Fawziyya Al-Sindi, poetessa araba del Bahrein, i cui versi emanano la stessa dolorosa fermezza:

Per chi è l’azzurro di questo abito

che ha le vertigini come il fondo del mare

su quale ti abbandoni rapidamente?

È senza esitare

che indossi quel che assomiglia al sangue qualora lui dovesse

morire

non sai che si tratta di inchiostro sprecato?

[…]

Per chi, per chi combatti?

«Certo che mi manca Gaza! È casa mia. Perdendo Gaza ho perso la mia casa, non ho più alcun Paese, alcuna patria. Inizialmente sarei dovuta tornare, ma la guerra ha bloccato ogni strada. Ora devo pensare solo alla salute di Omar.»

Anche al piccolo Omar manca Gaza, ma «ha paura di tornarci». Quando le chiediamo che cosa lo spaventi, se siano le immagini che vede in televisione o le notizie che ascolta, Fawziyya sospira: «Non ha paura delle immagini che vede nelle notizie, ma di ciò che ha vissuto e conosciuto. Omar ha perso i suoi fratelli in questa guerra: è questo che lo spaventa».

«Il bisogno più grande ora è la pace, per tutte le persone e per tutti i popoli. E poi la salute di Omar.» È questa la preghiera di Fawziyya a Dio: «Ho paura di perdere Omar, è il mio ultimo figlio, tutto ciò che mi resta. Io non temo per me,» sottolinea, senza più trattenere le lacrime, «ma temo per Omar, per la sua malattia».

Dietro la donna ci sono due quadri appoggiati su un mobile: dipinti su tavole di legno dai bordi irregolari, rappresentano due volti di donne che fissano chi le osserva. Sono sguardi di accusa? O di richiesta? Forse chiedono di essere viste come loro guardano, senza essere ignorate come figure lontane a cui accadono tragedie che, in fondo, sembrano riguardare sempre qualcun altro. Forse soffrono, come soffre Fawziyya: i suoi occhi, pieni di dolore, raccontano la storia di una donna che ha perso tutto. Tutto, tranne la fede.

Tuttavia, i suoi occhi non accusano nessuno. Forse sono le donne nei dipinti ad accusare la nostra indifferenza. Forse ci chiedono solo di ascoltarle, di non lasciare che le lacrime di una madre e le sue parole di fiducia in un Dio che continua a stringerla tra le sue mani cadano nel vuoto.

Le tre donne di Gaza trovano un’isola di pace nella loro incrollabile fede. «Ciò che è scritto per te accade, e ciò che ti accade è scritto per te. Tutto avviene secondo la volontà di Dio,» spiega Dima. «I nostri familiari che non ci sono più ora sono in Paradiso, e io prego sempre che lo siano davvero.»

«Non so perché stia accadendo tutto questo,» continua Najiya, «ma spero che un giorno sarà chiaro come tutto ciò sia servito a qualcosa: per la liberazione della Palestina».

«Vi ringraziamo tanto per questa attenzione che ci dedicate, per l’interesse verso di noi e la nostra storia. Ci fa sentire viste, sostenute, non abbandonate.» Fawziyya acconsente persino a farsi fotografare: «Raccontare la nostra storia significa, in qualche modo, farci giustizia, far sentire finalmente la nostra voce».

Dima, in particolare, si mostra grata per la possibilità di ricevere supporto psicologico per sé e per la sua bambina: «Anche a Gaza ora servirebbe soprattutto un aiuto psicologico: i genitori non sanno più come prendersi cura dei figli, schiacciati dall’ansia di non riuscire a nutrirli o di non essere per loro un porto sicuro. Possiamo sopravvivere senza cibo, ma non senza il sostegno di chi amiamo».

Accanto ai bisogni primari, per sé e per chi è rimasto a Gaza, il supporto psicologico e affettivo e la fede rimangono i capisaldi della speranza. «Prego per la serenità mentale e spirituale mia e di mia figlia,» racconta Najiya. «Non ho bisogno di altro. I miei desideri si sono ridotti: non ho abbastanza soldi per le spese mediche o per avere una casa anche il mese prossimo. Prego per la pace e per le persone di Gaza, che Dio continui a star loro vicino. E prego che chi non c’è più ora si trovi in Paradiso, accanto a Lui.»

* Ufficio Comunicazione di Pro Terra Sancta (sede di Milano)

Pro Terra Sancta è un’associazione che promuove e realizza progetti di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale e naturale, di sostegno alle comunità locali e di aiuto nelle emergenze umanitarie in Terra Santa. Ha sede a Milano, con uffici a Gerusalemme, Betlemme, Beirut, Damasco, Aleppo e Amman.

Tra i vari progetti attivi a Betlemme nell’ambito dell’assistenza e della formazione per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, spicca il progetto Betwomen: un’iniziativa che coinvolge le donne di Betlemme. Nel centro Dar al-Majus, gestito da Pro Terra Sancta, queste donne hanno sviluppato un’attività commerciale basata sulla tessitura e sulla produzione di prodotti artigianali locali, realizzati secondo le tradizionali tecniche palestinesi.

I prodotti vengono venduti attraverso il bazar del Dar al-Majus, offrendo alle donne una fonte di sostentamento essenziale per mantenere sé stesse e le proprie famiglie. Pro Terra Sancta, infatti, si impegna a costruire una rete virtuosa intorno ai beneficiari, promuovendone l’autosufficienza e lo sviluppo di competenze utili per il loro inserimento lavorativo.

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