di Francesca Radaelli (dal giornale online “Il Dialogo di Monza”)
L’incontro, condotto da Carlo Chierico di UPF Monza, ha visto la partecipazione di Thuzar Linn, esponente della comunità birmana in Italia, di Albertina Soliani, ex senatrice e presidente onoraria dell’Associazione per l’Amicizia Italia Birmania, e di Roberto Rampi, parlamentare per due legislature.
L’appello di Kim Aris
Kim Aris, grazie alla traduzione di Mauro Sarasso, ha denunciato di fronte ai presenti la situazione in cui versa il suo paese dal 2021, in seguito all’ultimo colpo di stato che ha visto il ritorno al potere della giunta militare: “Da quel momento ad oggi”, ha detto, “i numeri parlano di 6mila persone uccise, di una ripresa delle esecuzioni capitali, di 20 mila prigionieri politici, tra i quali è compresa mia madre: due di loro ogni mese muoiono in prigione, altri sono sottoposti tortura e lasciati senza aiuti medici”. La violenza dei militari si abbatte sempre più sulla popolazione civile. “Sono state bombardate città e anche campi profughi: più di 3,5 milioni di persone hanno dovuto lasciare le proprie case e rifugiarsi nelle foreste. Oltre 20 milioni di persone (circa metà della popolazione) hanno bisogno di assistenza umanitaria”.
In questo scenario si è inserito il terremoto di magnitudo 7,7 che ha colpito il Paese nel marzo del 2025: “I militari hanno negato e impedito l’arrivo degli aiuti umanitari, in piena violazione del diritto internazionale. I metodi del regime costituiscono crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’ONU ha documentato torture, abusi sessuali, esecuzioni sommarie di prigionieri”. Un’ulteriore misura che ha colpito la popolazione è stata la riattivazione della coscrizione obbligatoria, che ha portato molti birmani a fuggire per sottrarsi all’obbligo di arruolarsi nell’esercito.
Intanto cresce la preoccupazione per la madre di Kim, Aung San Suu Kyi, incarnazione delle aspirazioni democratiche della Birmania: “E’ in prigione ma non sappiamo dove”, riferisce Kim Aris, “l’ultima lettera risale a due anni fa. Ha 80 anni, le sue condizioni di salute sono serie, ha diritto di essere visitata da un cardiologo esterno, ma questo le è sempre stato negato. Il suo imprigionamento è il simbolo della brutalità di cui soffrono tutti i prigionieri politici del mio Paese”. E rimarca: “Il tempo dei discorsi di condanna è finito, abbiamo tutte le informazioni necessarie, ora bisogna agire”.
La giunta si avvale dei rifornimenti di armi e di carburante per i jet da parte di Russia, Cina, India. “Occorre imporre un embargo globale delle armi”, chiede Kim Aris, “aprire agli aiuti dall’esterno, sostenere il movimento birmano per la democrazia. Soprattutto, non dare legittimazione alle prossime elezioni, che avrebbero come unico risultato un rimpasto nella giunta militare”. In un contesto in cui tutte le voci di dissenso sono silenziate dalla giunta, Kim Aris chiede alla società civile di essere la voce del popolo birmano, anche a Monza.
L’analisi di Albertina Soliani
Nel suo intervento Albertina Soliani, esperta conoscitrice della situazione birmana e amica personale di Aung San Suu Kyi, allarga lo sguardo allo scenario geopolitico del continente asiatico, ma sottolinea anche il ruolo del popolo birmano: “Il Myanmar si può salvare se la Cina interviene per il suo interesse fondamentale che è principalmente economico e legato all’esigenza di preservare la stabilità politica nella regione. In Birmania il popolo resiste e lotta contro il regime dei militari. La resistenza, animata dai gruppi etnici, ha oggi liberato il 70% del territorio, anche se mancano le tre città principali, ancora presidiate dai militari. Nei territori liberati sono stati subito attivati servizi sanitari e scolastici”.
Per Soliani l’unica speranza di far trionfare la democrazia sta nell’elemento umano: “Le rivoluzioni riescono se sono animate da una forza spirituale, è importante che i ribelli mantengano un senso di umanità, che non diventino come gli oppressori che stanno combattendo. Questa è una profonda convinzione di Aung San Suu Kyi, anche oggi guardata dal popolo come un faro di speranza. Il titolo del libro da lei pubblicato è “Liberi dalla paura”: sostiene infatti che sia la paura a tenere in piedi le dittature. La paura dei potenti oppressori da parte del popolo, ma anche la paura di perdere il proprio potere da parte dei potenti”.
Per cambiare la situazione diventa fondamentale la spinta che muove le persone a protestare: “La gente che nelle scorse settimane è scesa in piazza, anche in Italia, ha sentito il bisogno di dire ‘con la disumanità io non ci sto’: è l’espressione di una coscienza umana e civile che si lega profondamente al concetto di democrazia. Anche la questione birmana potrebbe originare una mobilitazione della nostra società civile. La visita di Kim Aris è un modo per tenere accesa la luce nella notte che il mondo sembra stare attraversando: in Birmania, come in altri luoghi in cui domina l’oppressione, ci sono due possibilità: o si precipita ancor più nella violenza oppure si cerca di ritrovare la strada per un dialogo che solo i princìpi democratici possono garantire”.
A Roberto Rampi il compito di allargare ulteriormente il discorso alla questione più globale dei diritti umani: “L’idea che le grandi questioni si debbano gestire in maniera ‘pesante’, attraverso l’uso delle armi, non porta da nessuna parte”, esordisce l’ex parlamentare. “Trovare i buoni e i cattivi non risolve nulla. I diritti umani sono uno strumento che o funziona per tutti oppure non funziona. Bisognerebbe arrivarci con il cuore”, aggiunge, “ma se non ci si riesce, ci si può arrivare benissimo con la testa. Basta riflettere sulle questioni del nostro tempo per capire che non ha senso cercare di difendere la propria sicurezza nel proprio piccolo angolo di mondo a discapito degli altri, perché prima o poi questa sicurezza si perderà. Lo hanno dimostrato per esempio le questioni relative alla difesa dei diritti dei lavoratori in un mondo sempre più globalizzato”.
Rampi sottolinea come in questo momento nel mondo la guerra assuma sempre più le forme di una resistenza contro un esercito di Stato, proprio come accade in Birmania. La maggior parte degli uomini sulla Terra vive in regimi non democratici, privata della propria libertà: “E se non c’è libertà non ci sono diritti, perché una dittatura non garantisce diritti, fa solo concessioni”.
Soliani e Rampi delineano una situazione sempre più critica a livello globale, in cui anche le grandi democrazie (gli Stati Uniti su tutte) attraversano una profonda crisi democratica. “Ma spesso è proprio quando le cose vanno peggio che inizia il momento del riscatto”, sottolinea Rampi. “Lo stiamo vedendo proprio con l’azione delle nuove generazioni, che manifestano una forte radicalità nel loro desiderio di giustizia”.
Il ruolo della società civile
Questioni, quelle sollevate dagli interventi dei relatori, che hanno suscitato diverse domande e considerazioni da parte del pubblico. Al termine dell’incontro, la sensazione è che la palla debba in qualche modo passare anche a noi, cittadini di Paesi democratici. E alla domanda formulata in apertura da Carlo Chierico, su cosa possa fare Monza per la Birmania e su cosa possiamo fare noi, la risposta non può che essere: “Parlarne!”
Anche la società civile d’Italia e d’Europa può dare voce al popolo birmano, al suo desiderio di democrazia, alla sua resistenza all’oppressione. E’ questo il senso dell’azione di Kim Aris, la cui testimonianza ha raggiunto anche Monza: far sì che la comunità internazionale non dimentichi la vicenda di sua madre, oggi più che mai simbolo dell’aspirazione del suo popolo alla democrazia.
Nessun commento:
Posta un commento