Fra le tante
esperienze vissute nel novero dei miei tanti viaggi in giro per i
continenti del mondo, riveste una grande importanza, almeno per me,
quella vissuta per un periodo di dieci giorni in una riserva di nativi
indiani americani nell'anno 1978.
di Renato Piccioni
Questa riserva sorgeva ai confini fra il Canada meridionale ed il nord degli Stati Uniti e, in essa vivevano un centinaio di indiani Black Feet (piedi neri), originari delle terre del Manitoba.
Era l'estate del 1978 ed io, trovandomi a viaggiare nelle bellissime foreste ai confini fra il Canada e gli Stati Uniti d'America, avevo deciso di incontrare i nativi americani dei quali avevo sempre sentito raccontare le più svariate storie ma non ne avevo potuto avere la testimonianza diretta, sia delle loro usanze, che delle loro storie, che della loro civiltà.
Fin dall'arrivo all'ingresso della riserva ebbi una stretta al cuore perché mi resi conto che tutto intorno all’accampamento "indiano" era stata eretta una staccionata che ne racchiudeva alcune costruzioni in legno, alcune tende a forma conica in pelle (tapee), un negozio-emporio dove vi si poteva comperare di tutto come un piccolo supermercato, una costruzione dove era situato l'ufficio di polizia con a capo uno Sceriffo dei Ranger (polizia a cavallo), un negozio dove si potevano acquistare souvenir costituiti da prodotti dell'artigianato "indiano" ed una grande capanna del genere "wingwam" dove era stata situata la scuola per i bambini.
Il nome di "Black Feet" fu dato alla Nazione dei "Siksika" perché essi usavano mettere ai loro piedi dei mocassini fatti con pelle di bisonte anziché dei soliti mocassini fatti con pelle di daino, per cui, il colore nero della pelle dei bisonti, faceva apparire i loro piedi come se fossero neri, per cui fu dato loro questo nome buffo e strano.
M’incontrai con lo Sceriffo ( "indiano" anche lui), al quale spiegai la mia intenzione di soggiornare per qualche tempo presso di loro ed egli, molto cortesemente, mi accompagnò dal Capo Villaggio che mi accolse con molta cordialità e, dietro mio volontario compenso, mi accompagnò ad un tapee e mi disse che quella poteva essere il mio alloggio fin quando volessi rimanere con loro, poi mi invitò a seguirlo per invitarmi a consumare il pasto serale con la sua famiglia.
Fui presentato alla moglie, ai figli e alle mogli dei figli che, con i loro bambini, vivevano tutti nel grande wingwam familiare.
Il giorno dopo con uno dei figli, ci recammo a pesca lungo il fiume che costeggiava la riserva e a bordo di una canoa percorremmo il fiume, prima a favore di corrente e anche controcorrente per il ritorno, e, mentre uno di noi due pagaiava, l'altro pescava con canna, lenza ed amo.
Mentre si percorreva il fiume che scorreva con un moto molto placido, parlavamo pescando, ed io con le mie domande cercavo di avere tutte le notizie che potevo, per avere il più ampio ventaglio di informazioni sui nativi americani che essi chiamano “diné” e mai indiani.
Le cose che più mi colpirono furono le usanze, ma soprattutto la loro religione, perché la parte spirituale m’interessava molto conoscere.
Egli mi raccontò allora parlandomi del Grande Spirito che nella loro lingua chiamano Manitù, il quale dal cielo, era disceso a incontrare l'altra grande divinità che era La Madre Terra, per sollecitarla a fornire agli uomini tutto il loro fabbisogno perché avessero il nutrimento per il loro corpo e tutte le medicine per conservare la loro salute e per difenderli dalle malattie.
Mi spiegò che le loro genti non avevano libri cui affidare la storia del popolo né le loro conoscenze, per cui si tramandavano il loro sapere da padre in figlio per via orale. Nelle loro credenze c'era, molto forte, la consapevolezza che tutto il creato contenesse tutte le creature quali membri viventi della natura e che anche le rocce ed i sassi erano considerati esseri viventi e quindi con diritto al rispetto, ma il massimo apprendimento le nazioni dei "diné", lo ricevevano dall'attenta osservazione di tutto ciò che li circondava nella natura, nel cielo, nella terra, nei laghi, nei fiumi, nelle foreste, nelle praterie. Ogni albero, fiore o frutto, erano considerati creature viventi per cui, quando ne coglievano per il loro fabbisogno, essi prima si inginocchiavano davanti al fiore, frutto o pianta, e poi, con voce suadente, chiedevano loro il permesso di lasciarsi raccogliere. Quando si convincevano che ne avevano ricevuto l'autorizzazione, allora passavano alla raccolta ma non lasciavano il posto senza prima ringraziare per il permesso ricevuto.
Per meglio far si che io avessi capito, mi raccontò una bellissima fiaba, almeno io la credetti tale, anche se lui insisteva nel dirmi che non era fantasia ma reale storia vissuta.
Ecco, allora, che anch’io ve la voglio raccontare perché raccontandovi quella storia potrete capire anche tutto ciò che la mia memoria non mi aiuta a raccontarvi tutto a dovere.
Questo il racconto:
"Un giorno, un giovane diné, per istruirsi sulla natura che lo circondava, passeggia¬va nel bosco che si trovava vicino al suo villaggio. Guardava e osservava con attenzione tutto ciò che lo circondava e i segnali di vita che gli venivano dai vari animali e uccelli che vivevano fra quegli annosi alberi.
Vide e osservò, gruppi di bellissimi daini che pascolavano, coloratissime farfalle che gli volavano tutto intorno, conigli che correvano fra le freschissime erbe del sottobosco, frutta d'ogni genere che pendeva dai rami bassi di ombrosi alberi, grandi tacchini che volavano da un ramo all'altro.
Arrivato a una radura interna al bosco e, sentendosi un poco stanco del lungo peregrinare, si sedette all'ombra fresca di un grandissimo albero continuando ad osserva¬re la vita della natura, apprendendo come e perché gli uccelli per volare battono le ali, dove e come i daini vanno a nutrirsi, come i piccoli coniglietti giocavano a rincorrersi assieme con gli scoiattoli, le foglie degli alberi che si muovevano nella brezza del vento che fra loro frusciava dolcemente.
D'un tratto il suo orecchio percepì il picchiettare insistente che proveniva da un ramo alto dell'albero ai piedi del quale si era seduto.
Cercò con gli occhi di individuarne la provenienza e chi producesse quel rumore, e fra i rami distinse un bellissimo picchio dalla testa rossa che, con il suo becco, picchiettando su un ramo produceva dei fori su quel legno.
Ma, osservando più attentamente, si rese conto che il picchio non faceva dei fori qua e là in modo disordinato, ma ne faceva uno dopo l'altro ma in perfetto ordine in fila. Osservava la bravura del picchio e la diligenza che metteva nel suo lavoro ma, ad un certo punto il picchio smise e volò via, altrove, lontano.
Mentre con gli occhi seguiva il volo frullante del bellissimo picchio, udì all'improvviso come un dolcissimo suono provenire di tra i rami dell'albero ai piedi del quale sedeva. Si guardò attorno per scoprire la provenienza e chi producesse quel suono ma non vide nessuno e non riusciva a capire la sorgente sonora di quella dolce musica fino a quando, tornato a guardare dove il picchio aveva fatto i suoi fori, si rese conto che il vento, che si era levato più insistente di prima, passava attraverso quei fori e da quelli veniva la melodia bellissima che lo aveva affascinato.
Contò allora quei fori e vide che erano in numero di "sei " e non quattro, tre, cinque o sette, ma solo e soltanto sei.
Prese allora il suo "tomahawak" che teneva appeso alla sua cintola e si accinse a tagliare quel ramo per portarselo all'accampamento, ma in quel momento gli sovvenne la raccomandazione che il padre di suo padre gli aveva fatta tante volte:- "Prima di staccare un fiore, un ramo, un frutto, o raccogliere un sasso o un semplice filo d'erba, chiedi il permesso alla Madre Terra di poterlo fare".
Allora il giovane diné, s’inginocchiò, congiunse le mani in atto di preghiera e implorò la Madre Terra ed anche il Grande Albero di concedergli il permesso di raccogliere quel ramo suonante.
Mentre era raccolto in tale implorante richiesta, improvvisamente si udì un rombo di tuono e immediatamente un fulmine cadde fra i rami dell'albero e tagliò di netto il ramo suonante che cadde proprio vicino al giovane.
Prima di raccoglierlo egli ringraziò la Madre Terra e il Grande Albero che gli avevano dato quell'inequivocabile permesso e raccolse quel ramo che portava i sei fori fatti dal picchio.
Lo pulì della corteccia e delle foglie che aveva ancora attaccate, e poi con molta emozione portò alla bocca un'estremità del ramo e prese a soffiarvi dentro.
Con stupore e meraviglia sentì uscire dal ramo una dolce melodia e si rese conto che se chiudeva con le sue dita quei fori in modo alternato anche la musica si modulava in differenti tonalità pur mantenendo una voce quasi celestiale.
Quel giovane diné aveva potuto inventare il "Flauto" per fare musica al villaggio ma comprese anche che ciò era potuto avvenire solo con il permesso della Madre Terra e del Grande Spirito che avevano chiesto per lui al Grande Albero perché fosse esaudita la sua preghiera”.
Questa storia era esemplare per significare come le nazioni dei diné rispettino con pro¬fondo amore tutto il Creato che è stata opera del Grande Spirito e della Madre Terra per soddisfare tutto il fabbisogno delle nazioni dell'uomo.
Come ho già detto avanti io trascorsi una decina di giornate in quella riserva e sono tante le cose che ho capito di quella gente ma soprattutto il loro modo di nutrirsi nel rispetto della natura, la loro attenzione all'agricoltura dalla quale ricavano la maggior parte del loro sostentamento ma senza stravolgere i territori in cui vivono, il loro modo di andare a caccia per procacciarsi la carne ma cacciando solo quanto necessita e senza mai uccidere le femmine delle loro prede che invece rispettano e lasciano vivere in quanto produttrici di nuovi nati.
Basta pensare che ogni componente della nazione dei Piedi Neri, ma anche delle altre nazioni diné, portano sempre alla loro cintola un sacchetto contenente tre diverse semenze che loro chiamano "Le Tre Sorelle" e sono :- Semi di Zucca, semi di Fagioli, semi di Mais.
Questo perché nei tempi antichi essi si spostavano da un territorio ad altro territorio dopo che il primo era stato sfruttato per una semplice stagione e cioè, per dare modo a quel terreno di rigenerarsi naturalmente senza essere sottoposto a troppo sfruttamento con concimi o forzature di altro genere.
Per me sono state dieci giornate di "grande scuola di vita" più che di vacanza e da quella scuola ho appreso ad amare come fratelli tutti i componenti delle varie nazioni diné proprio perché, conoscendoli direttamente ho potuto apprezzarli e quindi a rispettarli ed amarli come miei simili.
Quando consideriamo popoli di cui non conosciamo ne l'origine, ne la storia, ne gli usi, ne i costumi, semplicemente come "selvaggi", commettiamo un gravissimo errore dovuto solamente alla nostra "ignoranza" , cioè alla nostra mancanza di conoscenza ma ci affidiamo solamente a pregiudizi e preconcetti, ma soprattutto alla supponenza che mettiamo nell'auto-giudicarci "migliori" in quanto i soli in possesso della "vera e unica superiore civiltà", mentre invece pecchiamo di arroganza e spocchiosità, assolutamente senza nessuna plausibile scusante se non l'ignoranza.
Giudicare popoli di cui ignoriamo tutto, con il metro delle nostre sole esperienze è sinonimo di arrogante opinione di noi stessi, ed è il nostro più grave errore.
Nessun commento:
Posta un commento