4 dicembre 2014

ESPERTA DELLA SOFFERENZA

Non è facile dare una risposta esaustiva al problema ‘immigrazione’ se non si prova sulla propria pelle. Si è un po’ tutti impreparati al fenomeno. Le stesse autorità politiche sono molto impreparate su come affrontare il problema. Riportiamo la testimonianza di una nostra collaboratrice e Ambasciatore di Pace la quale un paio di anni fa ci invio questa suo scritto.

di Rada Rajic Ristic 
Il dizionario, usando il suo linguaggio privo di affetto, dice: “Straniero è cittadino di un altro stato”, senza soffermarsi sulle dinamiche e sofferenze che questo cittadino dovrà sopportare e affrontare. La sottoscritta ha lo status di questa cittadina di un altro stato da ventun anni e vorrebbe iniziare la narrazione del suo lungo status con una poesia nata nel cuore, in un attimo di profondo abbandono alla malinconia, che di tanto in tanto la assale.

Lontano
Le albe non ci incontrano più
dalle nostre parti;
con il vento parliamo un'altra lingua
e non chiamiamo più le primavere
con lo stesso nome,
i bucaneve sono bianchi anche qui
ma non ci ricordiamo più
di andare a raccoglierli.
La vita ha cambiato la dimensione
ed ha cambiato pure noi.
Misuriamo le distanze in anni,
quanto siamo lontani da casa.
Ci pervadono le paure
e i dubbi ci stancano.
Ci accorgiamo che soltanto i fiumi
viaggiano con lo stesso passo.
Inseguiti dal tempo
corriamo verso il cuore della terra
incontrando lacrime e sorrisi,
i nostri e quelli degli altri,
incontrando albe e tramonti
lontano o vicino
da chi e da cosa?
Questo si chiama immigrazione.


   Il mio status inizia in una sera dell'ultimo giorno di autunno, il venti dicembre del 1989, una sera umida dalla nebbia veneta. Sono venuta nel bel paese per fare un giro turistico del Veneto, ma la fortuna, il caso o il destino, direbbero coloro che credono, ha voluto che proprio in quei giorni venisse fuori la legge Martelli sull'immigrazione e che, consigliata dai miei amici, facessi la domanda per il permesso di soggiorno. Il pezzo di carta di un paese in cui sono venuta per fare una vacanza, per poi tornarmene a casa dopo due-tre settimane, non mi faceva né freddo né caldo, come dicono spesso i vicentini, i miei vicini di casa. Le mie aspettative di vita, i miei sogni di una studentessa universitaria non erano quelli di restare in questo paese per fare la badante, o altri lavori che non erano all'altezza dei miei studi universitari, ma ben diversi, però ho imparato che nella vita non bisogna mai dire “mai”. Nel frattempo, nel mio paese, da semplici disguidi politici si arriva alle armi; in un paese dove tutto funzionava, dove tutto era gratuito, dal medico-dentista allo studio, dove tutto prometteva bene, si arriva alla crisi economica, all'inflazione astronomica; in pochi mesi crolla questa patria che mi ha dato tanto, che mi ha insegnato cos'è la dignità umana, che i principi morali vengono prima di tutto. Quando invece dalla persona esce fuori l'essere umano, questa diventa una belva; per noi la bontà e la solidarietà era tutto, l'imperativo categorico della nostra vita: d’un tratto si sono rivelate delle atrocità indescrivibili, la guerra fratricida ha devastato la nostra immagine di popolo, ci ha denigrato a tal punto che gli altri ci hanno applicato l'aggettivo diabolico, ci ha descritti come popolo senza pietà con il genocidio nel Dna. E io con questa immagine, costruita in breve tempo, dovevo camminare e vivere qui tutti i giorni, senza avere contribuito a questa macchia, che prendeva sempre più piede sugli schermi televisivi italiani; la guerra nelle case italiane entrava tramite gli schermi e le informazioni distorte, invece nelle nostre case entrava con le granate.
        La sofferenza di questa triste realtà ha fatto cambiare le mie giornate che diventavano sempre più cupe, non si distinguevano l'una dall'altra, tutte erano uguali e avevano il sapore dell'attesa di qualcosa che doveva succedere, ma che non succedeva. La pace era lontana dalle nostre case, dai nostri genitori, amici, conoscenti..; l'angoscia - come un monumento che ogni volta che lo guardi ti ricorda il passato - si era stabilita nella mia anima. I fatti macabri che accadevano nel mio paese mi congelavano il cuore dal dolore, in particolare quello di una donna medico, direttrice di un ospedale, che impartisce l’ordine di fare prelievi di sangue forzati ai pazienti e ai soldati serbi prigionieri. A causa di questo, essi muoiono, e, dopo la loro morte, gli organi vitali sono rimossi e venduti sul mercato nero. Per voi questa è una notizia, invece per me è un atto criminoso, un assassinio degno di una belva, non dell'essere umano e per giunta di una donna. Oppure il 7 gennaio 1993 quando l'esercito musulmano entra a Kravica, un piccolo villaggio serbo alle porte di Srebrenica, è il giorno più sacro per i cristiani ortodossi serbi, è Natale, tutti sono in casa per festeggiare la nascita di Gesù, la festa più sentita e celebrata dai serbi bosniaci, la gente viene sgozzata dai soldati musulmani come fossero maiali , ma poi i serbi si vendicano provocando la strage di Srebrenica. Mi chiedo come si può restare indifferenti quando nella tua patria la gente si sbrana, si sgozza, quando infuria l'odio immane, quando la vita non ha più un prezzo degno di una persona? Si dice che “la giustizia è cieca”, ma nella nostra guerra, non è solo cieca, ma è anche sorda e muta.
      Tutti i miei dolori li ho vissuti in silenzio, di cui mi pento amaramente oggi, ma ero anestetizzata dall'impotenza di fare qualsiasi cosa per la mia gente inerme, trovandomi lontano dalla soglia del mio paese. Dovevo subire le notizie, senza essere protagonista, di un conflitto che riempiva le pagine dei quotidiani e le trasmissioni televisive piene di disinformazioni. Con gli anni sono maturata; sono diventata un'esperta con la “e” maiuscola della sofferenza.
      Ho imparato ad amare e apprezzare tutte le diversità, sia quelle religiose sia le altre e con tanto orgoglio porto la fiducia che mi hanno dato con la nomina di Ambasciatrice di pace, il portavoce , per rappresentare la pace, l'unica via che porta alla felicità globale di questo mondo screziato dalle paure del diverso, dalla xenofobia, dalle guerre di potere e di predominio sugli altri, questo mondo che non posso accettare stoicamente, senza alzare la mia voce, chinando il capo davanti alle ingiustizie di Caino, proprio perché sono una madre e dal mio utero caldo è uscito un piccolo essere, mio figlio, della cui vita sono responsabile in prima persona, perché io sono una madre per scelta-non per caso, perché il figlio non deve mai scappare, il figlio si desidera, se uno non lo vuole - non deve farlo... Ho capito a mio scapito che una scelta esclude molte altre e che la sofferenza accompagna sempre le decisioni nel prendere o lasciare, dalle mie parti dicono che questa è la regola non scritta della vita.
    Ma ci sono anche delle pagine belle della vita, questo libro sempre aperto, in attesa che qualcuno ne legga con attenzione il suo contenuto e ne impari qualcosa sulle spese degli altri, meglio che sulle proprie, ho sentito spesso pronunciare queste frasi da tante persone, a me care. Dopo quattro lunghissimi anni la guerra nel mio paese finisce devastandolo e seminando morti da tutte le parti, nessuno ha vinto quella maledetta guerra, tutti sono usciti fuori da perdenti, coprendosi e coprendoci di vergogna.
       La più grande soddisfazione me l'hanno data gli alunni di IIIB della scuola media “Briosco” di Padova quando hanno scelto di portare agli esami le mie poesie, il fatto di aver capito il messaggio e la missione che compio attraverso gli interventi interculturali mi hanno fatto sentire maturare dentro di me le speranze che coltivo di poter trasmettere un'altra visione della guerra, come una belva feroce da abbattere. Le future generazioni devono abolire del tutto il concetto di violenza come modo di risolvere le situazioni di conflitto in questo triste mondo ma felice per una manciata di persone, per le quali le guerre sono fonti di guadagno, non fonti di morte come cerco di insegnare attraverso il messaggio dei miei versi, attraverso le metafore, queste figlie adorate della poesia. Per me le parole di Martin Luther King sono una specie d’imperativo categorico, un comandamento: “Abbiamo imparato a volare come gli uccelli, a nuotare come i pesci, ma non abbiamo imparato l'arte di vivere da fratelli”. La guerra non dovrebbe mai essere un affare come accade, ma è da condannare con tutte le forze e i mezzi. Ho capito dopo tanti anni anche le parole di mio nonno, trasformandole in poesia, messaggi di un'esperta della sofferenza.

Una volta 

Mio nonno mi diceva spesso
una volta,
che le cose più brutte della vita
sono la guerra e l'immigrazione;
mi toccarono entrambe.
E disse ancora: meglio perdere dignitosamente
che disonestamente vincere.

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