24 novembre 2012

Min-ghu-la-ba ( Ciao!) Min-ga-la-ba!

La fortuna di essere maestro (Hsaya) per qualche
giorno in una scuola pubblica birmana.


di Giuseppe Malpeli

“Ming- guh- la ba!”(ciao!) è il primo saluto che tutti i bambini e le bambine si affollano a regalarmi appena entro nella scuola pubblica del quartiere più povero di Rangoon ex capitale della Birmania. Dopo tanti anni di visite nel Paese, incontri politici anche di alto livello, avventure di ogni tipo, finalmente ho ottenuto nel mese di agosto il permesso di visitare una scuola pubblica. Non è stato facile, come non è facile in tutti quei Paesi dove l’istruzione è diventata per motivi diversi ostaggio dei governanti.
Un rapporto dell’Unicef mostra come in Birmania che quasi il 40 per cento dei bambini frequenta la scuola e quasi tre quarti non riescono a completare l’istruzione primaria. Nonostante anche nell’attuale Costituzione si faccia esplicito riferimento agli obiettivi della Dichiarazione Mondiale su “Istruzione per tutti”, l’accesso effettivo dei bambini e delle bambine è ancora molto limitata.
Gli studenti sono sempre stati protagonisti e profondamente coinvolti nelle vicende politiche birmane. Proprio per questo il sistema educativo si è rapidamente deteriorato in tutto il paese, fino alla chiusura di molte scuole e prestigiose Università per la paura di rivolte contro la giunta militare. Il budget annuale assegnato all’istruzione e alla formazione da parte del governo è molto basso, mentre gran parte delle risorse economiche sono state impiegate per rafforzare le strutture militari e di controllo.

Ignoranza diffusa produce paura e inevitabile diseguaglianze sociali ed economiche.

Ci entro nella scuola, nell’unica giornata di sole e di caldo dopo un lungo periodo di piogge monsoniche intense e violente. Nulla avviene per caso, anche il tempo meteorologico sembra accompagnare il tempo politico del cambiamento in Birmania.
Ho avuto negli anni la fortuna di incontrare Aung San Suu Kyi, gli ex prigionieri politici più conosciuti e amati nel paese, di conoscere i monaci protagonisti della rivoluzione del 2007, di essere intervistato da giornalisti, ma sento che questo è l’incontro più importante di tutti.
Non è un tassello qualunque in questo infinito pellegrinaggio asiatico almeno per la mia vita.
L’emozione è così grande che esce dal mio sguardo immediato la povertà del luogo, dei mezzi a disposizione, dello squallore che circonda l’edificio. Nulla è a norma e se si dovesse seguire le leggi italiane l’edificio dovrebbe essere chiuso all’istante.
Eppure dentro vi sono decine di bambini e bambine, un vociare di sottofondo intenso e corale, infatti le aule non sono suddivise da mura ma da divisori bassi di legno. Tutti vedono tutti, ma ciascuno è concentrato sul proprio compito e sulle indicazioni delle insegnanti.
A che fatica penso io sono sottoposti questi bambini ma anche quanta autonomia viene dispensata a piene mani.
Ma è l’incontro tanto atteso con i bambini che cerco, con gli alunni e con le insegnanti, con tutti quelli che nonostante le immense difficoltà e probabilmente con vincoli di ogni tipo, hanno cercato e cercano tutti i giorni in tutti i modi di trasmettere cultura. Lo fanno dentro un luogo preciso del quartiere che si chiama scuola e che è aperta a tutti, anche a coloro che non hanno mezzi minimi per potervi accedere. Un quaderno e una matita, sono merce rara e preziosa da queste parti.
Ciao! rispondo a tutti i bambini in piedi e con le braccia conserte come dei soldatini. Non importa alla forma un po’ inconsueta (dalle nostre parti si definirebbero metodi un po' autoritari), guardo i loro occhi e sento che sono felici di vedermi. Mi avvicino alla lavagna e scrivo con un pennarello consunto grande in stampatello CIAO!
 “ Min - guh- la- ba” ( Min-ga-la-ba), ripete forte la maestra! Un lavoro di équipe istantaneo, senza preventivi accordi.
Ridono tutti e ripetono senza sosta: ciao! ciao! Un bambino, corre nelle altre aule e sento che grida forte ai compagni, ciao! ciao! Mi accorgo divertito che non è per loro solo un saluto, è diventato anche un nome, un’identità, un ponte per accogliermi in modo dolce e affettuoso. Ho trovato la vera porta d’ingresso, la chiave per aprirne molte altre.
Non a caso, il giorno dopo ho trovato scritto sui loro quaderni “ciao” decine di volte. Loro, i bambini mi facevano vedere orgogliosi i quaderni. Come se dicessero: “guarda! siamo come te!”. Nessuno ci ha ricamato sopra con colori o inutili orpelli. “Ciao” era più che sufficiente.
La prova locale dell’INVALSI (prove di valutazione per gli studenti delle scuole italiane) l era stata ampiamente superata. Tra una visita e l’altra, le insegnanti mi invitano a prendere il thè birmano. Dicono che fa molto bene alla salute. Un rito. Un vero Collegio docenti.
“Qual è il problema più grande che avete?”. Faccio la domanda e poi mi pento subito. Chissà perché ci hanno educati a cercare solo i problemi e a non vedere la bellezza delle situazioni.
La bellezza dei fiori tropicali distribuiti ovunque, dei disegni appesi al muro di tigri del bengala a noi sconosciute, di marionette di legno scolpite come opere d'arte utilizzate per raccontare storie fiabesche, della scrittura birmana tutta circolare, dei volti dei bambini e delle bambine ricoperti da una crema bianca per proteggersi dal sole. La bellezza delle insegnanti con la loro divisa: una gonna lunga colorata e un giacchettino bianco.
“ Non tutti vengono a scuola… nonostante sia gratuita… quando piove molto forte siamo costretti a mandarli a casa, come vede tutta la scuola è circondata da una grata che lascia passare l’acqua!”. Il governo (mi accorgo che quando pronuncia questa parola abbassa il tono di voce), non ci manda neanche i fondi per questo”. Ha proprio ragione Aung San Suu Kyi a insistere che la paura è il vero frutto più amaro delle dittature. La paura che attraversa tutti: dal semplice cittadino al più alto funzionario dello Stato. “Se può ci aiuti lei!”. Eccoli i problemi. Non sento parole strane così consuete nel dibattito della scuola italiana rimbombare nelle mie orecchie: Pof, curricolo, standard, scale di valutazione, Lim, Portfolio, test d’ingresso… respiro profondamente. Mi sembra di essere finalmente in una scuola e non un’azienda della coca-cola. Poverissima, sgangherata, ma in una scuola vera!
L’assenza dell’inutile costringe a misurarsi con l’essenziale: la possibilità e la consapevolezza del diritto all’istruzione e il tempo necessario per apprendere, dove è forte il rapporto tra la scuola e la democrazia (o l’assenza di questa). Dove non si è costretti all’essenziale perché si è poveri (fatto evidente, effetto e non causa) ma perché non si è perso la bussola in un vortice di strani acronimi.
Mi chiedono in una classe di dire qualche cosa. Decido di parlare loro di un amico, scomparso da poche settimane: Ezio Compagnoni. Dico loro che mi ha insegnato a volere bene a tutti i bambini, a fare con loro delle cose belle soprattutto a inventare e raccontare storie meravigliose. Anche un po’ buffe. Ne invento una lì per lì, agitando un origamo a forma di uccellino appoggiato sul tavolo dell’insegnante. Tiziano, il mio amico birmano segue le mie parole e traduce all’istante.
“ C’era una volta un uccellino con ali tutte nere con tanti amici. Il suo più grande sogno era avere due ali d’oro luccicanti. Finalmente una notte mentre dormiva, gli è apparso nel sogno un uccellino che gli ha regalato due bellissime ali dorate così belle che risplendevano anche di notte. Così grande era la gioia di quell’uccellino che si era messo a girare ovunque dimenticandosi degli uccellini suoi amici più cari!- Mentre raccontavo la storia muovevo il pezzo di carta nell’aula passando sulla testa di tutti i bambini che ridevano a squarcia gola. Sempre più solo l’uccellino decise di regalare a tutte le persone che incontrava lungo i suoi viaggi una piuma d’orata. Ogni volta che donava una piuma, ne cresceva subito un’altra di colore nero, simile a quelle quando era senza ali dorate. Un giorno dopo tanti viaggi e regali di piume, si accorse di essere tornato l’uccellino di prima e di nuovo con tanti amici intorno per fare voli spericolati da un albero all’altro. Penso che ora viva proprio qui vicino, forse proprio sul tetto della vostra scuola!”.
Il silenzio era totale, interrotto da Zaw Soe, un bambino di cinque anni che si è avvicinato e guardandomi preoccupato negli occhi mi ha detto “ davvero? “, come si chiama?”. “ Nun”( è il nome di un bambino che ho conosciuto girando di notte per le strade di Rangoon), rispondo sicuro. Lo scrivo alla lavagna e tutti si mettono a copiare: Nun, Nun, Nun decine di volte. Si avvicina una bambina più piccola con un altro origamo costruito al momento davanti a tutti e mi dice: “ Questo è il bambino di Nun!” è per te!”. Una storia tutta buddista, laddove il desiderio procura dolore mentre il dono arricchisce la vita.
Si divertono loro ma mi accorgo che mi sto divertendo pure io. Lasciano poco alla volta i loro banchetti e si avvicinano. I bambini ovunque sono difficili, si sa, ma dal momento che si è abbracciata l’idea di essere educatori, si è obbligati a vegliare con attenzione su di essi, ad amarli, a pensare al loro avvenire.
In un angolo vedo una piccola statua del Budda stracolma di statuette, fiori, immagini. Qui in Birmania, c’è lo stesso tipo di familiarità con la divinità, sentita vicinissima, considerata quasi un parente, al quale si può chiedere senza ritegno e senza vergogna.
La giornata è terminata. Decido per la prima volta da quando vado in Birmania di fotografare i bambini della scuola. Quelli birmani sono davvero tutti belli, ma ho sempre pensato che il rispetto assoluto dell’altro, soprattutto se minore e in condizione di indigenza, debba impedire l’ulteriore abuso e furto della dignità anche attraverso una fotografia. Allora ho deciso di usarle quelle fotografie per stare nei giorni successivi con loro ne per parlare di loro, per costruire come una memoria condivisa. Mi sembra siano diventate come la fotografia di una relazione più che di belle persone.
All’uscita dell’ultimo giorno della mia permanenza nel Paese, guardo la scuola nell’ultimo stando in piedi su un lungo e dissestato stradello di mattoni che porta all’ingresso. I bambini attaccati alle grate gridano con tutta la forza che hanno: ciao! ciao!
Come in un lampo rivedo in “quella scuola” tutte le scuole che hanno segnato in modi diversi la mia vita.

A Parma, dove abito, la Scuola Elementare (allora si chiamava così), Pilo Albertelli. Una scuola “resistente” figlia di un pensiero aperto, accogliente, democratico. Nella sua povertà, anche quella scuola birmana, sentivo che nonostante tutto era un presidio di democrazia.
“ Leggere, scrivere e far di conto” e farlo bene non è cosa da poco.
Intorno alla scuola birmana un verde tropicale selvaggio e rigoglioso. Il verde della scuola Vittorio Bottego. Dentro quel verde il ricordo di giochi felici e avventurosi da maestro.

A Kalcutta in India, nello Slum la scuola “notturna” per bambini lavoratori. Messa in piedi in una torrida estate del 2004, solo con la convinzione di potercela fare e che l’idea era più potente delle immense difficoltà che si sarebbero presentate. Ci ho trascorso un po’ delle mie vacanze. Era diventata nel tempo un rifugio notturno dove dormire. Anche i bambini birmani, ora cercavano un rifugio. La loro scuola, priva di protezione era esposta alle piogge, come era esposto alle intemperie il diritto di apprendere e il dovere delle insegnanti di poter insegnare.
Nel buddismo, invece di cercare rifugio in qualsiasi salvatore esterno, è fondamentale apprendere a rifugiarsi in se stessi.
“Con se stessi è il male fatto, da soli è uno contaminato. Con se stessi il male non fatto, da soli è uno purificato”. Così recita il sacro canone. Ho preso prima di partire, l’impegno di aiutarli, di ciò devo rispondere a me stesso e non ad altri. Si è chiamati a una forte assunzione di responsabilità personale.

A Barbiana, nella scuola di Don Milani, dove ogni anno accompagno le studentesse della mia Università per sentire e vedere la lotta solitaria di un grande educatore convinto che solo l’istruzione “fa uguali”. Colpisce ogni volta le giovani studentesse e future insegnanti che visitano quel luogo, la pochezza dei mezzi ma la forza degli ideali. Tra questi, appunto l’uguaglianza. Con questo scopo hanno imparato faticosamente la matematica, l’italiano e pure l’astronomia i bambini che hanno avuto la fortuna di frequentarla.
C’è tanta “Barbiana” in questa scuola birmana: i banchi sono di legno, le lavagne sono vecchie e sgualcite. La mancanza di libertà ha sicuramente impedito la libera espressione del pensiero, ma non ha completamente cancellato la forza della parola. Come la parola era il pilastro su cui era fondato l’insegnamento di Don Milani.
L’Italia, l’India, la Birmania: un vero Istituto “Comprensivo” internazionale.
E’ questa scuola, a ricordarmi ancora una volta quanto istruzione e democrazia siano o dovrebbero essere due facce della stessa medaglia.
E’ ora di tornare in albergo, guardo la strada e sono molto preoccupato. Le macchine sfrecciano come impazzite senza fermarsi. Strisce pedonali non ce ne sono. Devo attraversare e ho una tremenda paura. Da queste parti hanno la precedenza sempre le macchine sui pedoni. In fondo la vita vale poco, ogni giorno è un giorno conquistato o regalato.
Sento a un certo punto prendermi la mano da un bambino uscito apposta dalla scuola. Lo osservo bene. Ha una piccola divisa come tutti: camicia bianca con uno stemma del governo sul braccio e pantaloncini grigi. I piedi sono nudi. Mi prende per mano e deciso mi trascina dall’altra parte. Mi guarda e ride. Un’attraversata che vale una vita. Il mio DSA (disturbo specifico di apprendimento, in questo caso nella manifesta incapacità di attraversare con destrezza e sicurezza la strada), ha trovato un buon sostegno.
Di solito avviene al contrario: sono gli adulti che aiutano i bambini a attraversare la strada.
“ Come ti chiami”: Lin, risponde lui. “ Ciao” Lin! Mi mancherai.
Non ricordo il nome della scuola. L’ho scritto forse da qualche parte. Ripensandoci bene credo che “ ciao” sia quello più indicato.
Arrivo all’aeroporto e di nuovo aspettando l’aereo uso le stesse parole. Ciao, vecchia Birmania. I tempi cambiano anche qui, tra la terra rossa e le paludi e i monaci amanti della solitudine. Terra crudele, di soprusi e torture e chi nel recente passato ha osato sognare la libertà si è spesso svegliato in una cella umida e buia. E a volte non si è svegliato più.
Terra dolce e delicata. Terra magnifica e addormentata, dove lo stupore colpisce nel vialetto della scuola e nel tempio che porta alla preghiera. Terra dove suscitano interesse ancora i destini del mondo.
Ma anche dove l’insegnante più anziana, con le lenti spesse degli occhiali, prima di partire salutandomi all’occidentale con una calorosa stretta di mano ha ceduto alla tentazione terrena e mi ha chiesto “Vorrei tanto un giorno mangiare la pizza italiana!”.

Giuseppe Malpeli - Associazione per l’Amicizia Italia-Birmania

Nessun commento:

Posta un commento