10 gennaio 2012

Ma quali sono queste liberalizzazioni di cui parla il Governo Monti? Sarà la svolta per la manovra “Cresci Italia”?

10 liberalizzazioni che il governo può - e deve - realizzare subito

di Antonio Mambrino - da “l’Occidentale” giornale on line

Sono ormai oltre dieci anni che le liberalizzazioni rappresentano il mantra del dibattito politico italiano. Eppure, nonostante un gran chiacchierare ed improbabili lenzuolate, l’Italia nel 2011 si presenta ancora come un Paese poco liberalizzato. Secondo l’Indice delle liberalizzazioni 2011 dell’Istituto Bruno Leoni, l’Italia è liberalizzata al 49 per cento, solo un punto in più rispetto al 2010. Il fatto è che sino ad oggi le liberalizzazioni più che un elemento strategico prioritario delle politiche di governo sono state un bell’oggettino, buono da esibire nella serate nella buona società o, al massimo, uno strumento utile per consumare qualche piccola vendetta politica contro gruppi sociali avversi. Basti pensare all’accanimento che si usa quando parlando di liberalizzazioni l’attenzione si concentra sui taxisti o sulle farmacie. Come se le rigidità dell’economia italiana potessero svanire d’incanto se solo potessimo trovare più facilmente un taxi al centro di Roma o comprare l’aspirina al supermercato!
Ma il tema delle liberalizzazioni è dannatamente importante. In questa precisa fase storica e nel quadro dissestato della finanza pubblica italiana, è infatti chiaro che l’unico vero impulso ai processi di sviluppo economico può arrivare solo dall’allentamento di alcuni vincoli legali all’iniziativa economica privata. Parlare di fase due, di stimoli all’economia senza mettere al centro del discorso le liberalizzazioni equivale ad alimentare quella retorica “sviluppista” che affida la crescita economica all’espansione della spesa pubblica, della quale stiamo pagando a caro prezzo i costi.
Il fatto è che vere liberalizzazioni presuppongono una visione di insieme del problema ed un approccio lucido e convinto ai temi della regolamentazione dell’economia. Liberalizzare davvero vuol dire accettare il principio generale in base al quale nessuna limitazione alla libera iniziativa economica dei cittadini è legittima se non quando ci sia da tutelare un interesse collettivo primario e l’unica strada per farlo sia l’imposizione di vincoli e di limiti (adeguati e proporzionati) alla libertà di impresa.
Solo quando la politica e la società italiana avrà metabolizzato questo elementare principio sarà possibile una vera politica di liberalizzazioni. Finora le liberalizzazioni sono state più che altro invocate nei confronti del vicino di casa, quasi come fossero uno strumento di vendetta sociale.
Ed allora, se veramente vogliamo occuparci del tema proviamo ad elencare 10 settori nei quali è urgente il bisogno di rimuovere vincoli e privilegi che tuttora frenano o impediscono del tutto l’iniziativa privati generando costi rilevanti a carico del sistema economico. Costi in termini di prezzi più alti e di opportunità di ricchezza perdute. E si tratta di settori strategici per tutta l’economia, settori nei quali l’apertura alla concorrenza è in grado di generare benefici consistenti per tutti e non solo per gli operatori del settore.
1) Il primo settore che ci viene in mente è quello del mercato del lavoro. Un settore quasi mai considerato quando si parla di liberalizzazioni. Eppure è evidente che un mercato del lavoro costruito intorno al dominio del contratto collettivo nazionale di lavoro e del contratto di lavoro a tempo indeterminato genera un enorme rigidità per l’intera economia. Certo, a partire dalla riforma Treu, grossi passi in avanti sono stati compiuti. Ma non c’è dubbio che si è trattato di progressi parziali che hanno finito per generare un mercato del lavoro che, oltre a rimanere rigido, è anche iniquo perché segmentato e scisso fra chi sta dentro e chi sta fuori.
2) Nel settore dell’energia diverse sono state le misure di liberalizzazione adottate negli ultimi anni, ma molto si può ancora fare. In particolare occorre aprire il mercato del gas, il quale, soprattutto dopo l’abbandono della prospettiva nucleare, assume valenza strategica per l’Italia. In questa prospettiva è innanzitutto necessario far venir meno tutti i conflitti di interesse: in primo luogo quello tra il monopolista infrastrutturale (Snam Rete Gas) e il maggiore operatore sul mercato libero (Eni). Ma occorre affrontare anche il conflitto di interessi tra l’Eni e il suo azionista (il Tesoro) che deve ogni giorno scegliere tra l’interesse dei consumatori ed il suo medesimo interesse la generosità dei dividendi che incassa. Da qui passa anche l’esigenza di realizzare quelle infrastrutture - rigassificatori e stoccaggi - che possono rendere effettiva la liberalizzazione e cioè l’ingresso di nuovi operatori.
3) Anche il trasporto su rotaia è stato interessato da un processo di liberalizzazione negli ultimi anni. Ma in questo caso il livello complessivo di apertura del mercato è ancora molto basso e diversi sono i punti sui quali sarebbe opportuno intervenire. In via preliminare sarebbe importante procedere ad una separazione vera (quella attuale è finta) delle aziende che gestiscono la rete ferroviaria da quelle che vi circolano. Vi è poi l’idea di privatizzare le grandi stazioni che potrebbe migliorare l’efficienza della gestione, l’apertura del mercato ai new comers e determinare significativi introiti per lo Stato.
I due settori del trasporto ferroviario dove maggiore appare il bisogno di interventi di liberalizzazioni sono quelli del trasporto regionale e del trasporto merci. Nel settore del trasporto regionale i vincoli operativi e l’uso massiccio di sussidi pubblici regionali in favore di Trenitalia bloccano nei fatti l’ingresso di nuovi operatori. Come dimostra il recente fallimento della società Arenaways.
Nel settore del trasporto merci, la liberalizzazione ha già preso piede. Pur tra mille difficoltà la quota di trasporto merci su rotaia operata da privati è già del 21% e sta crescendo. Ma tale quota sarebbe ben maggiore se venissero rimosse le condizioni di accesso vessatorie ed i cavilli burocratici e amministrativi che bloccano la concorrenza.
4) Quella della liberalizzazione dei servizi pubblici locali è una storia infinita culminata nel recente referendum popolare. La mancata entrata in funzione dell’obbligo di gara per l’assegnazione del servizio, che pure era previsto sin dal 1997, determina gestioni assolutamente inefficienti. Basti pensare al settore del trasporto pubblico locale. In Italia i costi per veicoli chilometro sono doppi rispetto alla Gran Bretagna, dove l’intero settore è deregolamentato tranne che nell’area territoriale della Grande Londra (escludendo la zona londinese, la differenza sale addirittura al 125%). Secondo alcune stime i maggiori costi provocano un esborso da parte del settore pubblico italiano, cioè dei contribuenti, di oltre 2 miliardi di euro l’anno a parità di condizioni con i Paesi più efficienti. I costi sono coperti solo per un terzo dalle tariffe, che rimangono tra le meno elevate d’Europa, mentre la gran parte è coperta dai sussidi pubblici.
I sussidi, molto spesso, sono versati dagli stessi enti locali proprietari delle aziende pubbliche che operano attraverso l’in-house, affidando cioè il servizio senza l’effettuazione di una gara. O, quando gara c’è, quasi sempre è vinta dall’incumbent. Molto spesso le condizioni per partecipare alle gare sono così restrittive che l’unico partecipante è l’incumbent. La gara è scritta per lui.
5) Il servizio postale ha subito negli ultimi dieci anni una sfida tecnolgica devastante che ha modificato profondamente il mercato. In particolare la diffusione delle comunicazioni elettroniche. L’e-mail ha tolto gran parte della corrispondenza privata e moltissime riviste sono diventate siti web di informazione. La posta elettronica certificata minaccia in prospettiva l’intero business delle lettere raccomandate.
Di fronte a questa sfida il, tardivo, recepimento della direttiva europea sui servizi postali ha sicuramente aperto alla concorrenza il settore, ma lo ha fatto in modo parziale. Lo stesso “servizio universale” (cioè obbligatorio e aperto a tutti) è stato dato interamente per 15 anni alle Poste Italiane, senza l’utilizzo di procedura di evidenza pubblica e con l’esenzione dall’Iva (che viceversa non è stata riconosciuta ai concorrenti).
6) Il tema della liberalizzazione dei taxi anima il dibattito politico da circa 15 anni. L’ostacolo sul quale sinora si sono infrante le strategie di liberalizzazione è stato l’aver concepito la liberalizzazione come un’operazione “contro” qualcuno. Ma questa visione “ideologica” che intende la politica di liberalizzazione come strumento di “vendetta sociale” contro un gruppo o una determinata categoria sociale, non ha prodotto alcun risultato.
Nel caso dei taxi l’ostacolo insuperabile ad una politica di liberalizzazione è naturalmente rappresentato dal valore di mercato delle licenze che sono state acquistate a caro prezzo dagli attuali detentori, i quali contano di poterle rivendere in modo vantaggioso. Una liberalizzazione fatta a prescindere dalla valutazione del valore economico delle attuale licenze presenta un oggettivo carattere di ingiustizia in quanto lede legittime posizioni economiche. Per aprire il mercato senza azzerare il valore delle licenze occorre adottare una prospettiva diversa.
Interessante è la proposta messa a punto dall’economista Franco Romani, uno dei “padri” dell’Antitrust italiano, che prevede l’assegnazione gratuita, agli attuali possessori di licenza taxi, di un’altra licenza che potrebbe essere venduta oppure ceduta ad un figlio o a un parente.
7) Anche il settore dell’assicurazione degli infortuni sul lavoro è oggi caratterizzato da un monopolio legale che non ha più alcuna giustificazione. Se è ragionevole obbligare i datori di lavoro a stipulare polizze assicurative per coprire il costo dei risarcimenti per eventuali infortuni dei lavoratori, non si vede perché non privatizzare l’Inail ed aprire il mercato alle compagnie private.
8) Nel settore della distribuzione del carburante alla pompa, la situazione è paradossale. L’Italia vanta un numero di imprese ed al tempo stesso un prezzo alla pompa nettamente superiore alla media europea. La ricetta non può quindi essere quella di aumentare semplicemente i punti vendita ma deve essere quella di consentire l’apertura di punti vendita con caratteristiche diverse. In Francia, ad esempio, la grande distribuzione ha ottenuto da tempo di poter aprire stazioni di carburante vicino ai propri supermercati con forti sconti al carburante. In Francia sono quasi 5.000, in Italia non raggiungono la ventina. Circa 300 euro è, invece, quanto risparmiano i transalpini ogni anno, rispetto agli italiani, per riempire il serbatoio dell’auto. Due numeri da tenere a memoria e che danno l’idea della distanza tra i due paesi sulla diffusione delle stazioni di rifornimento nelle catene della grande distribuzione organizzata, ossia nei supermarket.
Ulteriori interventi potrebbero riguardare la diffusione dei self-service e la vendita di prodotti non strettamente petroliferi, che nel resto d’Europa rappresentano la maggior parte del fatturato.
9) Un altro settore decisivo è quello dell’apertura di nuove imprese. Portare a compimento le iniziative, sempre annunciate ma mai completate, di snellimento delle pratiche burocratiche per l’apertura di nuove imprese, semplificando le procedure, unificando le competenze delle strutture amministrative, informatizzando la trasmissione di documenti, ampliando il ricorso all’autocertificazione ed al silenzio assenso, restringendo ai casi di effettiva sussistenza di fondamentali interessi pubblici alla previsione di controlli preventivi, al fine di allineare i tempi medi di autorizzazione a quelli presenti nei migliori sistemi europei.
10) Un settore del quale assai poco si parla, ma che è invece importante, è quello dei diritti d’autore. L’assetto del nostro ordinamento in materia, tutto costruito intorno al monopolio legale della SIAE, è obsoleto e inadeguato rispetto all’evoluzione tecnologica del settore. Basti pensare al fenomeno della pirateria digitale e del ritardo sulla distribuzione legale dei diritti sulla rete (musica film, libri). Occorre muoversi sulla falsariga di quanto sperimentato in altri paesi europei, nei quali il monopolio pubblico è stato superato e la gestione dei diritti d’autore è effettuata in regime di libera concorrenza. Secondo alcune stime, la minor efficienza della Siae costa agli autori, ai discografici ed ai consumatori oltre 13 milioni di euro all’anno. Il confronto con le performance registrate dal modello britannico del mercato aperto segnala come il rapporto tra i costi operativi e i diritti raccolti è nettamente più alto in Italia. In particolare le collecting society inglesi consentono un più facile accesso al mercato a giovani e non professionisti, tanto che spesso non esigono alcuna tassa di iscrizione. Se il Governo Monti vorrà davvero muoversi nella direzione della liberalizzazione dell’economia, non gli mancherà certo il lavoro. L’importante è che rifugga dalla tentazione di fare liberalizzazioni selettive, mirate a colpire solo alcuni gruppi sociali, semmai quelli politicamente deboli o ostili. Le liberalizzazioni sono un affare serio e se non lo si affronta con serietà il rischio di fare un buco nell’acqua è altissimo.

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