2 febbraio 2011
Con le ali ai piedi
Aishia era diversa da tutti loro, ma non perché era povera e non poteva permettersi le scarpe, bensì perché da dove arrivava lei non ce n'era la cultura
Aisha era giovane, molto giovane, forse troppo; come spesso avviene per chi nasce nei miseri sobborghi di una metropoli divisa a metà fra bianchi e neri senza che nessuno lo sappia, senza certificato di nascita, senza documenti d'identità, a volte senza una famiglia vera, al momento del tesseramento alla federazione mondiale atletica leggera si erano inventati dei dati verosimili: la sua data di nascita quindi era semplicemente “presunta”, dimostrava sì o no quindici anni, ma forse non lì aveva. Era stata scoperta per puro caso da un talet-scout americano in visita ad alcuni amici in un piccolo Stato africano: l'aveva vista correre a piedi nudi sull'asfalto, in una gara improvvisata fra ragazzini, ed era rimasto incantato dalla sua falcata ampia e leggera, dalla sua corsa così composta e pulita, dalla sua velocità e determinazione. L'aveva convinta a partecipare ad alcuni meeting africani, dopo averla allenata e seguita per un breve periodo: in fondo, per una come lei, senza casa, senza famiglia, senza niente di realmente suo, tutto sembrava meglio che vivere per strada. Era davvero micidiale sulla lunga distanza, riusciva tranquillamente a battere i colleghi uomini in tutte quelle prove che implicava la resistenza e scatto finale, così fu presto dirottata dai suoi allenatori nel fondo femminile; i 5000 erano la sua vera specialità, ogni volta ce la metteva tutta, perché sapeva perfettamente di non avere nient’altro per cui lottare, e quando cominciò ad attraversare le piste di mezza Africa da vincente, s’iniziò a parlare di lei e della possibilità di esportare il suo talento. Aishia non voleva lasciare l'Africa nera; quella era casa sua, non aveva mai potuto o voluto vedere altro, non ci teneva proprio. Nemmeno quando le prospettarono l’idea di partecipare a meeting prestigiosi, di guadagnare cifre molto buone e girare il mondo, lei si lasciò convincere: lì era “regina”, fuori dai confini, oltre il mare, forse sarebbe stata solo “schiava” o “cenerentola”. Quando però partecipò ai campionati nazionali d'Africa e fece un tempo così strepitoso e di assoluto valore internazionale da conquistare il diritto a gareggiare nei successivi Giochi Olimpici, l'avvenimento fu così eclatante che la convinsero a partire. Sicuramente quando alla cerimonia d’inaugurazione dei Giochi le migliaia di persone presenti, nonché i milioni davanti agli schermi televisivi, videro sfilare quell'unica atleta dalla pelle più nera del nero, dietro ad una bandiera mai vista prima e al cartello che riportava il nome di un paese che nessuno sapeva neanche esistesse, rimasero sorprese, o quantomeno incuriosite; chissà in quale specialità gareggiava quella ragazza dall'aria così sperduta, chissà cosa pensava mentre mille e più flash le illuminavano il viso, chissà qual era davvero il suo sogno olimpico…!
Non erano moltissime le atlete di tutto il mondo iscritte alla sua gara, così decisero di fare disputare tre semifinali, con ingresso immediato in finale per le prime tre di ogni batteria, più il ripescaggio dei sei migliori tempi. Aishia, per nulla intimorita al cospetto delle ben più famose e quotate avversarie, sorprese tutti per l'incredibile sicurezza con cui vinse la sua semifinale, dominando dal primo all'ultimo metro di gara: certo, le rivali più forti si erano probabilmente risparmiate mirando solo alla conquista della finale, senza sprecare energie inutilmente ed evitando di dare subito il 100% come invece aveva fatto lei, ma aveva pur sempre tagliato per prima il traguardo, e questo le valse indubbiamente l'attenzione di tutti, addetti ai lavori e non. Il giorno dopo tutti parlavano della ragazza africana venuto dal nulla, capace a piedi scalzi di battere fior di atlete della parte ricca del mondo: ne nacque un vero caso, Aishia e i suoi veloci piedi nudi divennero una specie di simbolo del terzo mondo, povero ma pieno di dignità e di forte dignità, e molti cominciarono a girarle intorno, spaventandola non poco rovinando in qualche modo l’atmosfera gioiosa e ingenua in cui fino ad allora aveva vissuto la sua esperienza olimpica. Alcune associazioni umanitarie cominciarono a tuonare e a prenderla come scusa per ribadire come nel mondo ci fosse questa terribile disparità fra chi ha tutto e chi non ha niente, neanche le scarpe, e come fosse arrivato il momento di smuovere e svegliare le coscienze. Le federazioni internazionali di atletica continuarono l'opera, sostenendo che era una vera vergogna che si permettesse ad una atleta come Aishia, povera ma pure sempre essere umano in quanto tale, di battersi in condizioni di inferiorità tecnica non avendo le scarpine da corsa. Infine ci si mise anche uno degli sponsor officiale dei Giochi Olimpici, una notissima marca di calzature e abbigliamento sportivo; che figura ci avrebbe fatto il marchio, agli occhi del mondo, se avesse permesso un tale scempio, soprattutto in una finale olimpica! Come minimo sarebbe stato tacciato di razzismo! Fu così che una piccola delegazione ufficiale, il giorno prima della finale, si recò da Aishia durante il suo ultimo allenamento, portandole un paio di scarpe, fra l'altro uno degli ultimi ritrovati tecnologici del settore, offerto dallo sponsor: le avrebbe assolutamente dovute indossare, così dissero con aria che non lasciava spazio a repliche, era una questione di regolarità della gara, ma soprattutto di immagine. Aishia piena di buona volontà, le indossò e provò a correre, non appena se ne furono andati. La sensazione che ne ricavò fu a dir poco terribile: si sentiva legata, stretta in una morsa, come chiusa in gabbia, e per un animale selvaggio come lei non era proprio accettabile. Però cosa le avevano appena detto? Avrebbe assolutamente dovuto indossarle o la sua partecipazione alla finale non sarebbe stata regolare; così lei ci riprovò, non pensò più a niente e si mise a correre, correre, correre… forse così i suoi piedi si sarebbero abituati a quelle catene! Quando si levò le scarpe, i suoi piedi erano pieni di dolorose vesciche, quasi non li sentiva più… No, non avrebbe gareggiato in quelle condizioni, non poteva, non voleva… Stanca, delusa, amareggiata, corse nella sua stanza a radunare in un sacchetto le sue poche cose: quello non era un posto per lei, li avevano diritto di stare quelli con le scarpe ai piedi, non quelli con le ali… Stava per uscire dal villaggio olimpico, non sapeva neanche lei per andare dove, o per fare che cosa, quando una ragazza tedesca, una delle più portate per la vittoria finale dei 5000, la notò e la vide che aveva le lacrime agli occhi, cosa non normale per un atleta che sta per giocarci una finale così prestigiosa e dovrebbe invece essere al settimo cielo. Le si avvicinò con molto garbo, cercando di non spaventarla ancora di più, la convinse non senza fatica a tornare indietro con lei e le offrì una bibita al bar. “Perché te ne vuoi andare? L'altro giorno hai corso benissimo, sei brava davvero... Cosa può essere successo di così terribile”? Dopo qualche momento di silenzio, frutto umano di diffidenze e paura, Aishia si lasciò andare in un pianto dirotto da bambina disperata. “Vogliono costringermi a correre con le scarpe, me non ha mai corso con le scarpe, non mi piace...” A Ingrid scappò un sorriso; era sicuramente la veterana di quella finale, correva da anni ormai, e mai si era trovata di fronte ad una situazione così unica, strana, paradossale. “Guarda che correre con le scarpe giuste ai piedi può darti davvero una marcia in più, soprattutto quelle di oggi, leggerissime, che prendono perfettamente la forma dell'arto...” Aishia era in lacrime: si tolse le scarpe, i calzini e, disperata, cercò un barlume di comprensione. “Ci ho provato, sai? Guarda come mi sono ridotta, non riesco neanche a camminare... Io ho sempre corso scalza, la mia pista in Africa sono le strade, i marciapiedi, i prati, non possono costringermi a questa pelle di gomma...!” Ingrid guardò inorridita tutte quelle vesciche sui suoi poveri piedi gonfi: cosa le avevano fatto loro, i signori perbene del ricco mondo benpensante? Improvvisamente capì: Aishia era diverso da tutti loro, ma non perché era povera e non poteva permettersi le scarpe, bensì perché da dove arrivava lei non ce n'era la cultura, forse anche per un problema di ordine economico, ma era così. Chissà, forse volevano mettere a tacere le coscienze del terzo millennio con quell'inutile gesto di circostanza: un paio di scarpe dell'ultima generazione a chi non l’avrebbe mai potuto voluto, un ordine mascherato da dono, destinato più a far danni che a riparare un torto di portata storica come quello. Ingrid la strinse in un abbraccio fraterno e cercò di calmarla: voleva farle sentire che non era sola, che di lei poteva fidarsi, e alla fine la convinse a rimanere, promettendole di rimediare al pasticcio. Contattò subito personalmente tutte le finaliste della loro gara, una per una, spiegò loro il dramma umano di Aishia e fece fermare loro una dichiarazione, in cui si schieravano apertamente dalla parte della giovane collega, tutte indistintamente, dal momento che nessun regolamento ufficiale obbligava le atlete a gareggiare con le scarpe ai piedi. Presentò il documento ai vertici della Federazione, ai giudici di gara e rese tutto pubblico con un'improvvisata conferenza stampa: in questo modo, nessuno avrebbe potuto imboscarlo, dicendo che non era mai esistito, nell'interesse dell'immagine internazionale dello sponsor. Fu così che Aishia venne autorizzata ufficialmente a correre la finale con ai piedi ciò che voleva, scarpe da ginnastica, tacchi a spillo o ali. La sera della gara, lei si presentò a testa alta e scalza, come sempre. Aveva piovuto parecchio durante il giorno, la pista era difficile, pesante, scivolosa, nessuno si sarebbe mai sognato di correre senza un'adeguata suola antiscivolo, nessuno tranne lei. Prima della partenza tutte le colleghe andarono a salutarla e a stringerle la mano: lei ricambiò tutte con un grande sorriso di gratitudine, si erano battute per i suoi diritti e la sua dignità, e questo era già stata una bellissima vittoria. Anche la grande folla presente allo stadio, al momento della presentazione delle finaliste, le tributò un lungo e sentito applauso; dopo tutto quel parlare e riparlare di piedi, di scarpe, di interessi economici e di immagine da difendere, inutile dire che tutti erano pronti a tifare per lei.
Un colpo di pistola è la gara iniziò. Aishia, contrariamente al suo solito, rimase coperta, in mezzo al gruppo, fin dai primi metri; aveva ancora in piedi gonfi, una vescica in particolare le faceva molto male e non le permetteva di fare rullare bene il piede e poi il fondo sintetico bagnato della pista risultava davvero molto pericoloso. Sembrava tutto fermo, tutto tranquillo, quando ci fu uno scatto improvviso a tre giri dalla fine, a dare uno scossone ad una corsa che fino a quel momento era stata tutta tattica e niente emozione: l'atleta spagnola tentò un allungo a sorpresa subito seguita e tallonata da Ingrid e dalle altre favorite. Per non perdere il treno e l'occasione per stare con i migliori, anche Aishia tentò un'accelerata, ma scivolò sul bagnato e finì con le ginocchia a terra. Si udì un gran boato di delusione generale, forse anche di dispiacere, a cui però fece subito seguito un lunghissimo applauso di sostegno e di incoraggiamento, non appena la gente capì, vedendola alzarsi e riprendere la corsa, che la giovane gazzella nera con le ali ai piedi non si sarebbe arresa così facilmente. Negli ultimi giri diede tutto di sé, ciò che aveva e ciò che non sapeva di avere dentro, strinse i denti per non pensare al male, alla sfortuna, alla sconfitta... Sentì che poteva ancora farcela e allora corse, corse alla disperazione, corse recuperando e superando una ad una le avversarie in un tripudio generale, corse fino a giocarsi tutto nell'ultimo tuffo, proprio sul traguardo... Qualche secondo dopo era là, seduta per terra a fissare incredula lo schermo gigante davanti a lei, con le piante dei piedi completamente rovinate, alcune vesciche rotte e sanguinanti, un ginocchio rosso di sangue in seguito alla caduta, e tutte le telecamere puntate su di lei e su quel suo volto di bambina stupita e felice. Ce l'aveva fatta, aveva vinto proprio lei! Piangeva, non sapeva più cosa fare, da che parte guardare... Ingrid, giunta seconda alle sue spalle, le porse una mano, l'aiutò a rialzarsi, l'abbracciò forte e, alzandole il braccio in segno di vittoria fece con lei il giro d'onore. E fu quella l'immagine votata dai giornalisti e addetti ai lavori come simbolo di quei Giochi: la veterana tedesca, bianca, bionda, meravigliosa atleta frutto di nuove tecnologie e allenamenti mirati, insieme alla giovane gazzella nera, forse non ancora del tutto consapevole della grande vittoria ottenuta, frutto di semplicità, di indubbio talento naturale, di un paio d'ali ai piedi.
Brano tratto dal libro "SportivaMente". Il libro viene venduto e il ricavato viene dato in beneficenza al gruppo missionario del Sacro Cuore di Pordenone: chi desidera acquistare il libro(Offerta libera) può rivolgersi all’e-mail di Roberta Selan: robertaselan65@alice.it
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