Il golpe dell’esercito che ha rovesciato il governo in Myanmar e riportato il Paese nel buio della dittatura militare non è solo l’ennesima turbolenza politica interna di uno Stato lontano dall’Europa, ma si inserisce in un quadro regionale denso di sfide e criticità.
Andrea Castronovo e Luca Cinciripini*
Nell’attuale congiuntura geopolitica, il Myanmar riveste un ruolo delicato per via della vicinanza con alcuni degli scenari più intricati a livello internazionale. Stretta tra giganti come India e Cina, bagnata da mari tanto preziosi per le rotte marittime quanto per questo pericolosi, a cavallo tra alcuni dei più insidiosi nidi jihadisti del pianeta, la crisi birmana esonda dal contesto puramente regionale per porsi all’attenzione europea e occidentale nel complesso.
Alle porte del Myanmar, pertanto, si giocano due complesse partite geopolitiche, intrecciate tra loro in un delicato equilibrio facilmente alterabile da qualsiasi variabile. La prima di queste sfide si gioca sul fronte della sicurezza, ovvero la minaccia posta dal terrorismo jihadista. La caduta dell’Afghanistan in mano ai Talebani è solo l’ultimo e più evidente segnale del fermento integralista mai sopito nella regione, che ormai da anni si dipana in maniera tentacolare dall’Asia centrale cercando di penetrare il sub-continente indiano. Senza dimenticare la prossimità del Sud-Est asiatico, ovvero Paesi come Indonesia, Filippine e Malesia che ospitano vaste popolazioni di fede islamica e albergano potenti e radicate organizzazioni jihadiste. Ma il Myanmar nel corso degli ultimi anni è stato soprattutto legato alla vicenda dei Rohingya, la minoranza islamica oggetto di soprusi e violenze già prima del colpo di Stato. Il golpe militare finirà probabilmente per aggravare le dure condizioni di vita cui sono sottoposte queste popolazioni, in larga parte già sfollate verso il Bangladesh e da tempo nel mirino della propaganda jihadista. La crisi umanitaria si salda così all’emergenza jihadista, creando un terreno fertile per la proliferazione di fenomeni estremisti facilmente esportabili oltre i confini birmani.
La seconda partita che coinvolge il futuro della crisi del Myanmar è la competizione geopolitica tra USA e Cina, una tensione crescente che trova proprio in quel quadrante del continente asiatico il suo cuore pulsante. Le Nuove Vie della Seta (BRI) di Pechino sono le arterie vitali per alimentare non solo le richieste interne di uno Stato gigantesco ma anche i suoi progetti neo-imperiali. Le mire espansionistiche cinesi hanno portato al controllo del porto di Kyaukphyu, nella regione del Rakhine (Myanmar sud-occidentale), uno snodo dall’elevato valore strategico per Pechino in quanto affacciato direttamente sul Golfo del Bengala, consentendo così una rapida connessione con le coste orientali africane aggirando i rischi dello Stretto di Malacca. Per tutte queste ragioni Pechino resta estremamente vigile sugli sviluppi futuri del Paese. Il controllo delle rotte marittime, evitando i colli di bottiglia presidiati da chi si oppone a Pechino, è pertanto intimamente legato al successo dell’operazione BRI, a sua volta tassello chiave nei disegni di influenza geopolitica cinese. Gli scenari che si schiudono con la crisi birmana, pertanto, hanno un ruolo chiave anche per le sorti di una partita molto più grande.
DALLA RESISTENZA ALLA RIVOLUZIONE ARMATA: LA NUOVA DIMENSIONE DELLA CRISI
Dal colpo di Stato, i militari hanno imposto con violenza il loro governo, reprimendo nel sangue le proteste, uccidendo oltre mille persone ed arrestando circa settemila attivisti, e, nel tentativo di indebolire ulteriormente il movimento democratico nazionale, hanno annunciato lo scioglimento della Lega Nazionale per la Democrazia, il partito guidato da Aung San Suu Kyi che alle elezioni generali del 2020 ha ottenuto l’83% di voti favorevoli.
Oltre al tentativo di consolidare il proprio potere a livello politico ed istituzionale, le azioni del Tatmadaw sono volte a rafforzare il controllo amministrativo e burocratico locale, il vero indicatore del successo, oppure dell’insuccesso, della presa di potere del regime. In questo, le politiche di contrasto alla diffusione del Covid-19 rappresentano uno dei principali strumenti nelle mani dei militari per sviluppare una rete di controllo sociale stabile e duratura nel tempo. Il divieto di vendita delle bombole di ossigeno a privati ne è un chiaro esempio. In un Paese dove le forze armate hanno occupato la maggior parte degli ospedali, l’introduzione di questo divieto ha portato ad un premeditato e drastico aumento dei decessi. È evidente come le armi non siano più l’unico strumento con cui il regime può colpire il popolo birmano.
L’introduzione di queste nuove disposizioni ha portato alla rapida espansione del costosissimo mercato nero dell’ossigeno. Khaing Zan Oo, un’attivista in prima linea contro il regime, riassumendo drammaticamente le conseguenze reali di queste politiche, confida: «Ho speso tutti i risparmi di una vita per curare mia sorella». Come lei, gran parte della popolazione è costretta a procurarsi in modo indipendente tutto il necessario per le cure, dalla bombola al concentratore di ossigeno, dalle visite mediche a domicilio ai medicinali. Chi invece non può economicamente permetterselo è lasciato a morire nelle proprie abitazioni. Si stima che almeno 600.000 persone abbiano perso il posto di lavoro e che il 48% della popolazione cadrà in povertà entro il 2022.
Tuttavia, la reazione della popolazione non si è fatta attendere. Se nei primi mesi successivi al colpo di Stato, nonostante la violenta risposta dell’esercito, le manifestazioni sono rimaste pacifiche, da metà maggio la resistenza non-violenta si è trasformata in rivoluzione armata. La nuova dimensione dell’opposizione al regime, organizzata sotto il nome di Forze di Difesa del Popolo (PDF), è composta principalmente da giovani che, dopo aver concluso un periodo di addestramento militare all’interno nelle zone di frontiera, ritornano nelle città a contrastare l’esercito, identificando gli uffici amministrativi militari come i target principali della guerriglia urbana. Da marzo ad agosto, il PDF ha attaccato 321 simboli del potere politico del Tatmadaw in 124 città differenti. 240 persone affiliate al regime sono state uccise, 95 delle quali lavoravano negli uffici amministrativi. Un segnale chiaro da parte delle PDF: chi collabora con la giunta verrà punito.
Per concludere il quadro allarmante dell’attuale condizione del Paese bisogna tuttavia aggiungere un ulteriore elemento. Se, come precedentemente descritto, le principali città sono segnate dalla guerriglia urbana, dalla rapida e letale diffusione del virus e dalla repressione brutale dei militari, le zone di frontiera, invece, si trovano in una situazione profondamente differente.
Fin dalla nascita del Paese, nel 1948, le zone di frontiera, abitate principalmente dalle minoranze etniche, sono state soggette ad una costante e sanguinosa guerra civile. Nell’arco dei 70 anni di conflitto, i numerosi gruppi etnici hanno sviluppato le proprie organizzazioni di rappresentanza politica e militare indipendenti dai governi nazionali birmani. Ciò ha portato alla frammentazione del Myanmar in molteplici società e alla decentralizzazione della capacità di governare i territori lungo i confini.
Dalla prospettiva dei gruppi etnici, i recenti avvenimenti hanno rappresentato l’ennesima ingerenza dell’esercito birmano. Infatti, per le centinaia di migliaia di persone che da decenni vivono all’interno delle aree colpite dal conflitto armato, la recente brutalità dei militari contro la popolazione ha incarnato una condizione costante delle loro esistenze. Nonostante questo, le reazioni da parte delle diverse etnie sono risultate profondamente differenti e degne di essere approfondite.
Malgrado siano passati più di sei mesi dall’inizio della crisi politica, il ruolo della maggior parte delle etnie armate rimane incerto. Questo perché i gruppi etnici non compongono un fronte omogeneo di opinioni, valori e strategie politiche condivise. Alla presa di potere militare, le reazioni sono state differenti e contrastanti. Alcuni gruppi etnici si sono schierati in modo deciso contro le azioni del Tatmadaw, supportando fin da subito il movimento democratico nazionale, mentre altri non si sono neanche esposti. Questo perché molti gruppi entici vedono l’attuale momento di instabilità nazionale come un’opportunità per consolidare il proprio potere politico e territoriale.
Un chiaro esempio viene rappresentato dell’Arakan Army, il gruppo etnico armato in rappresentanza della popolazione buddista dello Stato del Rakhine. Dal colpo di Stato, l’AA ha accelerato il processo di espansione del proprio controllo sulla popolazione della regione. Ad inizio agosto, il gruppo ha annunciato la formazione di un meccanismo locale per la risoluzione delle controversie legali tra i cittadini. L’obiettivo è quello di incrementare la capacità di governare anche a livello giurisdizionale. Il generale dell’esercito dell’AA, Twan Mrat Naing, in relazione all’attuale situazione del Myanmar, ha affermato: «Solo perché abbiamo un nemico comune [con il movimento democratico], non vuol dire che siamo amici. Non ci sarà alcun compromesso sul nostro obiettivo principale, che è quello di riconquistare la sovranità Arakanese» . Per l’AA è essenziale mantenere un tacito accordo di non belligeranza con il regime per rafforzare il proprio esercito, aumentare il controllo territoriale e sviluppare una struttura politica efficiente.
Dall’altra parte, per rimarcare l’ampio spettro delle reazioni etniche al colpo di stato, l’United Wa State Army, il gruppo armato in rappresentanza della popolazione Wa, al confine con la Cina, non si è espresso in alcun modo. L’UWSA, con circa 30.000 soldati, rappresenta il gruppo armato più potente e meglio organizzato dell’intero Myanmar. Per comprendere la posizione degli Wa è necessario esaminare l’influenza cinese sul gruppo etnico. Nel territorio degli Wa si parla maggiormente il cinese, la moneta utilizzata è quella cinese e i programmi televisivi, la connessione internet e le schede telefoniche sono anch’essi di provenienza cinese. Inoltre, la Cina ha giocato un ruolo primario nell’evoluzione della capacità militare degli Wa attraverso l’approvvigionamento di armi moderne e sofisticate. Per Pechino l’UWSA rappresenta una porta di accesso, sempre aperta, al Myanmar. Questo ha portato ad un’alterazione del già precario equilibrio sociale del Paese e alla creazione di un territorio, quello degli Wa, totalmente estraneo e indipendente dal resto della nazione. Sarà la Cina a dettare la posizione dell’UWSA e questa dipenderà esclusivamente dagli interessi politici ed economici di Pechino.
Tuttavia, queste non sono le uniche realtà delle zone di confine. I gruppi etnici che hanno deciso di schierarsi contro il regime si trovano in guerra. Sia nello Stato Kachin che in Karen, come in molte altre aree del Myanmar, i militari hanno bombardato interi villaggi, distrutto case, scuole e luoghi religiosi, costringendo decine di migliaia di persone a fuggire dalle proprie abitazioni. Si stima che gli scontri armati degli ultimi mesi abbiano causato oltre 200.000 sfollati interni, da aggiungere alle 500.000 persone già presenti nei campi profughi del Paese.
Il conflitto tra il regime militare e il movimento democratico supera i confini nazionali e si proietta all’interno del mondo occidentale e delle sue organizzazioni sovranazionali. Il 7 luglio, due cittadini birmani sono stati arrestati dall’FBI a New York con l’accusa di star progettando l’assassinio di U Kyaw Moe Tun, l’ambasciatore del Myanmar alle Nazioni Unite che si è opposto pubblicamente ai militari. La giunta avanza e sembra essere l’unico attore a beneficiare dall’immobilismo diplomatico internazionale. Tuttavia, un importante sviluppo arriva dall’interno della resistenza. La mattina del 7 settembre, Duwa Lashi La, presidente ad interim del Governo di Unità Nazionale (NUG), ha dichiarato l’inizio della guerra di difesa del popolo contro i militari, invitando tutti i cittadini a ribellarsi. In contemporanea, il ministro della difesa del NUG ha pubblicato il codice di condotta da rispettare durante la guerra. Mentre la crisi birmana sprofonda sempre più nella violenza e molti, da entrambe le parti, analizzano le strategie per sconfiggere l’avversario, Khaing Zan Oo confida: «Per me vincere significa sopravvivere. Quindi vediamo se sopravvivrò». Dopo sette mesi di brutale repressione militare, il Myanmar si prepara ad una guerra asimmetrica altamente frammentata e guidata da numerose organizzazioni armate non coordinate tra loro. La crisi sanitaria, economica e sociale, unita al conflitto, porterà ad un drastico peggioramento della condizione di un Paese sempre più allineato alla definizione di stato fallito.
1 È stato utilizzato uno pseudonimo per proteggere l’identità reale dell’attivista.
2 AA leader says group is ‘monitoring’ Myanmar military as fears of renewed conflict grow, “Myanmar Now”, 19 agosto 2021 (https://www.myanmar-now.org/en/news/aa-leader-says-group-is-monitoring-myanmar-military-as-fears-of-renewed-conflict-grow).
AUTORI
Andrea Castronovo si laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali all'Università di Pavia, con la tesi “La primavera birmana: analisi della transizione politica in Myanmar”.
Luca Cinciripini è ricercatore-analista presso l’Italian Team for Security Terroristic issues and Managing Emergencies – ITSTIME e dottorando di ricerca in Istituzioni e Politiche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (UCSC).
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