21 marzo 2014

Può un’umanità abbandonata a se stessa ritrovare la speranza?

Le due facce della lotta per la sopravvivenza

di Giuseppe Calì
C’è un film del 1986 che ha lasciato in me un segno indelebile. Il film in questione, diretto da Roland Joffè ed interpretato da Jeremy Irons e Robert De Niro, con l’indimenticabile colonna sonora di Ennio Morricone, è “Mission”. 
Basato su fatti storici, il racconto inizia con la narrazione del vescovo spagnolo Luis Altamirano, che si trova ad Asunción  (Paraguay) nel 1752 e illustra in una lettera diretta al Santo Padre in Vaticano, a eventi conclusi, ciò che è accaduto tra i Guaranì e i rappresentanti dei coloni di Spagna e Portogallo nel periodo del Trattato di Madrid (1750). Sud America, 1750, nella piccola foresta pluviale sopra le Cascate dell'Iguazú al confine tra Argentina, Brasile e Paraguay.
Due i personaggi con cui il racconto si apre: uno è Padre Gabriel, missionario gesuita, che grazie alla musica del suo oboe riesce ad avvicinarsi amichevolmente alla tribù di Indios Guaranì, ancora allo stato selvaggio. L’altro è un cacciatore di schiavi spagnolo, Rodrigo Mendoza, che uccide in duello pubblico suo fratello Felipe per gelosia, dopo aver scoperto che questi aveva una relazione con Carlotta, la donna da egli stesso amata. Travolto dal rimorso, Mendoza decide di lasciarsi morire in cella, ma padre Gabriel, venuto a sapere dell'accaduto, lo convince a trasformare il suo rifiuto della vita in una penitenza con la quale possa espiare le proprie colpe.  Dopo il trattato di Madrid i coloni accolgono un inviato pontificio, lo stesso vescovo Luis Altamirano, il quale, nonostante riconosca la grande bontà delle missioni gesuite, ordina ai religiosi di abbandonarle per accogliere le richieste dei sovrani europei. Messi a conoscenza di questa decisione, gli indios rifiutano di lasciare le terre di São Miguel das Missões e decidono di combattere per difenderle, guidati in primis dal redento Padre Rodrigo, divenuto amico di un bambino del villaggio; quest'ultimo riuscirà a trovare in riva alle cascate la spada che apparteneva a Rodrigo, da lui stesso gettata in acqua insieme a tutte le sue armi, come segno del suo cambiamento di vita. Tutti i gesuiti rimangono con gli indios che li hanno accolti e con i quali nel tempo si è stretto un forte legame di fratellanza: Padre Gabriel rifiuta la violenza e durante i combattimenti celebra una messa nel villaggio con donne e bambini, mentre gli altri missionari scelgono di lottare accanto ai Guaranì e cadono con le armi in pugno. Nella scena finale della battaglia Mendoza, caduto a terra, si volta verso Padre Gabriel in processione con in mano l'ostensorio, ed esala l'ultimo respiro solo quando anche il suo redentore, che avanzava apparentemente intoccabile in mezzo a spari ed esplosioni, viene colpito a morte. Il film si conclude con la vittoria degli eserciti dei coloni spagnoli e portoghesi, che rendono schiavi i pochi Guaranì rimasti.
Io considero questo film una metafora dei nostri tempi, delle ingiustizie e delle violenze che la gente subisce, ma soprattutto dei due modi principali con cui reagisce a esse.
Mi sono ricordato del film proprio in questi giorni, vivendo due esperienze estremamente diverse ed apparentemente senza alcun legame tra di loro. Qualche giorno fa mi trovavo nel centro di Roma per un appuntamento, ignaro di ciò che stesse accadendo. Mi sono improvvisamente ritrovato in mezzo alla manifestazione dei cosiddetti “forconi”, per fortuna non proprio nei momenti più caldi, avvenuti successivamente, che hanno visto scontri con le forze dell’ordine ed altro. Ho osservato, parlato, discusso con alcuni e mi sono reso subito conto, non per la prima volta, del grave stato di abbandono in cui tante persone si trovano. Disoccupati, esodati, padri e madri di famiglia senza mezzi adeguati, lavoratori con stipendi da fame. Un esercito di disperati che non trova più nessun’altra via di quella della protesta a qualsiasi costo. Come non essere solidali? L’ingiustizia nella quale siamo intrappolati tutti, e non solo chi sembra stare peggio, non lascia scampo: siamo condannati all’infelicità. Oppure a “drogarci” di felicità brevi e illusorie. E che la gabbia sia d’oro, d’argento o di ferro non cambia di molto le cose. Non siamo liberi, non siamo più padroni della nostra esistenza e del nostro futuro, punto. Il sistema nel quale ci troviamo è talmente stupido nella sua iniquità, da farci dubitare dello stesso intelletto del quale così tanto ci vantiamo. Ed è talmente complicato e assurdo da togliere qualsiasi speranza.
Ma qualcuno che, nonostante tutto, la speranza riesce a mantenerla c’è, a ragione o a torto. Sono stato a Medjugorie, grazie all’invito di un amico che mi ha voluto partecipe di alcune sue vicende. Un altro popolo, un’altra umanità, con le stesse domande, con gli stessi problemi esistenziali, ma con risposte diametralmente opposte. Un popolo che cerca conforto e speranza nella preghiera e nell’adorazione. Un popolo che si affida completamente al Cielo, alla fede. Anche in questo caso, come non essere profondamente coinvolti in questo anelito sublime di spiritualità?
E qui ritroviamo il capitano Mendoza e Padre Gabriel: lottare con la spada o lottare con la croce? La via di Caino, “mors tua vita mea” o quella di Abele, che sacrifica se stesso ma rimane vittima? La risposta non è per niente facile, perché ha spesso a che fare con le nostre “viscere”, con i nostri sentimenti più profondi, con la nostra capacità di amare e odiare, come spesso facciamo contemporaneamente. Alla fine Caino e Abele, Padre Gabriel e Mendoza, sono dentro ognuno di noi.
Il rischio esiste in entrambe le vie e si manifesta nella tentazione alla violenza oppure in quella al fatalismo e al vittimismo. Io credo che la giusta via sia sempre nell’equilibrio.
Nell’intero universo esistono forze che si contrappongono, la forza centripeta e quella centrifuga, entalpia ed entropia, tendenza all’ordine e tendenza al caos, cariche positive e cariche negative, materia e antimateria, sopravvivenza dell’individuo e quella della specie, paura e coraggio, lotta e fuga, e si potrebbe continuare all’infinito, attingendo alla fisica, come alla psicologia, alla chimica, come alla religione, alla matematica, come all’arte. La chiave per capire la dinamica del cosmo è appunto la costante ricerca di un equilibrio sempre superiore. Tutto si evolve, cresce, si espande, migliora, proprio grazie all’armonizzazione degli opposti. Ma se questo è il Principio che regola ogni cosa, perché non dovrebbe essere valido anche per la società umana? Perché quando si tratta di noi uomini, dobbiamo sempre usare lo squilibrio delle forze, il vantaggio dell’una parte a scapito dell’altra, quindi la violenza o la rinuncia, la terra oppure il Cielo, la religione oppure la scienza, la destra o la sinistra, la borghesia oppure il proletariato, la spiritualità oppure il materialismo, ecc.…? Escludere la controparte nega l’armonia e porta alla sofferenza.
Da qualche tempo si studiano nuovi modelli ed anche noi dell’UPF siamo impegnati in questo. Nuovi modelli economici, politici, sociali, culturali. In tutta questa ricerca vedo spesso però grandi contraddizioni. Non basta essere originali a tutti i costi per fare qualcosa di buono, non basta che le idee siano nuove, per essere efficaci. C’è una corsa sfrenata verso il nuovo, ma se non comprendiamo da dove veramente partiamo, quale sia la nostra vera natura, inserita in un contesto universale e dove sia l’origine dei nostri problemi, non sapremo nemmeno verso dove stiamo andando. Qualsiasi proposta nuova che non rimetta in equilibrio l’uomo, le sue relazioni e il suo ambiente, non cambierà, di fatto, nulla, con il rischio di peggiorare la situazione. Perché? Perché la globalizzazione avanza a passi da gigante, siamo già in emergenza e se non troveremo presto risposta alle esigenze fondamentali di un’umanità sempre più collegata da un disagio onnipresente, rischiamo veramente catastrofi sociali senza precedenti. Non possiamo perdere tempo in pseudo riformicole, tanto propagandate quanto pressoché inutili. 
È tempo di capire che senza un riequilibrio delle risorse umane, naturali e tecnologiche, nessuno potrà più essere al sicuro. Il modello non può essere altro che quello universale. Continuare a ragionare in termini di “ma io cosa ci guadagno?”, a livello individuale o nazionale o di mondi contrapposti (primo, secondo o terzo che siano) non porterà la pace. Ci vuole uno sforzo comune da parte di tutti, organizzato da istituzioni che finalmente siano all’altezza in quanto a visione, lungimiranza, capacità. Ma anche alimentato da un’autentica passione civile da parte delle popolazioni, che hanno bisogno di “spirito e partecipazione”, “fede e fiducia”, “preghiera ed azione sociale”,  “capacità critica e sostegno”, “prosperità e carità” e così via. Come iniziare una simile rivoluzione, che io chiamerei piuttosto “ritorno alla casa originale”? Bisogna partire dall’educazione delle nuove generazioni, ma nel frattempo anche dal permettere a chi può dimostrare di avere qualità adeguate di emergere e iniziare il processo virtuoso della riarmonizzazione. In questo senso la società civile e le sue organizzazioni possiedono un grande patrimonio di tali risorse, ma è necessario che si uniscano intorno ad un progetto globale comune. Dobbiamo tutti ritrovare il coraggio di aderire a una partecipazione senza precedenti, non contro qualcuno a qualcosa, come accade solitamente, ma a favore dell’umanità intera e delle future generazioni.

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