5 febbraio 2009

I LIMITI AI POTERI DELL’AUTORITÁ INTERNAZIONALE DERIVANTI DAL DIRITTO UMANITARIO E CONSUETUDINARIO

Avv. Prof. D. Liakopoulos, prof. a contratto in Diritto internazionale e diritto dell'Unione europea, Università della Tuscia e dott. M. Vita, Cultore della materia in Diritto dell'Unione europea e diritto Internazionale, Università della Tuscia.

Moltissimi sono i richiami o meglio i limiti ai poteri dell’autorità internazionale derivanti dal diritto umanitario e consuetudinario, riscontrati negli atti normativi della missione UNMIK(United Nation Mission in Kosovo) in Kosovo fino ai nostri giorni , che riguardano il rispetto dei diritti umani da parte delle istituzioni amministrative e, più in particolare, essi sono ampiamente riportati in ogni regolamento dell’UNSRSG (U.N. special rappresentative of the Secretary General) che riguardi l’istituzione di un nuovo organo o ufficio.

Si prenda ad esempio il Regolamento n. 2000/38 sull’istituzione dell’Ombudsperson, che alla sezione 3.1 prevede testualmente che questi: “avrà la giurisdizione di ricevere e investigare su ogni denuncia da parte di ogni persona o entità in Kosovo che concerna la violazione dei diritti umani (…)” oppure il Regolamento n. 1999/24 che alla sezione 1.3 specifica come: “tutte le persone che saranno investite di pubblici poteri o incaricate di “un ufficio pubblico” dovranno rispettare una lunga lista di strumenti di diritto internazionale umanitario. Si noterà a questo punto come sebbene anche nel caso del Kosovo (come, vedremo, in altre missioni ONU) si è provveduto a dotare le autorità amministrative di strutture istituzionali basate non solo sul rispetto, ma anche sulla promozione di tali diritti, essi dovrebbero trovare applicazione a prescindere dalle suddette strutture.

Gli Stati, cedendo funzioni ad una autorità sovrastatale, cedono peraltro anche l’esercizio dei diritti inerenti a tali funzioni: così, gli Stati che a tutt’oggi operano in Kosovo sono gli stessi firmatari degli accordi e delle Convenzioni sui diritti umani e, fornendo il proprio personale all’organizzazione devono, nel compimento dei ruoli assegnatigli, continuare a rispettare interamente questi diritti, senza deroghe che il diritto internazionale generale non abbia già ben delineato. Inoltre la Carta delle N.U. riporta tra i suoi fini e principi il “promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”.

Ne deriva che anche le autorità dell’UNMIK non possono non essere vincolate al rispetto dei diritti umani. Normalmente si è portati a ritenere che altri siano coloro che agiscono in loro violazione e che le N.U. costituiscano piuttosto una figura di promozione di questi diritti; ma oggi, anche a seguito di interventi sempre meno isolati di denuncia, si pone il problema dell’U.N. Accountability per violazioni dei diritti dell’uomo e dei meccanismi che regolano questo procedimento. Già alcuni scritti documentano delle lacune nel rispetto dei diritti umani da parte delle autorità UNMIK e rilevano come talvolta si siano generati dei casi che potrebbero essere qualificati come loro violazioni manifeste. Esempio di quanto affermato sono le reviews che semestralmente la Sezione di Monitoraggio del Sistema Giuridico dell’OSCE (Organization for security and cooperation in Europe) redige sullo stato del diritto penale applicabile in Kosovo. Va considerata la review dell’ottobre 2001. Essa si compone di 4 capitoli (Rappresentanza Legale,

Detenzione, Traffico e Crimini Sessuali Collegati, Corti Municipali e Minorili), ma ciò che ora preme analizzare è sicuramente il capitolo sulla detenzione in relazione a presunte violazioni dei diritti umani. La sezione 4 immediatamente riporta come la “detenzione senza una chiara base giuridica o senza una forma di controllo giudiziale continua in Kosovo” e “il meccanismo di Habeas Corpus è ancora lacunoso, nonostante il diritto internazionale sui diritti. Comunque, il rapporto rileva anche come “passi significativi sono stati presi per porre fine alle detenzioni illegali di malati mentali” e “miglioramenti sono stati anche notati nell’indirizzare il problema della legalità nell’arresto compiuto dalla polizia” umani sia direttamente incorporato nella legge del Kosovo, più recentemente attraverso il Costitutional Framework”.

Per ciò che riguarda la detenzione, due sono i filoni d’inchiesta che la LSMS (Living standard measurement study) sta svolgendo: a) Uno sulla Detenzione su ordine esecutivo dell’SRSG, b) L’altro sulla Detenzione su ordine del COMFOR. Per ciò che riguarda il primo argomento, la LSMS nota come nei precedenti rapporti, la pratica di detenere degli arrestati solo su ordine esecutivo dell’SRSG veniva ritenuta in chiaro contrasto con la Convenzione Europea dei Diritti Umani (ECHR) e l’Accordo Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR) , specialmente quando si verificavano dei frequenti casi di ordine esecutivo emanato dopo il rilascio dell’arrestato. Infatti, non esiste possibilità di controllo della legittimità dell’ordine impartito e la possibilità di influire sugli effetti della decisione giudiziale di rilascio pone un serio dubbio sull’attuazione del principio di separazione dei poteri e sulla certezza stessa delle norme giuridiche di garanzia dell’arrestato. Anche l’Ombudsperson, ha portato decise critiche all’utilizzo di questa pratica.

In seguito alle decise prese di posizioni di queste istituzioni, l’SRSG ha giustificato queste detenzioni “speciali”, affermando che esse sono state disposte solo quando altrimenti si sarebbe verificato un serio danno o pregiudizio di particolare entità. Per definire tecnicamente quali siano questi casi, si forniscono dei parametri che riguardano:
a) Il merito della violazione (che deve essere di particolare gravità),
b) La minaccia alla sicurezza che può derivare dal rilascio,
c) Una seria base per ritenere che permettendo al caso di proseguire senza quell’ordine esecutivo, si compirebbe una manipolazione del caso stesso da parte dei pubblici ufficiali coinvolti.
Parlando di manipolazione degli ufficiali coinvolti, per il principio di responsabilità, dovrebbe aprirsi parallelamente ad ogni ordine esecutivo, un procedimento a carico degli ufficiali coinvolti, eppure nessun provvedimento s’è mai levato contro alcun giudice, ausiliare o ufficiale di polizia giudiziaria in casi del genere. Inoltre la figura del SRSG si pone de facto come istituzione parallela a quella giudiziaria, potendo agire senza alcun controllo sugli effetti dei provvedimenti giudiziari emessi.

Da poco è stata creata una Commissione di Controllo per le Detenzioni Extra-Giudiziali Basate su Ordini Esecutivi, e ciò dovrebbe assicurare una maggiore garanzia. La Commissione, nel valutare se una detenzione extra-giudiziale sia o meno fondata e nel considerare se sia presente un forte sospetto nei riguardi della persona indiziata, dovrebbe anche accertare:
a) che non abbia identità certa o che esistano altri sospetti di fuga;
b) che ci siano forti sospetti di inquinamento delle prove, come distruzione delle tracce del reato, intimidazioni dei testimoni, favoreggiamenti;
c) particolari circostanze che giustifichino il timore d’una ripetizione o un tentativo di ripetizione del reato o la paura della commissione di un nuovo reato.

Questa normazione ricalca quella sulle misure cautelari nei sistemi giuridici occidentali e perciò
sembrerebbe rispettare gli standard auspicati dai Rapporti del SG, sennonché essa comunque opera un controllo di legittimità su un atto dalle basi giuridiche incerte (questa tipologia di detenzioni extragiudiziali non si rinviene in alcun ordinamento interno né è contemplata dal diritto internazionale generale), che delle volte segue una pronuncia giudiziale di senso difforme (secondo lo schema: arresto, rilascio su pronuncia dell’Autorità Giudiziaria, detenzione per ordine esecutivo, Controllo di legittimità dell’apposita Commissione). Secondo il comune senso giuridico questo ulteriore passaggio appare come estraneo e processualmente contorto anche se esso si fonda nella situazione di estrema incertezza e difficoltà applicativa che caratterizza l’ordinamento kosovaro.

Inoltre, ed è questa forse la più strana delle norme che regolano le attività della suddetta Commissione, i suoi membri, convocati solo in seduta straordinaria e per un numero limitato di casi, dipendono dall’SRSG, vengono nominati dall’SRSG e possono essere da esso rimossi, e ancora l’SRSG partecipa alla discussione di tutti i casi in esame. Sostanzialmente l’autorità controllata ha quindi facoltà di intervento nell’esercizio del controllo, partecipa attivamente all’esercizio: ciò sembra costituire un palese paradosso. La Sezione di Monitoraggio del Sistema Giuridico dell’OSCE riporta come la Corte Europea sui Diritti Umani abbia da tempo affermato che questa soggezione privi quest’ente della qualifica di indipendente.

Il secondo dei filoni d’inchiesta OSCE riguarda il caso di persone detenute per ordine dell’Autorità di Sicurezza, nello specifico su ordine del Comando KFOR(Kosovo Force). Possiamo affermare che la KFOR sia tenuta al rispetto dei diritti umani per una serie di motivi che possiamo facilmente riportare:
a) La Risoluzione 1244 riporta tra i fini dell’intervento il rispetto e la promozione dei diritti umani,
b) Garantendo la Sovranità della FRY(Former Republic off Yugoslavia), rimangono anche intatti i doveri di rispetto dei diritti umani da parte di questa e, non potendo questa materialmente ottemperarvi, dovrebbe provvedervi l’Autorità che di fatto detiene il controllo del territorio della Missione, quando ancora non s’era instaurato neanche in nuce un apparato giudiziario e si doveva provvedere a tutti quei casi di crimini internazionali perpetrati (presuntamente o realmente) e garantire un ordine pubblico iniziale,
c) La KFOR si compone di vari contingenti nazionali di paesi che hanno ratificato convenzioni internazionali sul rispetto dei diritti umani e quindi non possono non esercitarli nell’ambito delle loro attività, neanche se esse si svolgono all’estero, fuori dai confini nazionali.

Chiarito questo, potremmo affermare che le uniche detenzioni su ordine di un’autorità militare ammesse siano quelle previste dal diritto internazionale. Non essendo questa forza in stato di guerra o occupazione, non potendo dettare o imporre leggi marziali, non essendo tenutaria di alcuna funzione amministrativa in senso stretto, ma unicamente di un potere di cooperazione con la componente civile UNMIK per garantirne sicurezza e appoggio anche coercitivo, si evince come le uniche ipotesi in cui essa possa effettuare delle catture o detenzioni siano limitate ai casi in cui essa abbia uno specifico mandato dell’UNMIK oppure essa costituisca una minaccia alla pace e sicurezza. Ebbene possiamo affermare che l’imprigionamento di persone sospettate di aver commesso un crimine comune certo non soddisfi la seconda delle ipotesi menzionate.

A parte sostenere lo stato d’emergenza, l’SRSG ha ritenuto valide queste custodie nei casi in cui il
Comando KFOR sia: “impossibilitato a rendere palesi importanti informazioni, inclusi i servizi di
intelligence”. In ogni caso i soggetti detenuti dovrebbero per lo meno partecipare in organizzazioni che attentino alla pace e sicurezza, che mettano a repentaglio “quell’ambiente sicuro per tutte le persone del Kosovo” auspicato nella Risoluzione n. 1244.

Conviene ora presentare l’altro ordine di limiti che interessano gli atti normativi o esecutivi dell’UNMIK: quello derivante dallo studio della prassi amministrativa formatasi a seguito degli interventi di peacekeeping delle N.U. nelle più diverse aree del mondo. Dapprima dovremo individuare la continenza di codesti limiti, poi, attraverso l’enunciazione delle missioni svolte, scoprire se esistano analogie o estensioni tra i modelli applicati ed estrapolare quindi i caratteri comuni, anche con una certa flessibilità. Infatti ogni missione presenta caratteri operativi difformi, adatti alla situazione, ai problemi e agli scopi prefissati nel proprio mandato.

Alcuni autori hanno già da tempo analizzato il quadro offerto dalle passate Peacekeeping Operations, partendo dagli interventi avvenuti nel sistema della Lega delle Nazioni e procedendo fino ai giorni nostri, secondo un percorso che ha visto notevolmente allargare i compiti e le prospettive delle missioni, man mano che il mondo abbandonava la visione geopolitica dei due grandi blocchi contrapposti e rapidamente si indirizzava verso tendenze centrifughe regionali che portavano un incredibile indebolimento delle strutture politico-governative su scala planetaria. Eppure possiamo dividere questi interventi in tre grandi gruppi, a seconda del maggiore o minore coinvolgimento delle N.U. nell’amministrazione e nel governo, senza per questo marcare delle divisioni secondo criteri temporali che poco dicono o significano: ad esempio si sono fatte delle similitudini tra le missioni attuali e il modello di mandato in vigore nel sistema della Lega delle Nazioni, trovando in questo un archetipo interessante .

I gruppi che si intendono formare sono ordinati in base alla progressiva intensità dei compiti amministrativi affidati alle N.U. e riguardano i casi in cui il compito della presenza internazionale concerne solamente un’Assistenza Governativa, oppure casi in cui si riscontra una vera e propria Delegazione Provvisoria di Parte dei Poteri Governativi e infine circostanze in cui l’autorità internazionale assume completi poteri di autogoverno. Il caso del Kosovo certamente può essere iscritto nell’ultimo di questi grandi gruppi, dato che risulta completamente senza precedenti l’ampiezza di poteri attribuiti all’UNMIK. In tutte le missioni citate nel titolo, ossia Libya, Congo, Haiti, le N.U. si sono trovate a fornire un’assistenza governativa ad autorità già insediate, fornendo agenti in grado di fornire aiuto in settori amministrativi fortemente carenti. In Libia (1949–1951) si doveva provvedere a dar soluzione al mancato accordo degli Alleati con l’Italia sullo status del Paese. Seguì un deferimento della materia all’Assemblea Generale che nominò un Commissario con il mandato di creare un governo centrale unificato e una Costituzione, aiutando Francia e Regno Unito nell’amministrazione.

In Congo (1960–1964) l’intervento fu il prodotto di una formale richiesta del governo nato a seguito della guerra civile negli anni precedenti. Qui il compito spettante alle N.U. consisteva nel mantenimento dell’integrità territoriale e politica dello Stato e nel fornire assistenza tecnica al governo (per la verità il mandato finiva con l’essere piuttosto vago, data l’estrema ampiezza e imprecisione).

In Namibia e Angola (UNTAG(U.N. Transition Assistance Group in Namibia)1989–1990), le N.U. avevano come potere più rilevante quello dell’abrogazione delle norme di legge discriminatorie che potessero intralciare l’obiettivo di nuove e libere elezioni e come mandato quello del favorire il rientro dei rifugiati a seguito della guerra civile, mentre il Sud Africa continuava ad esercitare tutti i poteri governativi.

Infine ad Haiti (1993–1996), è necessario dividere in due tronconi la storia della missione nata a seguito del celebre Accordo dei Governatori (Governors Island Agreement): mentre all’inizio, nel ’93, il mandato ma il Sud Africa non s’era stato disposto ad accettare la missione almeno fino al 1988, quando pose fine alla travagliata storia istituzionale del paese prevedeva la modernizzazione delle forze armate e l’istituzione di una nuova forza di polizia, nel ’94, a seguito dell’intervento militare americano, i compiti della missione si allargarono fino a ricomprendere l’assistenza al governo nello svolgimento delle proprie incombenze. In particolare la missione, pur continuando a verificare l’effettivo adempimento da parte delle autorità haitiane degli obblighi relativi alla tutela dei diritti dell’uomo poteva contribuire anche, nei limiti delle proprie possibilità, alla promozione e al rafforzamento delle istituzioni democratiche.

Come si vede, tutte le missioni enunciate si caratterizzano per la circostanza di fungere da strumento di mero supporto ad autorità già insediate in un territorio. Laddove queste si rendano lacunose in settori nevralgici della macchina governativa, le autorità delle N.U. provvedono in un’assistenza tecnica dai contorni sia indefiniti, ma che si sostanzia in interventi dalle possibilità assolutamente limitate e idonei a contribuire solo parzialmente alla corretta amministrazione del paese interessato.

La facoltà di abrogazione degli atti normativi discriminatori in Namibia sicuramente pone le autorità internazionali sullo stesso gradino gerarchico rispetto alle corrispondenti sudafricane, ma la funzione di queste è e rimane quella del controllo, non quella della produzione normativa, come invece accade all’UNMIK. Se poi guardiamo al Congo, non sarà difficile”. L’unica cosa che avvicina il Kosovo alla missione in Libia è la preparazione di una costituzione, che nel caso del Kosovo si rinviene nel Costitutional Framework rinvenire delle differenze marcate laddove là si cercava si mantenere l’unità politica e territoriale, qui (in Kosovo) si separa la regione dallo Stato che formalmente rimane in piena sovranità e ne si frattura l’unità politica promovendo una “sostanziale autonomia e autogoverno. L’intervento ad Haiti invece presenta dei caratteri comuni nell’intenzione di inserire, fin dai primordi, principi democratici di governo nelle istituzioni assistite. Questa concezione democratica delle strutture di autogoverno istituite dalle N.U. sarà oggetto di riflessione.

La seconda delle parti che si intendono formare riguarda un gruppo di missioni caratterizzate da una delega di veri e propri poteri amministrativi: in sostanza qui alle N.U. si attribuiscono funzioni governative esclusive in alcuni settori; un passo avanti rispetto alle ipotesi analizzate nel capo precedente, in quanto proprio il carattere dell’esclusività conferisce a questo insieme le caratteristiche che lo compattano.

Le prime due amministrazioni, ovvero quella della Saar (1920–1935) e la Custodia della Città di Danzica (1920–1938) hanno preso vita in un sistema assai diverso da quello delle N.U.; infatti il sistema di mandato della Società delle Nazioni prevedeva che fosse uno stato mandatario ad amministrare il territorio e fosse vincolato alla promozione dello sviluppo e del benessere. In realtà l’unico controllo che la Società esercitava su di esso erano dei rapporti che la potenza mandataria era tenuta a consegnare annualmente alla Commissione Permanente sui Mandati e non erano previsti minimamente meccanismi di controllo aggiuntivi o forme di responsabilità. Entrambi gli interventi citati nacquero a seguito del Trattato di Versailles al termine della Prima Guerra Mondiale per favorire una transizione indolore al nuovo ordine instauratosi.

La Saar infatti, al centro delle mire incrociate di Francia e Germania per le ricche miniere, fu per parecchi anni amministrata da una commissione di cinque saggi nominati dalla Società delle Nazioni. Formalmente veniva rispettata la sovranità tedesca ma nella sostanza si cercò di favorire una progressiva “francesizzazione della regione”, che poi non ebbe esito date le note vicende che portarono al secondo conflitto mondiale. Lì i saggi avevano facoltà di legiferare per quanto richiesto con decreti su materie assegnate, come polizia, trasporti e proprietà pubblica. Nella Custodia della Città di Danzica, alla Società furono assegnate funzioni di governo in base al Trattato di Versailles. La Società questa volta agiva in prima persona nei compiti affidatigli e cioè preparare una costituzione della città che la rendesse indipendente dalla Polonia e dall’influenza tedesca.

I modelli di amministrazione in Cambogia (1991–1993) e Bosnia (1995–giorni nostri) si assomigliano molto, anche perché la loro nascita è stata progressiva e le situazione sul campo simile nei connotati storici e politici. In entrambi i casi, presupposti del mandato sono due trattati di pace che mettono fine a durature e cruente guerre civili e in entrambi i casi le funzioni riservate alle N.U. sono incisive ma prevedono comunque il riconoscimento di un’autorità governativa già insediata a seguito dei trattati.

In Cambogia la missione nacque a seguito della firma dell’Accordo di Pace di Parigi tra le quattro fazioni in lotta. Le autorità amministrative internazionali avevano le seguenti componenti: amministrazione civile e ordine pubblico interno, funzioni militari, organizzazione e svolgimento di elezioni libere e eque, la tutela dei diritti dell’uomo, il rimpatrio dei rifugiati e dei profughi, nonché alcuni compiti relativi alla ricostruzione delle infrastrutture statali nel periodo transitorio. Il dato per il nostro lavoro più significativo però, consiste in quello che rileva come fosse prevista la possibilità per il Rappresentante Speciale del Segretario generale di adottare provvedimenti legislativi qualora il Supremo Consiglio Nazionale (SNC) fosse impossibilitato a causa dell’ostruzionismo parlamentare o del completo disaccordo tra i componenti l’organo. Dapprima le materie in cui gli si consentiva di adottare provvedimenti erano scarse, ma poi si allargarono ricomprendendo materie finanziarie, informazione e politica estera. Sicuramente ciò poneva la figura del RS in una posizione analoga a quella dell’organo legislativo esecutivo, ma comunque queste facoltà gli erano state attribuite da un trattato internazionale e quindi le N.U. operavano con il pieno consenso delle Autorità Locali che delegavano appunto settori dell’esecutivo, ma mantenevano la piena sovranità e libero esercizio degli stessi poteri. Non sembra necessario a questo punto segnare le differenze col Kosovo, dove la reale autorità governativa risiede nell’SRSG e un organo legislativo esiste da poco ma è totalmente soggetto alle autorità UNMIK.

In Bosnia, al termine degli Accordi di Dayton (DPA) del ’95, l’Autorità Internazionale investita di
funzioni amministrative è l’Alto Rappresentante (HR), ufficialmente un’istituzione mandataria di alcuni stati nazionali (quelli del gruppo di contatto per la Bosnia) che sostanziano le presenza internazionale nella regione. Come nel caso della Cambogia, egli ha un potere di azione positiva nell’emanazione di norme in caso di fallimento da parte degli organismi statali ad esso preposti, come lì è stato autorizzato a rimuovere funzionari pubblici dall’ufficio e la sua autorità proviene direttamente dagli Accordi e dalla successiva conferenza tenutasi a Londra l’8 e 9 Dicembre 1995 (P.I.C., Peace Implementation Conference). Anche in questo caso non possiamo parlare di un modello amministrativo comparabile col Kosovo, sebbene addirittura tra le figure politiche vi sia chi ha previsto un’evoluzione della regione verso un modello amministrativo di stampo bosniaco, composto da istituzioni gemelle a quelle sopra enunciate.

In quest’ultimo gruppo (Trieste, Somalia, Slavonja) vengono raccolti gli interventi che hanno significato per le N.U. un completo assorbimento di ogni funzione amministrativa e che quindi potrebbero servire da modello operativo per segnare i limiti consuetudinari dell’UNMIK. È stata volutamente esclusa la Missione a Timor Est (UNTAET, U.N. Transition Authority in East Timor) che non costituisce un precedente, data la coincidenza temporale con quella kosovara e le circostanze applicative simili; peraltro molti autori già trattano le due come un’unica esperienza giuridico–amministrativa.

L’Amministrazione del Libero Territorio di Trieste (1947–1954) nacque come modello di amministrazione per la città a seguito della II Guerra Mondiale, trovando il proprio mandato nel Trattato di Pace tra Alleati e Italia del 1947. Rimase comunque un progetto realizzato solamente a livello concettuale in quanto, come sappiamo, il destino della città venne risolto da un Memorandum con la Jugoslavia nel 1954 e da un Trattato con la stessa nel 1975. Sebbene quindi mai pienamente applicato, questo modello realizza in realtà una situazione di completa assunzione di ogni potere statuale nelle mani dell’autorità internazionale.

Secondo lo Statuto della città il Consiglio diveniva il supremo organo amministrativo e legislativo, con un potere di veto sugli atti del governo, anche negli affari interni, qualora fossero in contrasto con lo statuto. Con l’ideazione della Missione, si fecero presenti i primi malumori all’interno del Consiglio.

In Nuova Guinea Occidentale (1962–1963), si è realizzato forse uno degli esempi meglio riusciti d’amministrazione internazionale: questa fu possibile grazie al mandato conferito dal trattato di pace tra i governi di Olanda e Indonesia. Le N.U. operarono attraverso la nomina di ufficiali di governo con pieni poteri legislativi rivolti al mantenimento della legge e alla preservazione dell’ordine pubblico. Nota da rilevare è quella relativa al nuovo sistema giudiziario instaurato e ai nuovi Consigli regionali, istituzioni create allo stesso modo dall’UNMIK, anche se vedremo, su presupposti diversi. Ancora la legislazione UNTEA si rivolse verso i settori della pubblica istruzione ed educazione. La scarsa durata del mandato e la situazione interna stabile fu probabilmente alla base del successo dell’intervento, infatti il secondo periodo della missione (1968–1969) non ebbe i risultati del primo, in quanto nel frattempo i poteri del RS si erano ridotti al rango di pareri da riferire alle autorità indonesiane, pareri spesso ampiamente ignorati.
La Somalia (1992–1995) rappresentò invece un episodio di vero insuccesso per la compagine internazionale, dato che la missione naufragò nel ’95 dopo ripetuti e violentissimi attacchi da parte delle fazioni somale al contingente internazionale che partendo lasciò il Paese in preda alla guerra civile. La Missione prese il via al seguito di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza adottata poco tempo dopo un formale accordo di pace firmato dalle fazioni in lotta ad Addis Abeba; accordo che comprendeva la creazione del Consiglio Nazionale di Transizione; in particolare esse provvidero alla ricostruzione del sistema penale e giudiziario, circostanza analoga a quanto fatto dall’UNMIK. (TNC), autorità di riferimento che si prefiggeva di condurre il Paese alla normalizzazione. Fino alla creazione del TNC e per un anno dopo la firma dell’Accordo, le Nazioni Unite agirono come autorità primaria di governo, supportate solamente da un organismo consultivo.

In Est Slavonia (1996–1998) la missione è stata coronata da un pieno successo. Questa è forse una degli interventi meno conosciuti delle N.U., nato dall’Accordo di Pace tra FRY e Croazia del ’95 e dall’adozione di una risoluzione del Cds che ne esplicitava il mandato conferendo una durata temporale specifica che avrebbe avuto fine due anni più tardi, quando la Croazia (e così è stato) si sarebbe riappropriata della provincia. Il mandato comprendeva la costituzione e l’addestramento di una nuova forza di polizia, il controllo del sistema carcerario, l’amministrazione civile e i servizi pubblici. L’autorità amministrativa avrebbe anche avuto il compito di organizzare elezioni regionali, curare il sistema degli affari pubblici ed elaborare piani di sviluppo economico e ricostruzione, vigilando attentamente sul rispetto dei diritti umani.

Si vede come questa missione si avvicini particolarmente a quanto è accaduto in Kosovo, sebbene i presupposti della Missione siano in parte diversi: qui il mandato proviene da due autorità statali che conferiscono alle N.U. il completo esercizio dei poteri che formalmente rimangono in capo al Governo croato. Eppure, guardando le situazioni in Kosovo e in Slavonia da un punto di vista più prettamente fattuale, rinverremo come nella sostanza in entrambi i casi le autorità amministrative internazionali abbiano legiferato in ogni campo inerente alla macchina pubblica, abbiano derogato a norme esistenti e ne abbiano create altre con lo stesso peso giuridico.

Certamente in Slavonia non si sono abbandonate ad un completo stravolgimento dell’impianto normativo, né hanno istituito autorità che convogliassero in sé l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario assieme, come nel caso dell’UNMIK. Però hanno elaborato piani di ricostruzione economica e addestrato una forza di polizia, anche se quest’ultimo dato non sembra decisivo, in quanto ciò è stato fatto anche in missioni di semplice assistenza governativa.

Guardando alle altre amministrazioni componenti il gruppo, l’Amministrazione del Libero Territorio di Trieste è si un’esperienza dalle caratteristiche simili al Kosovo, ma mostra un progetto rimasto sulla carta e non possiamo così tentare di analizzarne neppure gli esiti, dato che essi non si sono mai realizzati. Il progetto comunque, come visto, ha dato adito anche a polemiche, polemiche si subito ribattute, ma che certo la dicono lunga sui dubbi che un’attribuzione totale di poteri può suscitare.

Non ci sentiamo di poter prendere la missione in Somalia come esempio, essenzialmente per il fatto storico che sottende e per il completo fallimento che la chiuse. Resta la Nuova Guinea, ove e anche qui valgono le considerazioni svolte a proposito della Slavonia riguardo alle differenze di nascita, coinvolgimento delle istituzioni e stravolgimento dell’impianto normativo, sebbene anche in questo caso troviamo molti punti in comune con la politica UNMIK (nuovo sistema giudiziario, nuovi consigli regionali (…)”.

Ma il dato che davvero marca il Kosovo come unprecedent è il fatto che esso poggi su un mandato ONU conferito esclusivamente in base al Capitolo VII della Carta, cioè sia un’amministrazione che rappresenta unicamente un mezzo di cessazione di minacce alla pace e alla sicurezza internazionali. La circostanza che la Risoluzione n. 1244, nel delineare esplicitamente il mandato di questa amministrazione, operi uno specifico richiamo all’M.T.A. e che quindi formalmente l’FRY abbia accettato l’istituzione dell’UNMIK, non intacca il suo carattere strumentale e assolutamente nuovo nel panorama internazionalistico. Essa è la più intensa forma di amministrazione territoriale che sia stata praticata dalle NU.

I documenti e comunicati stampa delle istituzioni, degli organi, degli uffici dell’UNMIK purtroppo non contengono una definizione giuridica della situazione in Kosovo. Certamente è forte il richiamo alla:
“sovranità e integrità territoriale della FRY” nelle risoluzioni ufficiali, ma poi questo concetto si perde nei documenti seguenti, quali per esempio i rapporti del Segretario Generale seguenti alla Risoluzione n. 1244. Certamente una qualunque definizione, anche minima, riportata all’interno di qualunque documento ufficiale, implicherebbe uno Status ufficiale della regione, status che le autorità internazionali si limitano a definire “territorio o provincia amministrato dalle N.U”.

1. LIAKOPOULOS, L'ingerenza umanitaria nel diritto internazionale e comunitario, ed. Padova, 2007.
2. LIAKOPOULOS, Equo processo nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo e nel diritto comunitario, ed. Cedam, 2007.
3. LIAKOPOULOS, VITA, L'attività svolta dalle Organizzazioni non governative nella protezione dei diritti dell'uomo:
Promozione e prevenzione, in Rivista Diritto e Diritti, 2008, e LIAKOPOULOS, VITA, Il ruolo delle Organizzazioni non governative (ONG) nei meccanismi giudiziali e quasi giudiziali di tutela dei diritti dell'uomo, in Rivista Diritto e Diritti, 2008.
4. KORHONEN, International governance in post-conflict situations, in Leiden journal of international law, 2001, pp. 504 ss.
5. RATNER, The new UN peacekeeping. Building peace in lands of conflict after the cold war, Basingstoke, Macmillan, 1995.

Nessun commento:

Posta un commento