8 dicembre 2011

Volontari di Pace

Chi ha una passione, un’intuizione, un sogno nel cassetto, un progetto, troppe volte deve andare via, lontano dalla madrepatria che delude e illude

Di Giuseppe Malpeli

Che il nostro paese abbia la surreale capacità di far scappare all’estero i propri talenti è un’amara verità. Non ci sono solo i cervelli in fuga tra quelli che si imbarcano per un viaggio di sola andata. Ci sono anche i creativi.
Ci sono e, io ne ho incontrati molti nel tragitto Milano, Bangkok, Rangoon (Birmania),quelli che potremo definire dei visionari. Degli ostinati. Degli espatriati per caso. Sono tanti, giovani e non più giovani quelli che si sentono fuori luogo in Italia e una volta fuori dall’Italia cercano (a volta senza trovarlo) e trovano (a volta senza cercarlo), l’habitat naturale per i loro sogni, i loro progetti, le loro fantasie.
Il nostro paese infatti è sempre più arido e avaro di stimoli per chi voglia osare. Per chi in nome di grandi ideali quali la pace, la non-violenza, l’attenzione agli ultimi della terra, vuole stare, mettersi alla prova. Chi ha una passione, un’intuizione, un sogno nel cassetto, un progetto, troppe volte deve andare via, lontano dalla madrepatria che delude e illude. Che non capisce. Che appare sempre più refrattaria nel comprendere cosa significhino veramente parole quali solidarietà, accoglienza, ospitalità, generosità e diritti.
E’ in atto una fuga di intelligenze ma anche di umanità.
Sono storie di donne e uomini che non hanno fatto che seguire per centinaia di chilometri la propria vocazione. Storie dei nostri tempi, storie di un paese bizzarro il nostro, che acclama con orgoglio chi rientra in patria dopo aver vinto un Oscar o il Nobel. Ma poi ignora chi semplicemente cerca di dare ciò in cui crede e ciò che sa fare. Non sono geni, spesso neppure disoccupati, ma spiriti liberi, che non rinnegano la loro italianità, ma che non si riconoscono in una nazione che invecchia, ristagna, appiattisce, si alimenta e alimenta paure e xenofobie.
Abituati all’improvvisazione, una volta giunti sul posto, acquistano fiducia in se stessi, gettano semi senza la pretesa di vedere la pianta fiorita, costituiscono opportunità, chiedono di essere messi alla prova.
Dal nulla si inventano un mestiere e si costruiscono un percorso di vita. Un progetto di vita. Un futuro. Restituendo a se stessi attraverso la pratica di un lavoro appagante, e ottenuto con le proprie forze, un’immagine più autentica e completa della propria identità e del senso della propria vita. Rappresentano per molti uno slancio di speranza per chi sa ancora sognare per chi cerca giustizia e uguaglianza come se fossero mete possibili, per chi ha ancora sogni e non vuole rinunciare.
Una nuova generazione di migranti nel nome di una comune umanità. Cittadini del mondo. A loro dedico questa immagine che ritrae bambini birmani nella loro semplicità e naturalezza. Quei bambini che forze senza saperlo, ho sempre cercato e che ora ho trovato e non riesco più ad abbandonare.
Anch’io pur se in modo molto più modesto, ho avuto la fortuna di appartenere a questi migranti sempre inquieti e senza un domicilio stabile o fissa dimora. In uno di questi viaggi ho conosciuto Luca. Le sue vacanze le trascorre da solo e da sempre in un campo profughi al confine tra la Birmania e la Thailandia. Con pochi rami e canne di bambù riesce a costruire case più che dignitose. Perfino con un po’ di gusto estetico. E’ in questi luoghi miserabili che bisogna avere cura del dettaglio, è come restituire un po’ di dignità a chi non ha nulla, così mi ha descritto lo scopo del suo intenso lavoro in mezzo a tante difficoltà di ogni tipo.
Un designer di umanità.
In Italia per essere famosi devi progettare grandi opere: ponti, autostrade, palazzi o centri commerciali. Qui ogni piccola o grande foglia che metti al posto giusto e che impedisce all’acqua spesso violenta e distruttiva per via dei monsoni, di entrare nelle case e riparare questa povera gente è davvero una grande opera!
Molti architetti si troverebbero in difficoltà.
Poi, viene il tempo nel quale sembra che il viaggio sia terminato. Ma, ne inizia uno ancora più complicato: quello interiore che cerca il senso di tutto ciò che si è realizzato e incontrato in luoghi sperduti e con persone intensamente amate anche per pochi istanti.
Ma, ancora una volta si osa e ci si mette in viaggio senza paura. Nelle strade del proprio quartiere, nelle baracche dove alloggiano gli zingari fuori porta, nella mensa della parrocchia, nel proprio condominio.
In cerca di pace, sapendo che questa non è esente dal conflitto contro l’ingiustizia.

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