8 dicembre 2011

Ernest Bethell è una bagliore nella sventurata storia della Corea del '900

Un uomo occidentale si aggira solitario nelle strade di Seoul. Non è uno dei pochi funzionari che lavorano nella manciata di consolati europei, ma un giornalista destinato a sacrificare la sua vita per la Corea, e per la libertà di stampa

di Matteo Salonia

In uno sperduto angolo d’Asia, tra montagne nebbiose e mari gelidi, sta l’Ultimo Regno: la Corea. Silenzioso luogo di tradizioni che si intrecciano, una penisola tra due imperi, un popolo che si fa nazione moderna tra timori e contraddizioni, a cavallo di due secoli opposti: l’ottimismo dell’800 e la tragedia immane del ‘900. Il primo si chiude in una notte d’ottobre del 1895, con un’ombra macabra: sicari giapponesi che strisciano nei corridoi e nei giardini del Palazzo Reale, lama assassina che trafigge la regina, rivoltante arroganza dissacratrice che ne carbonizza e ne smembra il corpo. Simbolo di un’indipendenza giovane e già sfiorita, trucidata dalle ristrettezze geografiche di chi sopravvive a stento tra i due giganti d’Asia: Cina e Giappone.
Il “secolo breve” si dichiara subito lunghissimo per la nazione coreana, come il peggiore degli incubi, immediatamente umiliata da un Protettorato imposto (1905) e da un’Annessione annunciata (1910). Il colonialismo giapponese che fagocita la Corea è un disegno oscuro che si compie dopo secoli di attacchi, invasioni, e fiera resistenza. Questa volta, non c’è alcun Sun Sin Yi (il geniale ammiraglio che nel XVI secolo aveva respinto numerose invasioni giapponesi) a salvare l’Ultimo Regno. Ed è troppo acerbo il principio di autodeterminazione dei popoli che batte nel cuore dell’uomo bianco, il quale anzi strizza l’occhio al Giappone e ne alimenta i miti modernisti e tecnologici.
In questa Corea di inizio ‘900, colonizzata, umiliata e dimenticata, un uomo occidentale si aggira solitario nelle strade di Seoul, tra i mercati popolari di Namdaemun e i ritrovi degli intellettuali nel quartiere Insadong. Non è uno dei pochi funzionari che lavorano nella manciata di consolati europei, ma un giornalista destinato a sacrificare la sua vita per la Corea, e per la libertà di stampa.
Ernest Bethell, cittadino britannico, era un reporter del London Daily Chronicle ed arrivò in Corea nel 1904 per seguire la guerra russo-giapponese (1904-1905). Inizialmente, Bethell ammirava il Giappone, dove aveva vissuto e lavorato per qualche anno, e ne giudicava positivamente il coinvolgimento in Corea. Ma trasferendosi a Seoul ed essendo stato testimone sia della fine dell’indipendenza coreana (con il Protettorato del 1905) sia del tracotante atteggiamento nipponico (con un sistema di censura imposto a tutti i giornali locali a partire dall’agosto del 1904 e reso ancor più severo nel 1907), Bethell decise di abbandonare la sua testata inglese e di fondare un giornale a Soul, che stampasse quotidianamente sia in coreano che in inglese. Nacque così il TaeHan Maeil Sinbo (the Korea Daily News).
Il Korea Daily News divenne ben presto l’ultimo baluardo del nazionalismo coreano, ed allo stesso tempo il peggior mal di testa per Ito Hirobumi, governatore generale giapponese in Corea. Mentre tutti gli altri giornali locali erano costretti a chiudere o a fare i conti con la pesantissima censura di Hirobumi, il Korea Daily News godeva della speciale protezione garantita dalle leggi internazionali ad Ernest Bethell, essendo egli suddito britannico. Così, in un momento drammatico della storia coreana, con l’Imperatore Kojon che si apprestava ad abdicare (primo passo verso l’annessione) e scioglieva l’esercito, mentre le truppe giapponesi irrompevano nelle campagne del sudovest a soffocare nel sangue le ribellioni indipendentiste dei contadini, Bethell poteva permettersi di criticare apertamente il Giappone sulle colonne del suo giornale. All’inizio di quello che é stato definito da storici illustri come Ch’oe Chun “il periodo buio” della libertà di stampa in Corea, Bethell sfidava apertamente Hirobumi, ospitando sul Korea Daily News editoriali scritti dai più noti oppositori del regime coloniale, da Yang Gi-tak a Park Eunsik.
Come provato da Chin-Sok Chong nel suo libro “The Korea Problem in Anglo-Japanese Relations” (1987), l’attività di Bethell era intollerabile per gli ufficiali giapponesi, che temevano sia la diffusione del Korea Daily News nel resto dell’Asia sia il sentimento anti-nipponico fomentato dall’edizione coreana del giornale. Ben presto, Tokyo iniziò un pressing diplomatico su Londra, per ottenere la deportazione di Bethell e la chiusura del suo organo di informazione. Inizialmente, gli inglesi non volevano rinunciare al principio dell’extraterritorialità: trascinare Bethell in tribunale su invito di una potenza straniera avrebbe rappresentato un’umiliazione per Londra ed una negazione del principio internazionale che garantiva libertà ai cittadini britannici ovunque nel continente asiatico.
Tuttavia, nell’ottobre del 1907, i giapponesi minacciarono apertamente l’incolumità di Bethell, e gli inglesi decisero di cedere, per evitare un fastidioso scontro diplomatico con il Giappone, che era una potenza nascente ed un alleato strategico. Quindi Bethell, convocato da una corte britannica nel novembre 1907, fu giudicato colpevole di “eccitamento dell’ordine pubblico” e la sua attività fu posta sotto osservazione per sei mesi, con la minaccia di una pesante multa. Ma questo provvedimento era lievissimo agli occhi dei giapponesi, che pretendevano la deportazione del giornalista-editore, in modo da avere le mani libere e poter chiudere il suo giornale. Nel giugno 1908, la lunga battaglia diplomatica fu vinta da Tokyo: gli inglesi convocarono una seconda volta Bethell. L’ultima. Giudicato colpevole e recidivo, fu condannato a tre settimane di prigione a Shanghai e morì dopo pochi mesi a Seoul, dove era appena rientrato per proseguire la sua attività, all’età di 36 anni.
Negli anni successivi, la Corea perse ogni parvenza di indipendenza e fu annessa all’Impero giapponese, rimanendo brutalmente occupata fino al 1945. La figura di Ernest Bethell, simbolo della libertà di stampa, è ancora oggi interessante per comprendere come il colonialismo giapponese non si fosse limitato solo alla sottomissione manu militari, ma come esso avesse l’ambizione di strappare l’anima stessa del popolo coreano. Quindi i coreani non produssero solo resistenza armata nelle campagne, ma una vera e propria resistenza culturale. Gli intellettuali di Seoul ospitati da Bethell sulle colonne del Korea Daily News chiedevano l’indipendenza attraverso la denuncia dei crimini e delle bugie giapponesi, ma anche attraverso un processo culturale di ridefinizione del concetto di nazione. Come spiegato da Andre Schmid in “Korea Between Empires” (2002), nel cuore dei coreani la nazione perse i tratti della territorialità per rifugiarsi negli ambiti della storia, della tradizione e dello spirito. Là dove gli stivali dei soldati giapponesi non potevano arrivare.

Ripreso su autorizzazione da L’Occidentale: http://www.loccidentale.it/node/109286

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