L’impostazione di Helsinki offrì una possibilità di soluzione: la libertà
di espressione e di associazione e il metodo elettorale democratico.
di Antonio Stango
Quarant’anni
fa – esattamente, il 1° agosto del 1975 – veniva firmato a Helsinki l’Atto
Finale della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, che aveva
riunito per circa due anni i rappresentanti di 35 Stati: tutti quelli europei
di allora con le sole eccezioni di Albania (che aveva scelto l’isolamento) e
Andorra, nonché gli Stati Uniti e il Canada. Si trattava di trovare importanti
punti d’incontro fra Stati del ‘blocco sovietico’, Stati membri della NATO e Stati
neutrali, con regimi politici, economici e sociali molto diversi.
Elemento essenziale
di quello storico documento e dell’intero processo che avrebbe portato alla
costituzione della OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in
Europa) era la forte affermazione del legame fra pace e diritti umani: un
governo che non rispettasse i diritti umani e le libertà fondamentali dei
propri cittadini era, in sostanza, ritenuto non affidabile sul piano delle
relazioni internazionali e non in grado di partecipare coerentemente al
processo di distensione, di disarmo, di cooperazione in vari campi.
Tale
approccio è stato denominato ‘spirito di Helsinki’, ed è per questo che molte associazioni
sorte per chiedere l’effettiva applicazione dei principî sui diritti umani
sottoscritti in quell’occasione hanno assunto denominazioni quali “Gruppo
Helsinki” (il primo, fondato a Mosca nel 1976 da celebri dissidenti), “Helsinki
Watch” (negli Stati Uniti) o “Comitato Helsinki” (in molti Stati, e in Italia
dal 1987). Anche gli Stati non europei dell’Asia Centrale e del Caucaso sorti
con la dissoluzione dell’Unione Sovietica sarebbero poi divenuti membri della
OSCE, accogliendo formalmente l’Atto di Helsinki e i suoi seguiti.
Vero è che
il vento della libertà non soffia senza contrasti. La repressione dei movimenti
del dissenso da parte dei regimi totalitari di formula politica comunista
continuò, con fasi alterne, fino al loro crollo fra il 1989 e il 1991 (già nel
1974 erano cadute le dittature spagnola e greca, e nel novembre 1975 quella
portoghese); ma i difensori dei diritti umani e i governi che li sostenevano
disponevano ormai, nella regione, di uno strumento chiaro al quale fare
riferimento per esigere che gli Stati realizzassero i propri impegni in
materia.
S’intende
che i grandi processi storici dipendono sempre da una pluralità di fattori.
Quelli macroeconomici, nazionalistici, etnici, religiosi contribuirono
all’acuirsi della crisi dei regimi di tipo sovietico. Tuttavia, l’impostazione
di Helsinki offrì una possibilità di soluzione: la libertà di espressione e di
associazione e il metodo elettorale democratico, dove posti in atto,
consentirono di modificare i sistemi politici e gestire la transizione senza
conflitti armati; dove questo fu negato, come nella Romania di Ceausescu, nell’ex
Jugoslavia o nel Caucaso, si verificarono invece scontri sanguinosi o guerre
devastanti.
Lo ‘spirito
di Helsinki’, che oggi viene nei fatti negato dal sistema di potere di Putin in
Russia come da quello di Erdogan in Turchia, potrebbe svolgere ancora un ruolo
molto importante nelle relazioni internazionali, anche in altre aree
geografiche. Del resto, già l’Atto Finale includeva un accenno alla
cooperazione con gli Stati terzi del Mediterraneo meridionale, tanto che si è
parlato a lungo di una loro inclusione nel sistema: la Dichiarazione di
Barcellona del 1995 e il Partenariato Euro-Mediterraneo ne sono stati un
provvisorio sviluppo, a mio parere non sufficientemente sostenuto, poi quasi
bloccato dall’involuzione repressiva, dalle rivoluzioni, dai movimenti
terroristici e dal generale riassestamento conflittuale di tutto il Nord Africa
e il Medio Oriente.
Rimane il
fatto che – come notò molti anni fa Angelo Panebianco – in età contemporanea
non si è mai avuta una guerra fra Stati democratici: almeno una delle parti è
stata o è una dittatura. I sistemi democratici sono organizzati per ricercare
modalità alternative alla guerra per la risoluzione dei conflitti
internazionali (come esplicita l’articolo 11 della Costituzione italiana),
quando non sia per legittima difesa o su mandato del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU; e allo stesso modo sono tenuti a risolvere con il minimo uso
possibile del monopolio tendenziale della violenza i conflitti interni. Diritti
umani e pace sono, così, indissolubili; specialmente considerando che ‘pace’
non va intesa soltanto – secondo l’etimo latino – come ‘pactum’ (l’accordo fra
due o più Stati), ma anche – secondo l’etimo germanico – come ‘Frieden’, che
attiene a ‘frei’, ‘libero’: libertà dalla costrizione, dall’oppressione.
Il rispetto
dei diritti umani storicamente acquisiti fino ad essere definiti come ‘universali’,
appartenenti a ciascun individuo in ogni luogo e indivisibili, è dunque la base
per ogni speranza di pace intesa come assenza di guerra, ma è già ‘pace’ in sé
in quanto libertà, che deve avere come unico limite il rispetto della libertà
di ogni altro. Si tratta in termini filosofici della ‘libertà negativa’ o
‘libertà da’, come ha spiegato, in particolare, Isaia Berlin: diversa dalla
‘libertà positiva’ o ‘libertà di’ – la quale ultima, se portata all’estremo,
sconfina nell’affermazione della propria volontà fino all’arbitrio e alla
sopraffazione. In termini giuridici, ciò che vincola tutti gli Stati del mondo
in questo senso è l’International Bill of Rights (costituito dalla
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, dal Patto Internazionale sui
Diritti Civili e Politici e dal Patto Internazionale sui Diritti Economici,
Sociali e Culturali). La pace non può costruirsi che sulla concreta
applicazione di tale cardine del diritto internazionale, al di là di ogni
preteso approccio localistico: l’affermazione dell’universalità dei diritti
umani è la sfida vitale della società umana del nostro tempo.
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