11 luglio 2015

I diritti umani come fondamento della pace

L’impostazione di Helsinki offrì una possibilità di soluzione: la libertà di espressione e di associazione e il metodo elettorale democratico.

di Antonio Stango
Quarant’anni fa – esattamente, il 1° agosto del 1975 – veniva firmato a Helsinki l’Atto Finale della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, che aveva riunito per circa due anni i rappresentanti di 35 Stati: tutti quelli europei di allora con le sole eccezioni di Albania (che aveva scelto l’isolamento) e Andorra, nonché gli Stati Uniti e il Canada. Si trattava di trovare importanti punti d’incontro fra Stati del ‘blocco sovietico’, Stati membri della NATO e Stati neutrali, con regimi politici, economici e sociali molto diversi.
Elemento essenziale di quello storico documento e dell’intero processo che avrebbe portato alla costituzione della OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) era la forte affermazione del legame fra pace e diritti umani: un governo che non rispettasse i diritti umani e le libertà fondamentali dei propri cittadini era, in sostanza, ritenuto non affidabile sul piano delle relazioni internazionali e non in grado di partecipare coerentemente al processo di distensione, di disarmo, di cooperazione in vari campi.
Tale approccio è stato denominato ‘spirito di Helsinki’, ed è per questo che molte associazioni sorte per chiedere l’effettiva applicazione dei principî sui diritti umani sottoscritti in quell’occasione hanno assunto denominazioni quali “Gruppo Helsinki” (il primo, fondato a Mosca nel 1976 da celebri dissidenti), “Helsinki Watch” (negli Stati Uniti) o “Comitato Helsinki” (in molti Stati, e in Italia dal 1987). Anche gli Stati non europei dell’Asia Centrale e del Caucaso sorti con la dissoluzione dell’Unione Sovietica sarebbero poi divenuti membri della OSCE, accogliendo formalmente l’Atto di Helsinki e i suoi seguiti.
Vero è che il vento della libertà non soffia senza contrasti. La repressione dei movimenti del dissenso da parte dei regimi totalitari di formula politica comunista continuò, con fasi alterne, fino al loro crollo fra il 1989 e il 1991 (già nel 1974 erano cadute le dittature spagnola e greca, e nel novembre 1975 quella portoghese); ma i difensori dei diritti umani e i governi che li sostenevano disponevano ormai, nella regione, di uno strumento chiaro al quale fare riferimento per esigere che gli Stati realizzassero i propri impegni in materia.
S’intende che i grandi processi storici dipendono sempre da una pluralità di fattori. Quelli macroeconomici, nazionalistici, etnici, religiosi contribuirono all’acuirsi della crisi dei regimi di tipo sovietico. Tuttavia, l’impostazione di Helsinki offrì una possibilità di soluzione: la libertà di espressione e di associazione e il metodo elettorale democratico, dove posti in atto, consentirono di modificare i sistemi politici e gestire la transizione senza conflitti armati; dove questo fu negato, come nella Romania di Ceausescu, nell’ex Jugoslavia o nel Caucaso, si verificarono invece scontri sanguinosi o guerre devastanti.
Lo ‘spirito di Helsinki’, che oggi viene nei fatti negato dal sistema di potere di Putin in Russia come da quello di Erdogan in Turchia, potrebbe svolgere ancora un ruolo molto importante nelle relazioni internazionali, anche in altre aree geografiche. Del resto, già l’Atto Finale includeva un accenno alla cooperazione con gli Stati terzi del Mediterraneo meridionale, tanto che si è parlato a lungo di una loro inclusione nel sistema: la Dichiarazione di Barcellona del 1995 e il Partenariato Euro-Mediterraneo ne sono stati un provvisorio sviluppo, a mio parere non sufficientemente sostenuto, poi quasi bloccato dall’involuzione repressiva, dalle rivoluzioni, dai movimenti terroristici e dal generale riassestamento conflittuale di tutto il Nord Africa e il Medio Oriente.
Rimane il fatto che – come notò molti anni fa Angelo Panebianco – in età contemporanea non si è mai avuta una guerra fra Stati democratici: almeno una delle parti è stata o è una dittatura. I sistemi democratici sono organizzati per ricercare modalità alternative alla guerra per la risoluzione dei conflitti internazionali (come esplicita l’articolo 11 della Costituzione italiana), quando non sia per legittima difesa o su mandato del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; e allo stesso modo sono tenuti a risolvere con il minimo uso possibile del monopolio tendenziale della violenza i conflitti interni. Diritti umani e pace sono, così, indissolubili; specialmente considerando che ‘pace’ non va intesa soltanto – secondo l’etimo latino – come ‘pactum’ (l’accordo fra due o più Stati), ma anche – secondo l’etimo germanico – come ‘Frieden’, che attiene a ‘frei’, ‘libero’: libertà dalla costrizione, dall’oppressione.
Il rispetto dei diritti umani storicamente acquisiti fino ad essere definiti come ‘universali’, appartenenti a ciascun individuo in ogni luogo e indivisibili, è dunque la base per ogni speranza di pace intesa come assenza di guerra, ma è già ‘pace’ in sé in quanto libertà, che deve avere come unico limite il rispetto della libertà di ogni altro. Si tratta in termini filosofici della ‘libertà negativa’ o ‘libertà da’, come ha spiegato, in particolare, Isaia Berlin: diversa dalla ‘libertà positiva’ o ‘libertà di’ – la quale ultima, se portata all’estremo, sconfina nell’affermazione della propria volontà fino all’arbitrio e alla sopraffazione. In termini giuridici, ciò che vincola tutti gli Stati del mondo in questo senso è l’International Bill of Rights (costituito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e dal Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali). La pace non può costruirsi che sulla concreta applicazione di tale cardine del diritto internazionale, al di là di ogni preteso approccio localistico: l’affermazione dell’universalità dei diritti umani è la sfida vitale della società umana del nostro tempo. 

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