4 dicembre 2013

Attivista birmano: dietro il dramma Rohingya, giochi di potere per colpire il Myanmar

AsiaNews | 25 novembre 2013

di Francis Khoo Thwe

Tint Swe parla di un "fronte comune" nel Paese contro la risoluzione Onu, che preme per la
cittadinanza alla minoranza musulmana. Oggi nazioni e movimenti islamici si ergono a difesa dei Rohingya, ma in passato “non hanno mostrato altrettanta generosità”. Il popolo birmano “si sente minacciato”; gli attacchi mettono a rischio il cammino di democratizzazione e sviluppo.

Yangon -- In Myanmar si è creato un fronte comune, contrario alla risoluzione Onu che auspica la cittadinanza per la minoranza musulmana Rohingya; non solo il governo, come succedeva spesso in passato, ma anche fra i partiti politici (compresi quelli di opposizione) e sui social network si moltiplicano "critiche univoche". È quanto afferma ad AsiaNews Tint Swe, presidente del Burma Center Delhi in India, già rappresentante all'estero della Lega nazionale per la democrazia (Nld), esule e attivista birmano di primo piano. Perché "se in passato" i documenti delle Nazioni Unite sui diritti umani nel Paese "erano accolti con favore da una popolazione oppressa" e rappresentavano un "incoraggiamento", oggi sono visti "con occhi diversi" e sono fonte di "delusione".
Da settimane nella ex Birmania si registra un forte dibattito sulla questione Rohingya, una minoranza musulmana perseguitata che non gode di cittadinanza. In particolare dopo il richiamo delle Nazioni Unite, che con la risoluzione del 20 novembre scorso premono su Naypyidaw perché estenda loro il diritto. Pressioni peraltro rispedite al mittente dalle autorità birmane, che ritengono i Rohingya "immigrati irregolari" provenienti dal Bangladesh; un giudizio del resto condiviso dal principale partito di opposizione, la Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi.

Sull'argomento è intervenuto anche l'arcivescovo di Yangon mons. Charles Bo, secondo cui "il dialogo interreligioso" e la valutazione "caso per caso" sarebbero "la soluzione migliore" per risolvere la questione. Il prelato ha quindi aggiunto che "un confronto fra i leader religiosi avrebbe un peso maggiore di qualsiasi decisione politica".

Il dibattito prosegue e, per una volta, sembra unire sia le autorità di governo che i movimenti di opposizione, nei quali si riconosce la gran parte della popolazione birmana. In passato le risoluzioni Onu sul Myanmar, dichiara Tint Swe, riguardavano "60 milioni di cittadini"; quest'anno sono focalizzate "su una piccola parte della popolazione" con la quale è in atto "una controversia". E solo un'organizzazione, con base al di fuori del Myanmar e la parola Rohingya all'interno del nome, "ha accolto con entusiasmo" il documento delle Nazioni Unite.

"Dal 1988 al 2012 [sotto la dittatura militare] - continua l'attivista - solo due inviati speciali [Onu] hanno visitato la Birmania e valutato il livello dei diritti umani e la situazione politica". Oggi è bene notare che un organismo composto da 57 membri, l'Organizzazione della cooperazione islamica (Oic), ha fatto il suo ingresso "per verificare le condizioni di un popolo che professa la medesima religione". E mai in passato, continua il leader democratico, si erano attivati per denunciare la situazione di 60 milioni di persone e il mancato rispetto dei diritti umani. Il popolo birmano, avverte, "si sente minacciato" da queste continue pressioni esterne e non accetta imposizioni dall'alto su eventuali modifiche alla legge di cittadinanza, una questione tutta interna al Paese.

Da ultimo, Tint Swe ricorda che durante l'emergenza provocata dal ciclone Nargis, che ha ucciso 138mila persone nel maggio 2008, sono morte almeno 6.900 persone di fede musulmana (in Myanmar il 4% circa della popolazione professa l'islam). Tuttavia, nessuno dei Paesi musulmani "che per le violenze nello Stato Arakan ha stanziato milioni di dollari", al tempo della catastrofe provocata dal ciclone "ha mostrato altrettanta generosità". "La Birmania - conclude - vive un delicato passaggio dalla dittatura militare all'alba della democrazia. Ed è ancora fragile e a rischio espoliazione, di natura economia e non solo. Per questo la mia interpretazione è che le pressioni esterne non solo per motivi di natura confessionale, né per i diritti umani in genere", ma solo per un nome che è diventato uno slogan: "I Rohingya".

L'escalation di violenze fra buddisti e musulmani nello Stato occidentale di Rakhine ha acuito il clima di tensione fra le diverse etnie e confessioni religiose che caratterizzano il Myanmar, teatro lo scorso anno di una lotta sanguinaria fra Arakanesi e Rohingya musulmani. Lo stupro e l'uccisione nel maggio 2012 di una giovane buddista ha scatenato una spirale di terrore, che ha causato centinaia di morti e di case distrutte, almeno 160mila sfollati molti dei quali hanno cercato riparo all'estero, per sfuggire agli attacchi degli estremisti buddisti del gruppo 969. Secondo le stime delle Nazioni Unite in Myanmar vi sono almeno 800mila musulmani Rohingya.

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