La penna è più potente della spada: media e social tra conflitti e cultura della Pace, webinar inaugurale dell’Associazione Internazionale Media per la Pace (IMAP), 10 maggio 2023, a seguito della Giornata Mondiale della Libertà di Stampa (3 maggio), organizzato da Universal Peace Federation (UPF) e da IMAP.
di Marco Respinti
«La penna è più potente della spada»: sembra una boutade a effetto, ma è davvero così. La penna, e ciò che la penna scrive, cioè le parole, sono armi potentissime. Infatti, c’è nel mondo, e da sempre, chi le parole e le penne le vuole vietare, bandire. C’è chi limita la libertà di espressione, di parola, di scrittura, di stampa. Chi ha paura delle parole e della libertà.
Eppure, siamo tutti circondati di parole, siamo addirittura frastornati dalle parole, dal cicaleccio, dal bla-bla, dal rumore. Dalle parole cioè vuote, senza senso, private di tutto, di cui la penna, anzi la tastiera nell’era dei social media fa eco amplissima. Anche queste, le parole vuote, sono parole che fanno paura, ma in modo diverso.
Le parole fanno anzitutto paura, e sono temute da molti centri e da molte centrali di potere, quando sono eco fedele della verità, quando contengono la verità, quando veicolano la verità.
Si, «verità» è un concetto assolutamente demodé. Fa parruccone e non si porta bene in centro. Eppure, non esiste altro, al mondo, se non la verità. La verità delle cose, delle cose come sono e come stanno, la verità di come le cose invece non sono e dovrebbero essere. La verità semplice e complessa, ultima e principiale, ultimativa e definitiva.
Capire il valore assoluto e irrinunciabile di questo concetto ‒ la verità ‒ è semplicissimo. Basta immaginare di farne a meno per qualche minuto, basta provare a farne a meno. La letteratura, da Catone ad Aleksandr Solženicyn, da Friedrich Reck-Malleczewen a Jung Chang di Cigni selvatici, è colma di luoghi dove la verità manca, da cui la verità è stata estirpata, di inferni terrestri senza più verità, e con le pagine di questa letteratura ‒ che esprime il vertice sublime dell’umano ‒ di questa grave assenza tutti possono fare salutare e torrida esperienza virtuale.
Le parole fanno paura quando sono parole di verità. Fanno paure a chi la verità la nasconde, a chi la verità la teme, a chi combatte la verità. Fanno paura a chi scatena e manovra le guerre, che non sono affatto soltanto il confronto fra soldati contrapposti bensì dissidi assai più profondi e gravi, e a chi ostacola la costruzione della pace, che non è affatto soltanto l’assenza della guerra.
Per questo chi opera con le parole, per esempio i giornalisti, dovrebbero, debbono concepirsi come piccoli e grandi, umili e potenti servitori leale e fedeli di Madonna Verità.
Il loro potere è infatti enorme: il loro potere impalpabile e a volte sfuggente può scatenare quelle guerre che sanno essere assai più profonde dei confitti armati o esorcizzarle, può calpestare la pace o servire ben oltre il quieto vivere.
Ed è qui che torna la seconda idea, quella delle parole che sanno far paura per un motivo diverso: quando sono vuote.
Le parole vuote non fanno nulla, e quindi fanno molto, troppo. A Edmund Burke è attribuita la famosa frase «affinché il male trionfi è sufficiente che i buoni non facciano alcunché». Non si sa se questa frase Burke l’abbai mai pronunciata davvero, ma la sua profondità e bellezza sono inestimabili. Basta infatti semplicemente che la parola si svuoti e smetta di dire per trasformarsi in strumento malvagio. Basta che la parola non operi per il bene per propiziare il male. I giornalisti, i blogger, chiunque di noi usi la parola per professione o per diletto lo tiene presente quando imbraccia la tastiera e arma il cane della penna?
Il giornalista si veste da semplice raconteur di fatti quando in realtà è un guerriero che combatte quotidianamente a ogni anglo di strada, dietro ogni muro o sacco di sabbia, poggiato su qualsiasi sedile, in qualunque situazione si trovi. Deve scegliere se essere un soldato della luce o un armigero delle tenebre, e il resto, con un po’ di mestiere, et studio et amore, viene da sé. Deve scegliere da che parte stare il giornalista se vuole essere obiettivo, serve schierarsi se mira a essere sincero. Per questo, come ho avuto occasione di ripetere qualche volta ad amici che nei propri Paesi soffrono la persecuzione etnica e religiosa, i media possono essere i migliori alleati o i peggiori nemici.
Insomma, l’informazione corretta va ben oltre la pur necessaria deontologia. E credo che IMAP abbia già scelto da che parte stare. Siccome ho scelto anch’io da che parte stare volendo essere un giornalista obiettivo, io sto con IMAP.
Marco Respinti - marco.respinti@bitterwinter.org
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