25 giugno 2020

L’AFGHANISTAN AL TEMPO DEI TALEBANI. RICORDI DI UN VIAGGIO

di Emilio Asti

Da tempo desideravo visitare l’Afghanistan, ma quel Paese, da anni scenario di drammatiche vicende politiche, poi associato all’estremismo islamico, non era accessibile ai viaggiatori. Finalmente nel Maggio del 2000 il mio desiderio si realizzò grazie ad alcuni amici pakistani di Peshawar, città vicina alla frontiera afghana, i quali recatisi in Afghanistan più volte, mi aiutarono ad ottenere il visto d’ingresso. Approfittando del fatto che dovevano ancora recarvisi per sbrigare alcune faccende, accettai volentieri di viaggiare con loro. 
Molto diverso da tutti i Paesi vicini l’Afghanistan, ufficialmente denominato “Emirato Islamico dell’Afghanistan”, costituiva una realtà unica nel suo genere, difficilmente comprensibile, di cui ancor oggi conservo un vivido ricordo. Dal 1996 ad opera dei talebani era in atto una sorta di rivoluzione spirituale islamica, finalizzata alla costruzione di una nuova società, che voleva essere di esempio per tutto il mondo islamico e patria ideale per i veri credenti musulmani. A tal fine il regime talebano, che vagheggiava il ritorno alla tradizione dell’Islam delle origini, aveva cercato di eliminare tutto ciò che ritenesse contrario a tale ideale. Il mondo esterno veniva considerato in termini negativi e per tale motivo i talebani, che si ritenevano gli esecutori della volontà divina, volevano tenere le persone al riparo dalle influenze straniere. I contatti col resto del mondo erano ridotti al minimo, tuttavia i traffici col Pakistan non si erano interrotti. In quel tempo per la crescente influenza di Al Qaeda l’Afghanistan ospitava tanti combattenti islamici di varie nazionalità che qui ricevevano assistenza ed addestramento, ma costoro evitavano di farsi vedere in pubblico.
Gli stranieri non potevano girare liberamente e ad ogni visitatore veniva assegnata una guida ufficiale, che fungeva da controllore ed interprete. L’accompagnatore affidatomi, un giovane dall’aria mite e sveglia, con cui fu possibile instaurare un rapporto di sincera amicizia, in più occasioni si dimostrò disponibile per ogni cosa di cui avessi avuto bisogno e, nella misura del possibile, fece di tutto per farmi sentire a mio agio. 
Visitare l’Afghanistan in quell’epoca equivaleva a fare un salto nel passato, per adattarsi al quale occorreva dimenticare i ritmi e le abitudini moderne. Il confronto con gli altri Stati islamici era improponibile, qui infatti non vi erano hotel di lusso né comodità superflue e le città non offrivano distrazioni di alcun tipo. Ciò non mi impedì di trovare l’Afghanistan un luogo meritevole di essere conosciuto ed apprezzato.
La prima impressione, poi confermata nei giorni successivi, fu quella di una società ripiegata su sé stessa e fuori dal mondo, rimasta a lungo in una situazione di grande arretratezza, aggravata da lunghi conflitti armati. 
Anche a chi, come me, vi giungeva dal Pakistan l’Afghanistan appariva un Paese immerso in un’atmosfera particolare, senza alcuna traccia di modernità, già una rapida occhiata permetteva di rendersi conto di ciò. 
A Kabul, dalle rive dell’omonimo fiume fino ai contrafforti montagnosi, ad ogni passo si incontravano i segni del conflitto che raccontavano il dramma dell’Afghanistan più di tanti discorsi. Kabul, che nonostante l’esodo di tanti suoi abitanti rimaneva il centro più grande del Paese, fu la città più colpita dalla guerra tra le opposte fazioni che aveva devastato il territorio afgano per alcuni anni. Edifici semidistrutti e costruzioni ridotte ad un cumulo di macerie erano ormai parte del paesaggio; vari edifici dismessi, alcuni forse usati come rifugio durante la guerra civile, stavano andando in rovina. Era evidente che il governo non aveva intenzione e neanche i mezzi per ripararli. Anche la parte vecchia della città, con i suoi stretti vicoli, non era stata risparmiata dal conflitto. Pure il museo di Kabul, da cui purtroppo molti preziosi reperti erano stati trafugati, rimase gravemente danneggiato. 
Molto gradevole fu la visita ai Giardini di Babur, allestiti da Babur, primo imperatore della dinastia Moghul, che li scelse quale luogo per la sua sepoltura. Situati su una delle alture nei dintorni della città, mi apparvero come un luogo sereno, in cui era possibile rilassarsi in mezzo alla natura e ritrovare la pace interiore, fuori dalla misera confusione di Kabul.
In tutto l’Afghanistan le condizioni di vita erano estremamente povere, con un gran numero di persone che vivevano senza luce elettrica ed acqua corrente e cercavano di arrangiarsi come potevano. La situazione sanitaria era grave, con un tasso molto elevato di mortalità infantile e parecchi disabili. I villaggi, composti solo da poche case in misere condizioni, i cui abitanti sopravvivevano a mala pena, parevano privi di tutto e in inverno rimanevano isolati dalla neve. Non era per nulla facile muoversi in Afghanistan, soprattutto per ragioni di sicurezza, l’intero territorio era infatti pieno di mine a causa delle quali molti erano rimasti invalidi. Percorse da biciclette e carretti di legno trainati da asini, ma da rari veicoli, le strade si trovavano in pessime condizioni. Non esistevano strutture ricettive né centri commerciali, ma solo negozi fatiscenti e piccoli locali disadorni in cui si poteva bere e mangiare qualcosa, baracchini di venditori ambulanti di poche cose; i bambini, parecchi dei quali con indumenti stracciati, erano costretti a giocare tra mucchi di rifiuti e macerie.
L’accompagnatore pareva sinceramente dispiaciuto per le dolorose condizioni della sua patria, che avrebbe voluto presentarmi sotto un aspetto migliore, ma poté contare sul mio desiderio di comprendere quella realtà. Cercavo infatti di astenermi da qualsiasi giudizio, in quanto mi sforzavo di capire quel Paese e la sua gente al di là delle impressioni superficiali; evitai pure di fare fotografie, in quanto straniero e non musulmano, che non poteva certo passare inosservato, ciò mi sarebbe parso quasi un’intromissione nel loro spazio di vita, che cercavano di proteggere da sguardi indiscreti.
Profondamente immersi nella loro dimensione spirituale gli abitanti dell’Afghanistan dovevano condurre una vita conforme ai dettami del Corano, intesa come una continua lotta anzitutto contro sé stessi per eliminare le cattive inclinazioni e poi contro i nemici dell’Islam.
Tutti dovevano partecipare alle preghiere rituali, per consentire le quali ogni attività si interrompeva. Dappertutto regnava un’atmosfera puritana, senza insegne pubblicitarie e nessuna traccia, almeno apparentemente, di luoghi di divertimento; non si incontravano turisti né pubblicazioni straniere, alla sera le strade erano completamente deserte e il silenzio veniva rotto solo dal richiamo alla preghiera. La televisione, come anche la musica e il ballo, considerati come qualcosa che poteva distogliere dal cammino spirituale, erano stati proibiti; persino l’inno nazionale era privo di musica. Alle attività commerciali erano state imposte molte restrizioni e parecchi negozi erano stati costretti a chiudere, ma, nonostante i divieti, diversi articoli arrivavano di contrabbando.
Tutti gli uomini dovevano farsi crescere la barba, la cui lunghezza era stata decretata, assolutamente vietati i capelli lunghi. In questo universo esclusivamente maschile, le donne vivevano totalmente relegate alla sfera domestica in un ruolo di assoluta sottomissione, le poche donne che si vedevano in giro, tutte coperte dal burka, erano accompagnate da un uomo della famiglia. 
I talebani si erano proposti di eliminare dalla società tutti gli elementi ritenuti corrotti e a tal fine avevano istituito la cosiddetta Polizia Religiosa, la quale, preposta alla sorveglianza ed alla repressione di qualsiasi comportamento ritenuto contrario alle leggi, esercitava un forte controllo su ogni aspetto della vita individuale e collettiva. Ognuno doveva attenersi a rigide norme di condotta, la cui trasgressione veniva severamente punita. Gli adulteri e gli omosessuali venivano condannati a morte e la sentenza era eseguita in pubblico come monito per tutti.
Anche ogni straniero che entrava in Afghanistan doveva adeguarsi alle rigide disposizioni locali, pure in fatto di abbigliamento, e coloro che lavoravano per alcune ONG erano sottoposti a stretti controlli e severe limitazioni. 
Imposta in maniera coercitiva, la religione era divenuta un affare di Stato, a cui erano subordinati tutti gli altri diritti, infatti la sfera religiosa inglobava ogni aspetto dell’esistenza e nessuna questione veniva esaminata al di fuori di essa. La scienza e la cultura si riducevano allo studio del Corano, considerato l’unica guida per la salvezza e la soluzione per ogni problema. I talebani non tolleravano alcuna deviazione in campo religioso, non lasciando spazio ad altre interpretazioni del Corano, gli Sciti venivano considerati eretici e, come tali, perseguitati. Nessuna pratica di altre fedi veniva permessa e la conversione ad un’altra religione era punita con la pena capitale.
Tutti parlavano con grande ammirazione del mullah Omar, capo indiscusso dei talebani, proclamatosi guida di tutti i musulmani del mondo, figura misteriosa, sul cui conto era impossibile distinguere la leggenda dalla realtà e il cui ritratto non era visibile da nessuna parte…
Grazie all’intraprendenza del mio accompagnatore ho potuto avere l’opportunità di parlare con alcuni funzionari governativi, i quali dopo una certa diffidenza iniziale, si mostrarono disposti ad illustrarmi la posizione della dirigenza talebana su varie questioni ed anche a rispondere ad alcune mie domande, esortandomi però a cercare di comprendere la loro visione, lasciando da parte i pregiudizi.
Nei loro discorsi, che risultò interessante ed utile ascoltare, la vittoria contro l’esercito sovietico e le eroiche imprese dei mujaheddin, venivano celebrate con enfasi. Alcuni di costoro, che avevano partecipato alla lotta contro l’occupazione sovietica, mostravano con orgoglio le cicatrici delle ferite ricevute in combattimento, ricordando i momenti durante i quali poterono sperimentare la protezione di Allah. Dopo aver affermato che la storia è una continua lotta tra le forze del bene, rappresentate dall’Islam, e quelle del male incarnate dal materialismo, destinata poi a concludersi col trionfo del bene, sostennero che la presa del potere da parte dei talebani sanciva l’inizio di una nuova epoca per l’Afghanistan. A loro giudizio, dopo il crollo dell’URSS era giunto il tempo di lottare contro il materialismo occidentale, accusato di voler egemonizzare il mondo, imponendo a tutti i popoli il suo modo di vita corrotto basato su falsi valori. Forte era anche la critica agli altri Paesi islamici, a cominciare dall’Arabia Saudita, accusata di aver abbandonato gli autentici valori spirituali per abbracciare il modo di vita occidentale, ospitando inoltre sul suo territorio diverse basi militari americane.
In risposta ad una mia domanda affermarono che lo sviluppo non deve essere considerato in termini economici, ma come un processo finalizzato alla crescita spirituale della popolazione, la quale può progredire solo attraverso la totale dedizione ai valori islamici e il rifiuto di tutto ciò che possa allontanare dal retto cammino.
Uno dei ricordi più vivi fu la visita ad una madrasa, una scuola coranica, esempio emblematico del tipo di educazione vigente allora in Afghanistan, dove ragazzi di età diverse, parecchi dei quali orfani, ricevevano un’istruzione elementare ed imparavano a leggere e memorizzare i versetti del Corano. Il mullah incaricato della loro istruzione spiegò che il principale obiettivo, oltre quello di tenere i ragazzi al riparo dai pericoli e dalle influenze negative garantendo loro vitto ed alloggio, era avviarli sulla via del sacrificio, in modo da formare giovani il cui unico desiderio fosse quello di impegnarsi con ogni mezzo per il trionfo dell’Islam, sull’esempio dei mujaheddin che lottarono valorosamente contro gli invasori sovietici.
L’autorità del mullah, che vigilava attentamente sulla condotta degli alunni, i quali dovevano impegnarsi anche nel mantenere la pulizia dell’ambiente, era indiscussa. I loro occhi avevano un’espressione triste, ma in loro traspariva una certa curiosità, era infatti ovvio che la visita di uno straniero rappresentava qualcosa di insolito. Alcuni di loro, che accennavano un timido sorriso, avrebbero forse avuto il desiderio di scambiare qualche parola con me, forse anche solo per praticare quel po’ di inglese che conoscevano, ma ciò non era previsto.
In tale ambiente chiuso al confronto con altre realtà e in cui vigeva una rigida disciplina, pareva che l’allegria e la spontaneità fossero bandite. A questi studenti non restava altro che accettare tutto ciò che veniva loro imposto; però nella madrasa almeno incontravano un’alternativa ad una vita miserabile, considerando che in Afghanistan moltissimi bambini ed adolescenti, parecchi dei quali costretti a vivere in strada, non potevano frequentare la scuola. 
Il progetto dei talebani di costruire una società islamica radicale, si scontrava con la persistenza di comportamenti non conformi ai dettami ufficiali. Certe antiche tradizioni non potevano certamente scomparire per semplice proibizione del governo e continuavano a sussistere, seppur di nascosto. Fuori dagli schemi ufficiali si veniva a conoscere un altro Afghanistan, un tempo culla di un Islam mistico e tollerante, che aveva affascinato molti viaggiatori, i quali ne avevano riportato descrizioni appassionate. 
Nel mio breve soggiorno non mi fu certamente possibile conoscere bene il Paese, ma tuttavia mi sforzai di andare al di là dell’immagine stereotipata diffusa in Occidente; ancor oggi i volti e le parole delle persone allora incontrate, semplici ed ospitali, mi ritornano spesso in mente con nostalgia. Lasciai l’Afghanistan con un senso di tristezza, ma con la speranza che quel Paese potesse superare i traumi del passato, lasciandosi alle spalle tragedie e distruzioni. Speravo di poter tornarvi presto, senza immaginare che tra un anno e mezzo il regime talebano sarebbe crollato sotto l’attacco della coalizione militare condotta dagli USA. Ancor oggi l’Afghanistan, tormentato da conflitti, è alla ricerca della pace.

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