Esce a giorni il volume di Antonio Saccà: PERSONAGGI-Edizioni ArteScrittura. Una serie di “personaggi”, mitologici, leggendari, letterari, reali, che hanno dato valore, positivo o nefasto, alla storia. Il frontespizio del testo, uno Stemma maestoso, del pittore-scultore Carmelo Crea, dà significato al senso del volume: apprezzare la nobiltà dello spirito. Diamo una anticipazione di un capitolo della pubblicazione.
di Antonio Saccà
GIOSUE CARDUCCI, GIOVANNI PASCOLI
Come nel Medioevo/Umanesimo abbiamo avuto i tre Autori, Dante, Petrarca, Boccaccio, e successivamente Boiardo, Ariosto, Tasso, quindi Foscolo, Manzoni, Leopardi, anche se non con la nettezza associativa di Dante, Petrarca, Boccaccio, più recentemente abbiamo collegato degli scrittori, Carducci, Pascoli, D'Annunzio. Anche se quasi contemporanei essi hanno somiglianze e dissomiglianze radicali, ed in ogni caso non sono indegni della poesia italiana del passato e della poesia europea ed universale, anzi, talvolta, con degli elementi sperimentali che ebbero risonanza.
Stiamo nel compiuto Risorgimento, l'Unità dell'Italia presso che realizzata, Roma è la Capitale, e l'evocazione di Roma è detonante per un italiano, il papato è alle strette, insorge uno spirito laico, liberale, progressista, scientista, almeno nei ceti borghesi che si stavano affermando, fa le iniziali apparizioni il Socialismo, anche il cattolicesimo è attento ai ceti poveri, ai lavoratori, in specie ai piccoli produttori, alle formazioni associate... Il popolo vive nella miseria, in gran numero, nell'ignoranza. Ma in qualche modo, duramente, avanziamo. La Monarchia sabauda è diventata nazionale, comincia l'industrializzazione, ma è ancora l'agricoltura a dominare, sia nella proprietà, sia nei contadini. Giosue Carducci, Giovanni Pascoli, lo stesso D'Annunzio, sono immedesimati in queste realtà tra Natura e modernità, con maggiore ottimismo in Carducci, e maggiore volontà di giustizia in Pascoli, all'interno, in quest'ultimo, di una sconfortatissima visione dell'esistenza.
“Pianto Antico” è la celebre composizione che fu scritta per la morte del figlio Dante. È una contrapposizione leopardiana e “classica”, la natura rifiorisce, gli uomini muoiono per sempre. Carducci rammenta il figlioletto che tende la mano al melograno, “dai bei vermigli fior”, e lo scorge rifiorire e ristorato dal sole e dalla luce, il figlio, no, “il fore della sua piante”, il figlio di Carducci. Non rinasce, è nella terra nera, il sole non lo rallegrerà mai più, l'amore non lo risveglierà mai più. Semplice, rettilinea, come una ninna nanna malinconica.
Meno spontanea, elaborata, attorta, incupite la composizione “Funere mersit acerbo”. Carducci immagina una tristisima visione, il figlioletto morto che batte la porta del Regno dei Morti dove sta il fratello del Carducci, suicida e dallo stesso nome del figlioletto, Dante, e chiede al fratello di accogliere il bambino.
“Jaufre Rudel” è di maggiore ampiezza rispetto ai testi presi in conto. Fu Rudel un poeta provenzale, innamorato, come allora si costumava, di una donna mai conosciuta, Melisenda, Contessa di Tripoli, in Libano. Prima di morire Rudel vuole incontrare la donna fantasiosamente eletta. La sua nave, di Ridel, si accosta al porto di Tripoli, scende il fido Bertrando, messaggero di Rudel, in cerca della Contessa Melisenda. Alla quale dà la nuova, che è giunto Rudel, il quale l'amò e la cantò, non veduta, e adesso, morente, in quest'ultima ora vuole incontrarla. Rudel attende, la Contessa viene. Nel vederla Rudel esprime le sue ultime parole che sono un inno all'amore contro la fugacità e nella fugacità dell'esistenza: “Contessa, che è mai la vita? /È l'ombra di un sogno fuggente. La favola breve è finita. / Il vero immortale è l'amor(...)”... Commossa, Melisenda concede il bacio al poeta morente, tre volte baciandolo... Il sole “irraggia” la bionda chioma di Melisenda china sul poeta. Anche in tale composizione nessuna eccezionalità di immagini, di linguaggio, addirittura una rima cantilenante, eppure c'è sentire effettivo, pienezza emozionale, nessuna superfluità o accorgimento di effetti voluti, vi è il necessario per dire quel che bisognava dire, il primo e l'ultimo saluto dell'amante all'amata.
“Presso una Certosa” è tra le ultime composizioni di Carducci, è malato, ha raggiunto il vertice dei riconoscimenti, il Premio Nobel. Questa breve poesia è un “addio”, e gli sgorga come nelle sue imprese migliori, spontanea, semplice, canora. Sempre la Natura, una foglia si stacca, ed è sembianza di vita che finisce: “par che passi un'anima”, la foglia cade nel ruscello, un ruscello che gorgoglia tra i cipressi, fievole. Questo ambito naturalistico di passaggi, di movimento, di suoni, si contrae in un pensiero intimo di morte, muore la foglia muore Lui, e sia, purché il morire non attenui, non spenga la divina Poesia, e la presenza del Poeta fondamentale, Omero, “pria che l'ombra avvolgami”, prima della morte. Al solito, non è tanto l'ideazione che vale in Carducci, bensì la pienezza del sentire, l'onestà del sentire. Carducci carica il verso di un sentire realmente sentito e che si effonde nel lettore, lo colma di sentire.
GIOSUE CARDUCCI, nacque in Toscana, presso Lucca, nel 1835, visse consacrandosi alla poesia ed alla critica letteraria, sentimentalmente, a parte il matrimonio e vicende minori, ebbe passione per la giovane scrittrice ANNIE VIVANTI. Docente di Letteratura Italiana a Bologna, gli succedette Giovanni Pascoli. Premio Nobel nel 1906, morì nel 1907. Repubblicano, anticlericale, cantore del Progresso, monarchico successivamente, alterna malinconia e forza, ed è personalità stimabile e affermatica.
GIOVANNI PASCOLI
Quanto Pascoli non ha in propulsione energica del verso, lo risarcisce con una spaziatura linguistica che manca e non interessa Carducci, e primeggerà in D'Annunzio. Pascoli è addentro ai nomi dei fiori, ai diversi uccelli, agli insetti, nomi inconsueti tinteggiano i suoi versi, e la tavolozza gli si variopinta di coloriture verbali animate per la novità dei termini e delle percezioni di realtà inconsuete. Pascoli penetra nell'universo vegetale e animale, piccole animazioni di piccoli animali, risentendone i suoni, l'aspetto, il flusso d'esistenza, e così dell'universo vegetale, egli appartiene con adesione condiscendente al mondo naturale, in maniera più particolareggiata e meno filosofica di Leopardi, nel quale la Natura, se è la luna, la campagna, l'infinito sovrastare dell'esistente è anche indifferenza, inspiegabile, spietata. In Pascoli c'è la natura in dettaglio, la rana, il grillo, la lodola, i fiori in dettaglio, ripeto, non una filosofia della Natura. Egli ne è preso, dei particolari, li denota, vi presta orecchio e sguardo.
Il Pascoli maggiormente conosciuto, e riconosciuto, è l'Autore di poesie rattristanti nelle quali manifesta vicende e stati d'animo che lo perseguitano durevolmente: la tragedia familiare con la morte per uccisione del padre, l'umana desolazione a cogliere l'uomo crudele con l'uomo, e i derelitti, i calpestati, gli infelici, e l'insensatezza del Cosmo... I piccoli piaceri, le minuscole gioie che la Natura e l'Arte suscitavano stavano all'interno di tante tristezza... Pascoli, dicevo, è ossessionato, rincorso dalla morte, dalla tragica condizione umana e della sua famiglia sul lastrico, pensa, ripensa, torna, ritorna su di essa, il pensiero della madre talvolta accende un angolo d'amore, svanito... Di questa sua tragedia, dicevo, Pascoli fa esempio di tragedia universale, punto fermo, abisso di catastrofe. Cimiteri, bambini morti, vuoto di affetto, paura, povertà, solitudine, talvolta si rendono poesia, talvolta incubo, ossessione a cui la mente è vincolata come il perno alla ruota.
La poesia “X Agosto” comincia con una certezza, di sapere, Pascoli, perché le stelle cadono, in quella notte, piangono, le stelle, piangono l'umana sorte. Di scatto, il testo esprime situazioni di dolore, da far piangere le stelle, la rondine che torna al nido recando nel becco gli insetti per i suoi rondinini, ucciso il padre del Pascoli che recava due bambole in dono per le figlie, ucciso. La chiusa rivela perché, dunque, il cielo inonda di pianto di stelle il Mondo, “quest'atomo opaco del Male”.
“L'Aquilone”. È una composizione di maggiore estensione, lirico narrativa. Pascoli si figura tempi andati, il nascere delle viole, immagina, e che in cielo volteggiano gli aquiloni, ed i compagni, ricorda, ciascuno con il suo aquilone che “ondeggia, pencole, urta, sbalza,/ risale, prende il vento, ecco pian piano/ tra un lungo dei fanciulli urlo s'innalza”... Ed i fanciulli si ergono quasi a volare con l'aquilone, “più su, più su”...ma il vento spezza quel volo, e i ragazzi gridano, il grido suscita un altro ricordo, i compagni della camerata di collegio, uno dal pallore muto del viso, uno che morì precocemente come l'aquilone che spezza il filo, uno che la madre pettinò dolcemente, dopo la morte, per non fargli male, quasi fosse ancora in vita, lo volesse tenere in vita.
“Paulo Ucello” è lunga narrazione in versi, movimentati, come al solito in Pascoli, snelli, nervosi, ha da protagonista un personaggio che fu una persona, Paolo di Dono, celebre pittore, inventore della prospettiva, e amantissimo degli uccelli, da ciò gli venne il soprannome. Umilissimo, poverissimo terziario francescano, e tuttavia amico e pari agli illustri artisti nel mirabile Rinascimento fiorentino, Donatello, Brunelleschi... La dolorosa e pur festosa qualità della poesia sta nel desiderio di Paolo di possedere un uccello, e non soltanto dipingerlo: “(...)ma un rosignolo io lo vorrei di buono. / Uno di questi picchi e questi merli, /in casa che ci sia, non che ci paia! Un uccellino vero, uno che sverli, / e mi consoli nella mia vecchiaia”. Ma Francesco, il Santo, che tutto conosce, avverte questo desiderio di Paolo, si che scende dal Cielo, e lo rimbrotta, non soltanto per voler possedere ma per voler far prigioniero il libero uccello che volerebbe nei campi. Questa civiltà dello spirito, striminzito di cose materiali e supremo nello spirito, appunto, ha nella percezione delle menti e nella ricchezza linguistica appropriata, specie agli uccelli, un brioso andamento, festoso e malinconico, dicevo, nel quale sovrasta il delicato, dolce, incantato Paolo, ed un'epoca nella quale l'arte valeva sovranamente.
GIOVANNI PASCOLI nacque a San Mauro di Romagna nel 1855. La sua esistenza ebbe un segno di fatale sconvolgimento per l'uccisione del padre, Giovanni ne fu piagato per sempre. Perse anche la madre a cui era legatissimo. In questi orrori ebbe la forza di studiare, procedere, essere docente, scrivere... divenne un poeta inconfondibile, divenne GIOVANNI PASCOLI, con modi propri; cadenze sue; linguaggio personale; mondi caratterizzati, recò nella poesia italiana una sensibilità dolentissima, di circostanze minuziose, sconsolatissima, con puntigliosità lessicale mutuata dalla natura vera e propria, e ritmi saltellanti; agilissimi; filiformi; nervosi. Esiste anche un Pascoli che spazia il verso, lo solennizza, canta. Ebbe idee socialiste in gioventù. Di poi coniugò il socialismo con il Nazionalismo. Vita sentimentale presso che inesistente, attaccatissimo alle sorelle, e, dopo il matrimonio di una, il che lo turbò estremamente, visse con la devotissima sorella Mariù; fu cultore di Dante, insigne latinista. È tra i più amati poeti della nostra letteratura per la sua straziata e nitida poesia. Morì nel 1912.
ANTONIO SACCA',
La mia proposta per un volume riguardante l'economia, con il titolo: Dal lavoratore imprenditore a cittadino imprenditore” o: “Il cittadino imprenditore”, nasce dalla convinzione che tutti i rimedi per sanare i sistemi economici sono di dubbia riuscita o di risultato negativo. Del resto è un fatto: dopo sei anni di crisi non si è sanata la minima difficoltà. Le Banche difettano di liquidità e si continua a discutere come eventualmente salvarle; l'enorme quantità di denaro immesso nei sistemi economici finanziari non suscita occupazione, o assai poca rispetto alle elargizioni; il timore della restituzione dei crediti paralizza il credito, a parte le speculazioni operate dalle banche per loro vantaggio; una enormità di titoli tossici si aggira per il pianeta con esiti problematicissimi; alcuni paesi sono in condizioni competitive troppo favorevoli rispetto alle economie occidentali o per costo del lavoro o per il possesso di materie prime; le soluzioni che l'Occidente ha inventato, con varie gradazioni, consistono: nell'immettere denaro da parte delle banche centrali; nel ridurre la spesa pubblica: nel contrarre i servizi; nel privatizzare; nel liberalizzare; nel contrarre le pensioni; nell'estendere l'età del pensionamento; nel precarizzare; nel contrarre gli occupati; nel delocalizzare; nell'importare stranieri ed occuparli fuorilegge; nel disoccupare; nel ricorrere a precoci pensionamenti; nel dare un salario sminuito per chi non lavora; nel limitare offerte di Welfare o di sostegno; nell'assottigliare la Pubblica Amministrazione; nel tassare i ceti accertabili in modo da avere denaro disponibile per le imprese e per il funzionamento dei servizi... All'ingrosso, abbiamo avuto, presso che ovunque, tranne che in taluni paesi che sfociano adesso ad un qualche benessere, il più sostanzioso travaso di ricchezza dai ceti medi e men che medi verso i ceti benestanti per la convinzione che questi ultimi avrebbero incrementato con le loro imprese l'occupazione. Errore epocale, giacché il minor reddito di ceti medi e men che medi ha stretto i consumi, quindi le imprese, specie le medie. Inoltre, fenomeno scarsamente analizzato, al quale ho dedicato varie pubblicazioni, le nuovissime tecnologie automatiche, robotiche, cibernetiche sostituisco la mano di opera anche di livello e non offrono lavoro ulteriore, con una perdita secca di occupazione. Potremmo dunque avere sistemi produttivi in mano a pochi, con limitata occupazione e una sterminata disoccupazione e sottoccupazione. Un perfetto sistema oligarchico. Nasce, indispensabilmente, la necessità di una alternativa sociale: il lavoratore imprenditore; il cittadino imprenditore. Non l'impresa di uno solo, non basta, ma enormi imprese di lavoratori che gestiscono l'impresa agendo sui salari, sugli orari, sul profitto in modo da garantire a loro stessi l'occupazione. L'imprenditore privato privilegia il profitto e cerca di usare al minimo gli occupati, si sposta dove è minore il costo, se le tecnologie servono al profitto massimizzato più del lavoro umano se ne appropria e licenzia, non diminuisce l'orario di lavoro; l'impresa di lavoratori, tendendo esclusivamente al profitto che permette la concorrenza, la sopravvivenza e la tenuta dell'occupazione, riuscirebbe a non licenziare, l'opposto. Al dunque, andiamo verso un sistema produttivo che può essere produttivismo, modernissimo, competitivo, ma non creare posti di lavoro. Bisogna cominciare a capire che sviluppo, vittoria nel mercato, possono non suscitare occupazione, così l'innovazione... Entriamo nell'Era della disoccupazione da tecnologia, disoccupazione da sviluppo. Nessun privato sarà disposto a diminuire gli orari per dare lavoro ai più. Se lo fa, ben venga. Solo i lavoratori possono agire a fisarmonica, ampliando o comprimendo orari, salari, profitti pur di sopravvivere e occuparsi. Il manager non è un problema, lo possono prendere tra di loro o “affittarlo”, anche nelle imprese private il manager non sempre è il proprietario.
Anche nei servizi c'è da agire con forme associative. Giacché i servizi saranno falcidiati.
Se la crisi verrà risolta queste ipotesi sono vane. Ma è meglio essere preparati ad economie alternative: la società di lavoratori e cittadini imprenditori.
P.S. Se i lavoratori si mostreranno capaci di impresa i capitali li otterranno. Il capitale umano è a base di tutto.
Nessun commento:
Posta un commento