di Valentina Coluccia
Siamo nel 2018 eppure in Armenia si può entrare solo dal nord, attraverso la Georgia, o da sud, attraverso l’Iran. A est i confini sono chiusi con l’Azerbaijan a causa della questione del territorio del Karabakh, zona popolata da Armeni ma completamente circondata da territori Azeri e con i quali gli armeni sono in stato di ‘tregua’ e sono assolutamente blindati anche a ovest, con la Turchia, nemica storica del paese.
E questo piccolo paese, grande come la Lombardia, senza sbocco al mare, con un’economia arretrata e isolata geograficamente da una situazione politica molto complicata, sta sviluppando un’economia in crescita anche grazie al turismo e alla sua voglia di farsi conoscere.
La ricchezza del suo patrimonio culturale, storico ed artistico, infatti, ti trasporta immediatamente in un territorio maestoso fatto di spettacolari montagne, valli, canyon e foreste e laghi dalle acque cristalline.
A questo si aggiunge che l’Armenia è stato il primo paese ad adottare ufficialmente il Cristianesimo nel 301 a.C. e la Chiesa armena è, ufficialmente, la più antica chiesa cristiana ed è chiamata “Chiesa Apostolica Armena”.
E dalla cristianità si parte per osservare il luogo simbolo dell'area, il monte Ararat, fonde la bellezza naturalistica delle cime caucasiche al fascino di un passato leggendario: si tratta infatti del monte sul quale sarebbe approdato Noè con la sua Arca secondo l'antico testamento.
Infine le città, in primis la capitale Yerevan, luogo in pieno sviluppo culturale dopo il raggiungimento dell'indipendenza dall'Unione Sovietica arrivata solo nel 1991. La voglia di progresso e la vivacità culturale testimoniano il grande entusiasmo degli Armeni, in particolare delle nuove generazioni, di superare gli orrori del passato, in particolare il genocidio ancora oggi non riconosciuto dallo stato Turco, e di valorizzare la propria terra dopo la diaspora di Armeni che ha caratterizzato gli ultimi decenni.
Ecco un secondo pezzo sul genocidio
Da Yerevan si sale facilmente fino al belvedere di Tsitseka berd, luogo ameno, denominato “collina delle rondini" dove si erge, possente e fragile al tempo stesso, per l’inquietudine che trasmette al solo sguardo, il monumento al genocidio armeno.
Siamo nel 1915: i turchi, in pochi giorni, uccisero migliaia di uomini armeni e deportarono donne e bambini nel deserto siriano: per gente abituata alle montagne, fu una condanna a morte certa. Quasi due milioni di armeni morirono. Il genocidio ancora adesso non è stato riconosciuto da tutti i paesi del mondo. Sulla collina c'è un abete per ogni stato che ha riconosciuto questo orrore. Tra questi spicca una lapide deposta da papa Giovanni Paolo II.
Il monumento, di per sé, è una corona di dodici monoliti che rappresentano le altrettante province armene perse ad opera dei turchi e di una altissima stele a forma di lancia, che rappresenta la ferita del popolo armeno e la spada che ancora adesso trafigge il cuore di questo popolo ferito nella sua più intima essenza.
Non si può scordare, infatti, quanto è successo nel passato, non si può dimenticare una tragedia talmente devastante che costò la vita ad almeno un milione e mezzo di armeni, periti spesso di stenti, malattia o sfinimento nel tentativo disperato della fuga. Ogni anno, il 24 aprile, alla Collina delle rondini, oltre agli armeni di Yerevan e delle province della Repubblica d’Armenia, alcuni sopravvissuti si mettono in viaggio come eterni pellegrini, della realtà e della memoria, del passato come del presente, per non dimenticare. Assieme a loro in migliaia procedono, come soldati del ricordo, anche i figli dei sopravvissuti, orfani della storia provenienti da ogni angolo della terra, dove oggi si trova disperso parte di questo popolo antico e fiero dopo il Medz Yeghern, il "grande crimine" che ha davvero macchiato l’umanità.
In occasione di questa ricorrenza, la base circolare che cinge il braciere del Memoriale del Genocidio si ricopre di migliaia di fiori: garofani bianchi e rossi, rose, o anche semplici fiori di campo. Ognuno che passa, lascia un fiore e, insieme, un pezzo di sé, di quello che è stato suo padre, o suo nonno.
Gruppi di visitatori, mentre il sole dell'estate brucia la pelle e scalda il nero della pietra, si inoltrano nel Giardino dei giusti, dove ogni albero ricorda il sacrificio di chi si è saputo opporre alla follia del genocidio, denunciando i massacri o mettendo in pericolo la propria vita per salvare quella degli armeni.
Ogni foglia un respiro rubato.
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