24 novembre 2016

Quale ordine mondiale

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Globalizzazione; controglobalizzazione; contro controglobalizzazione; robot; occupazione. 

di Antonio Saccà
Cominciamo con delle citazioni esemplificative del dilemma attuale. Francesco De Benedetti, intervista a David B. Cohen, 1I novembre, “la Repubblica”.
Dice Cohen: “La compresenza di etnie e culture, così come la globalizzazione economica, sono strade senza ritorno. Anzi, si affermeranno sempre più. Ma i più giovani sono avvezzi a tutto questo, e non rimpiangeranno le fabbriche perché immagineranno lavori diversi. Basta con il rancore, arriverà un altro futuro, e sarà giovane”.
Scrive Marco Gervasoni, “Il Messaggero “, del 12 novembre: 
“Solo l'illusione un po' tecnocratica e un po' illuministica ha potuto far credere che liberarsi dello Stato nazione fosse un'ottima idea, mentre oggi lo rivendicano tutti, da Trump a Sanders. Una lezione per la sinistra mondiale, che, a caldo, a giudicare dalle reazioni, tra l'isterico e il disperato alle elezioni Usa, non ha metabolizzato”.
Queste affermazioni contengono taluni aspetti della contrapposta valutazione che viene compiuta sulla situazione economica ed anche politica odierna, e futura. Tocchiamo il primo aspetto, la globalizzazione, non collegandola, ora, alle nuove tecnologie. Il problema è e continuerà ad essere: che mezzi hanno politici ed economisti per limitare o non ricevere danni che vengono dalle innovazioni tecnologiche, accennate, ma di cui scriveremo in seguito, dagli spostamenti di capitali, dalla concorrenza con paesi a basso costo di produzione, dall'immigrazione che attenua il costo del lavoro e fa urtare lavoratori stranieri e lavoratori nazionali? C'è rimedio, o il capitalismo è ormai “questo”, come afferma Cohen, inevitabilmente? Dobbiamo considerare retrivi, sorpassati coloro che dubitano sui vantaggi sicuri degli scambi internazionali, nei modi in cui avvengono, con la discrepanza dei paesi a basso costo del lavoro attrattivi dei capitali nei confronti dei paesi a salari più alti? L'impoverimento di molti paesi prima benestanti è un fatto, così come l'arricchimento di paesi prima poveri. Se “questo” internazionalismo (globalizzazione) suscita impoverimento. malessere, nei paesi benestanti in precedenza, che significa, in astratto, elogiare l'internazionalismo globalizzante o considerarlo inevitabile, come dichiara Cohen? Piuttosto, è necessario cogliere quel che non va! Senza tacciare di passatismo o peggio chi ha, se non altro, il coraggio di voler capire e rimediare quanto “non va”!
È quel che tenteremo. Per cogliere l'insieme sistematicamente occorre vagliare quel fenomeno assai nominato ma poco scandagliato che è la Globalizzazione. Il termine, nella sua validità significativa, è intrinseco al Capitalismo. Il Capitalismo si presenta come evento globale, si propagherà nel pianeta. In tempi differenziati, con rapidità e potenza varie, ma non vi sarà palmo che si sottrarrà al sistema capitalistico. Da Smith a Comte a Marx, il commercio mondiale, l'industrializzazione mondiale sono convintamente asseriti. Ma ho fatto qualche nome, presso che tutti hanno la medesima convinzione e colgono nel commercio mondiale e nell'industrializzazione mondiale il benessere per l'umanità. Lo stesso Marx, che drammatizza tale svolgimento (lotta di classe, dominio colonialistico...) ritiene che in ogni caso il capitalismo sfocerà nel socialismo e quindi nel comunismo, ed è un bene che il capitalismo avanzi in tutto il mondo come presupposto del socialismo mondiale. 
 La globalizzazione è avvenuta quando i mezzi di produzione crescevano, si che divenne indispensabile allargare i mercati, da ciò conflitti tra paesi sviluppati, e predazione sui paesi sottosviluppati ma che spesso avevano requisiti importantissimi, mano d'opera a basso costo, materie prime. Quando la classe operaia dei paesi sviluppati raggiunse diritti di tutela e salariali sufficienti al benessere, accadde una modificazione epocale: il sistema capitalistico avanzato spostò i capitali nei paesi a basso costo di lavoro, oltre a mantenere il dominio sulle materie prime. È la Globalizzazione odierna: importazione di lavoratori a basso costo, presa sulle materie prime, investimenti nei paesi a basso costo di manodopera. In tal modo il capitalismo aggirava i diritti e le richieste dei lavoratori nazionali. Tutto questo in ipotesi. Ma si verificò un percorso del tutto stravagante: i paesi che ricevevano il capitale straniero a loro volta si svilupparono, organizzarono una loro produzione per il loro vantaggio, riversarono questa loro produzione, spesso anche dovuta a capitali stranieri, sui paesi dominanti, risultando competitivi. È la Controglobalizzazione. I paesi asiatici, specialmente, attirarono i capitali, produssero a minor costo, invasero, ed invadono, i mercati, vincono la concorrenza. Non basta. L'idea di ricevere lavoratori stranieri, spesso clandestini, per dare salari a minor costo sui lavoratori nazionali, ha stabilito la famigerata guerra tra poveri. Infine, il dominio del grande capitale, finanziario, produttivo, commerciale, ha stroncato i ceti medi. È, dicevo, la Controglobalizzazione, gli effetti non previsti della Globalizzazione. I paesi globalizzati inondano di merci i paesi globalizzanti, nei quali, pertanto, la disoccupazione, la minore remunerazione, il crollo delle piccole imprese si fanno tellurici. Abbiamo vissuto l'accadimento, lo viviamo: accrescimento soprattutto dei territori asiatici, depauperamento dei popoli detti del Primo Mondo. È un fatto. Per anni abbiamo vissuto questa Controglobalizzazione. Ribadisco, la viviamo. Però, ecco la novità sconvolgente, si desta una Contro Controglobalizzazione. I paesi del Primo Mondo, che credevano di regolare il pianeta e di proseguire il cammino della globalizzazione e dominare finanza, produzione, commerci, assaliti dalla Controglobalizzazione che, vincendo la competizione per i minori costi di produzione, prevale e inonda i mercati, oggi non sopportano questa situazione reputandola mortale e, dicevo, suscitano, appunto, la Contro Controglobalizzazione. In capo a questa Contro Controglobalizzazione vi sono gli Stati Uniti, anche se molti percepiscono la Contro Controglobalizzazione una rovina per gli Stati Uniti, ad esempio se si volessero porre dazi sui prodotti che vengono dai paesi controglobalisti. Scrive Alessandro De Nicola: “(...) The Donald vive disconnesso, pensa di infliggere sanzioni e dazi agli altri senza che questi reagiscano con contromisure politiche ed economiche. Le economie sono interconnesse: le auto assemblate negli Usa dipendono da pezzi fabbricati in Messico e le Bmw costruite in Nord America e che vengono riesportate in tutto il mondo con beneficio della bilancia commerciale Usa, sono composte da pezzi provenienti dall'intero pianeta: se aumenti il prezzo dei componenti, aumenta quello della Bmw e non la esporti più”. Di Nicola aggiunge che i dazi fanno crescere l'inflazione ed i tassi di interesse e diminuiscono la concorrenza, e prevede un “periodo turbolento”. D'altro canto, sullo stesso quotidiano da cui citiamo Di Nicola, il supplemento economico de “la Repubblica”, 14, 11,2016, Alberto Statera, virulento nei riguardi della nuova amministrazione statunitense, scrive riferendosi ai cittadini americani: “Per 120 milioni di loro il valore della ricchezza posseduta era di 160 mila dollari, oggi si è ridotto a 98 mila dollari. E mentre i redditi diminuiscono, 48 milioni mangiano alla mensa dei poveri”. Statera aggiunge che si va verso un capitalismo oligarchico, incapace di giustizia sociale, dagli oscuri esiti, “se non quelli su un populismo selvaggio capace soltanto di coagulare tutte le frustrazioni della società, dando risposte (vedi l'immigrazione) primitive e dannose. Non vorremmo immaginare un'evoluzione ancora peggiore verso una strisciante repressione totalitaria”.
Al dunque. Se in alcune zone del mondo sussistono guerre e miseria, accade però che in luoghi nei quali il benessere del presente e del futuro sembrava certo, ora esso è in dubbio, nel presente e nel futuro; e se migliaia, milioni di persone nelle zone di guerra e miseria sono disperate, nelle zone del benessere eclissato sono scontente o più che insoddisfatte, e mentre coloro che vivono nella miseria e nella guerra sperano di sfuggire, coloro che vivono nel tramonto del benessere non sanno che fare e dove scampare, anzi addirittura temono di essere invasi dai disperati fuggitivi, e di aver concorrenti nella gara alla sopravvivenza. Si che ogni speranza di tutela, ogni ombra di mutamento appaiono salvezza, purché non continui l'andamento odierno, ci si affida ad ogni promessa di cambiamento, ripeto. Del resto, se il risultato dello svolgimento economico sociale è come descritto, oligarchie ristrette e impoverimento esteso, il cambiamento, quale che sia, è la terra promessa. Non c'è però una realistica indagine sui motivi della crisi, si che le soluzioni non rimediano, almeno fino al presente sono state inefficacissime. Occorre avere nette le basi del sistema capitalistico, anzi, la base: il profitto, ritenuto utile al capitalista e alla società. A base del profitto vi è il costo di produzione, la proporzione tra l'investimento con tutti i suoi costi, e il ricavato. Il capitalista sceglie tra impiego di lavoratori ed impiego di macchine la convenienza, se gli è di vantaggio occupare operai o utilizzare macchine, non in modo assoluto, certo. Teniamo conto di queste categorie generali del capitalismo e torniamo alla cronaca. Vero, siamo in una situazione paradossale: se roviniamo noi stessi ponendo dei dazi in quanto le merci “daziate” sono frutto dei nostri capitali all'estero o servono ad abbassare il costo di nostri prodotti nazionali, è assurdo porre dazi, ma se le merci straniere ci invadono, noi precipitiamo, al punto, come scrive Statera che i ceti medi hanno quasi dimezzato il loro reddito e quasi cinquanta milioni di persone non hanno di che vivere, a parte il crollo del valore delle case per insolvenza , il che ha annientato chi le aveva acquistate. Ed allora è comprensibile che insorga un tentativo di difesa contro la Controglobalizzazione, contro i paesi globalizzati che però ormai sono diventati competitivi e ribaltano il nostro tentativo di globalizzarli, globalizzandoci. È l'effetto di un errore mortale: impiegare il capitale contro il proprio paese, investire in altri paesi e scavalcare il proprio paese! Non discuto, è un dato. Stiamo pagando lo spostamento di capitali nei paesi a basso costo e l'importazione di merci fatte altrove, oltre che il tentativo di ricreare un Terzo Mondo da noi con immigrazione concorrenziale. Il tentativo di uscire dal paradosso, che i dazi ci danneggerebbero, quindi sarebbero incongruenti,(anche Romano Prodi “Il Messaggero”, 20, 11, 2016, personalità di esperienza “globale” ritiene del tutto negativa l'eventualità di dazi sulle merci che provenissero dalla Cina, in vista della ritorsione cinese sui titoli statunitensi, come detto) consiste, almeno per gli Stati Uniti, che è il luogo esemplare di questa Contro Controglobalizzazione, poiché è il Paese che la subisce maggiormente, consiste, ripeto, nell' investire cifre colossali per le opere pubbliche, infrastrutture, finanziate da privati, ma con detrazione di imposta di 88,2 miliardi di dollari l'anno, un gravame per lo Stato, il quale si rifarebbe con l'accresciuta potenza del sistema economico. Tutto ciò in ipotesi. Inoltre, gli accordi commerciali generalizzati sarebbero eliminati, e si avrebbero accordi con singoli stati, a seconda della convenienza e del non essere invasi da merci straniere a basso costo, che vulnerano le merci statunitensi e le pongono a servizio di importazioni esterne. Ciò specialmente nei confronti della Cina, con il rischio, però, che la Cina venda i buoni del tesoro americani in suo possesso, facendone crollare il valore. Ed ancora, limitazione dell'immigrazione per valorizzare l'occupazione interna. Meno dispendio per la difesa europea e meno interventismo militare. Ipotetico svolgimento di relazioni meno conflittuali con la Russia. Se si stabiliscono positive relazioni degli Stati Uniti con la Russia il compito della NATO scema. In ogni caso l'Europa deve prendere atto che gli Stati Uniti penseranno alla loro crisi... Ecco quanto risulta dalle informazioni sui propositi statunitensi per non sottostare alla controglobalizzazione. Punti radicali: diminuire la tassazione ai capitali investiti in Patria, investire in Patria, contrastare le merci esterne. Ma, come abbiamo detto ed occorre ribadire, giacché è il perno intorno al quale si avvolge l'intera fenomenologia economica odierna, per salvare il massimo profitto, il capitalista investì i capitali fuori, produsse fuori, importò le merci prodotte fuori, guadagnò enormemente perché produsse e produce a basso costo; aprì ed apre le porte all'immigrazione tentando di suscitare un Terzo Mondo interno; infine, recentissimamente, potenzia le tecnologie eliminatrici di lavoro. Questa operazione, che sembrava fortunatissima e scaltra divenne micidiale allorché si verificarono e si verificano taluni inconvenienti, accennati: i paesi globalizzati esportano nei paesi globalizzanti anche a loro vantaggio, in concreto, la Cina esporta a vantaggio della Cina: i prodotti del Primo Mondo patiscono la concorrenza, i lavoratori del Primo Mondo sono vulnerati dai capitali spostati all'estero, dalle merci nazionali non concorrenziali, dagli immigrati sottopagati, infine, al culmine della situazione, dall'innovazione tecnologica (Robot, informatica, Intelligenza artificiale), al dunque, tutto si ritorce, e da questa crisi non sfuggono i ceri medi, le stesse imprese. Dunque è irresponsabile dire, come fa Cohen nell'intervista annotata, che i giovani accetteranno il nuovo tipo di lavoro. L'accetteranno, se il lavoro reggerà! Ancora non è visto nitidamente l'annientamento del lavoro dovuto alle macchine robotiche. Insomma, con queste combinazioni messe insieme e riferite, il Primo Mondo è colpito a morte. Taluni ragionano ancora come se la povertà, la miseria caratterizzassero soltanto il Terzo Mondo. È vero che ancora esiste una sproporzione tra paesi come il nostro e popoli miserrimi, ciò che però non si comprende, ne dicevo, è che sentiamo il pericolo del decadimento, ed è uno stato psicologico da tenere in assoluta considerazione. Mentre noi temiamo di precipitare, gli altri non possono che stare meglio, il che scatena avversione contro i poveri che vengono da fuori, ed è difficilissimo convincere chi teme di decadere e non fargli temere di decadere ancor di più a causa degli stranieri che riceviamo. Ovviamente la massima responsabilità non è degli stranieri ma nel modo in cui cerchiamo il profitto. Se i capitali vanno all'estero, se le merci sono in parte prodotte all'estero con i nostri capitali, se si importano merci dall'estero fingendole nazionali, se viene utilizzato lavoro straniero fuorilegge, sottopagato rispetto al nostro, se si introduce la macchizzazione del sistema produttivo, i lavoratori ed il ceto medio sono atterrati, la piccola e media impresa falliscono ( ben ottocento imprenditori si sono uccisi soltanto nel Nord Est negli ultimi anni!), ed è un fenomeno del Mondo Occidentale, una crisi che pervade noi, che, quindi non siamo popoli che stanno bene totalmente, è un luogo comune errato dare noi come paesi del benessere e gli altri come poveri e sventurati, la crisi c'è anche da noi. Gli Stati Uniti hanno “risolto” la crisi con la sottoccupazione, con gli immigrati malpagati, con la meccanizzazione, con l'informatica cedendo la produzione di merci ad altri paesi, con un'immissione strabocchevole di denaro a tasso zero, vale a dire: non hanno risolto la crisi. È venuto il momento di prendere in grave considerazione la nostra crisi, oltre la miseria degli altri, non farlo può causare effetti micidiali.
 E torniamo al quesito che ci siamo posti. Ossia al tentativo che sta insorgendo di combattere la Controglobalizzazione, la conquista di alcuni paesi dei mercati mondiali, da parte della Cina, dell'India... C'è una via di uscita in questo marasma? Rivediamo punto per punto. Mettere dazi significa autotassarsi, giacché spesso le merci o vengono da nostri capitali o servono a nostri prodotti finiti. Cacciare gli immigrati, a parte la problematica morale, comporterebbe un aumento dei salariati nazionali, quindi un aumento dei costi di produzione, quindi una perdita di competitività. Tenerli significa continuare la crisi dei lavoratori nazionali. Detassare le imprese nazionali e rendere le merci prodotte all'interno competitive è la risorsa decisiva, così come i grandi lavori infrastrutturali detassati fatti da capitali privati. Ma su tutto questo incombe una devastante evenienza: e se queste vie di scampo sono svilite da una estrema utilizzazione della meccanizzazione delle imprese (Robot, Intelligenza Artificiale, Informatica), che varrebbero le detassazioni se le imprese non utilizzassero al pieno lavoratori? Obbligarli a utilizzare lavoratori? Non è realistico. Le acquisizioni tecnologiche evolutive si impongono. Ed allora? Allora bisogna che lo scopo dell'impresa non sia il profitto ma l'occupazione. Meglio: sia un profitto che non cerchi il profitto contro l'occupazione ma un profitto per consentire l'occupazione. Un'impresa che fa del profitto il mezzo per l'occupazione è concepibile? Non solo concepibile ma risulterà obbligata. Se non si coglie che il modo consueto di ottenere profitto è ormai incompatibile con l'occupazione non si comprende la vera ragione della crisi e la sola maniera per rimediarvi: il profitto per l'occupazione, ovverosia: il lavoratore imprenditore. Che significa: impresa per l'occupazione? Semplice: impresa che ha quale scopo l'occupazione, impresa il cui profitto ha come scopo mantenere e sviluppare l'occupazione, non la ricchezza del capitale-capitalista. Obiezione cruciale: quale capitalista impiegherebbe il suo capitale per sostenere l'occupazione e non il suo profitto? Contro obiezione: e quale capitalista si può illudere che se il suo profitto disoccupa o sott’occupa egli reggerà a lungo senza sconvolgimenti sociali? Ad un certo livello di sottoccupazione e disoccupazione, e poniamo i Robot oltre gli investimenti all'estero e gli immigrati, la tensione sociale diverrà ingovernabile, allora: o si stabilisce un’autocrazia dei possidenti, dei magnati o si creano forme di economia solidaristica, le quali regolano salari, orari, profitti in funzione dell'occupazione. Una economia responsabile moralmente, non una morale astratta anzi in qualche modo necessitata per salvare la società dai conflitti, interni ed esterni. Volgere a vantaggio dell'umanità mezzi potentissimi che sono in grado di dare vantaggio all'umanità, non coartandoli a vantaggio di pochi. In concreto: se con una nuova macchina mi basta un operaio invece di cinque come prima della nuova macchina, invece di mantenere un solo operaio ad ore piene, mantengo cinque operai ad orario ridotto. Ed il profitto? Appunto, verrà sostituito dalla economia dell'occupazione, il profitto al servizio dell'occupazione. Il capitalista non accetterà, si obietta. D'accordo. Allora o la società è in grado di governare i disoccupati, non ricorrendo alla violenza; o vi sarà un tale sconquasso che l'economia del profitto salterà... per mancanza di consumatori; o i lavoratori faranno loro le imprese per l'occupazione: o si spera che l'occupazione tornerà, frutto di una globalizzazione talmente estesa da suscitare molti mercati, quindi consumatori, quindi occupazione. E se i Robot elimineranno lavoro anche se la globalizzazione si diffonde? Questa concezione che la globalizzazione diffondendosi incrementerà scambi, mescolanze, nuovi lavori, integrazione, internazionalizzazioni di popoli, merci, produzioni, religioni, è, ad oggi, una fantasticheria. Esiste la Globalizzazione, ma pure i conflitti dovuti alla globalizzazione. L'universalismo non ha una strada spianata, oltretutto più che una strada spianata esso spiana la strada, abbatte popoli, tradizioni, religioni, abitudini alimentari, non per stabilire un piano orizzontale, ma il dominio di taluni su altri. Gli ammiratori della globalizzazione non colgono che essa è una lotta, e al presente vincono i controglobalisti: Cina, India... Che ci resta, accettare la disfatta? Sono gli Stati Uniti a cercare di reagire dicevo...  Lo scopo dell'Amministrazione di prossima investitura la prendiamo in conto perché prima o dopo anche l'Europa farò lo stesso cammino, il tentativo, in certo modo disperato, di un risorgimente della produzione di merci fatte in casa, con investimenti apocalittici, mille miliardi, specie in infrastrutture. E a tal punto torna il tema- problema. È stata una doppia follia credere di far produrre merci nei paesi con bassi salari spostando i capitali, e credere che la produzione legata alla tecnologia informatica bastasse ai paesi del Primo Mondo, segnatamente agli Stati Uniti? Non si è valutato che di merci le società hanno bisogno e che l'economia informatizzata non creava sufficiente occupazione compensativa della perdita di occupazione nella produzione delle merci? Pare proprio sia stato un doppio errore. A cui se ne aggiunge un terzo, colossale. Credere l'attività finanziaria capace di arricchire. Ancora una volta, errore per l'assolutizzazione del profitto senza calcolare gli effetti sociali, oltre quelli economici. E' bene insistere, oggi più che mai è indispensabile valutare, oltre gli effetti economici gli effetti sociali del profitto, non rassicurandosi con il vecchio motivo che se c'è profitto, c'è benessere sociale. No. Può esistere profitto senza o contro il benessere sociale. Molti non colgono che avanziamo in un terreno disoccupativo, tecnologie iperproduttive ma non suscitatrici di occupazione. Se non si coglie questa problematica si ritiene ancora possibile risolvere la crisi con accordi tra lavoratori e capitalisti al modo della cogestione tedesca, questo l'auspicio di Mariana Mazzucato, “la Repubblica” del 20 novembre:
 “Le aziende devono tornare ad essere in sintonia con la società, dobbiamo instillare in loro un senso del dovere più ampio, che ricompensi la creazione di valore più che l'estrazione di valore. In altri Paesi, come la Germania e i Paesi scandinavi, esiste una forma più partecipativa di stakeholder capitalism, che prevede un ruolo per i lavoratori nei consigli di amministrazione delle imprese”. Tanto semplice? Caso vuole che proprio in Germania la rivista “Der Spiegel” (03,09,2016) grida al pericolo disoccupativo per le nuove tecnologie: i Robot sono creativi, ad esempio strutturano composizioni musicali, ma allargherei pure a testi di scrittura, non si ammalano, non si stancano, non patiscono odori, vernici, caldo, non scioperano, non bisognano di pensione, e, cruciale, sostituiscano il lavoro umano. Gli autori della Rivista, pongono quindi le domande assolute: ridurre l'orario di lavoro? Come vendere le merci se i lavoratori sono licenziati (Markus Dettmer, Martin Hesse, Alexander Jung, Martin U. Mueller, Thomas Schulz). In tal caso di certo è indispensabile un accordo tra capitale e lavoro ma in forme radicalmente alterate. Credere che basti la cogestione è un'altra illusione, di chi ritiene questo odierno mutamento assorbito con ritrovati del passato. Per niente. Quando i mezzi di produzione si ingigantiscono è inconcepibile supporre che i rapporti di produzione restino identici o quasi identici. Al dunque se, come accade in Germania, i lavoratori hanno sacrificato un poco del salario per mantenere l'occupazione, quando la produzione sarà robotizzata ampiamente o si licenziano gli operai o li si fa lavorare poche ore ma senza decurtare troppo il salario bensì decurtando il profitto, ciò comporterà una modificazione radicale del capitalismo, come ho scritto in tutti i miei libri recenti. Ne dirò alla conclusione.
Ritorniamo alla “fucina” statunitense. È Steve Bannon il teorico entusiasta dell'investimento colossale, egli si definisce un nazionalista economico, e dice di sé: “Non sono un nazionalista bianco. Sono un nazionalista economico. La globalizzazione ha sventrato la classe operaia americana e creato il ceto medio asiatico (...). Persone che hanno società che fatturano nove miliardi di dollari danno lavoro solo a nove persone. Hanno perso di vista la realtà. Il nostro è invece un movimento populista dove gira tutto intorno al lavoro. Io premo per un piano infrastrutture da mille miliardi di dollari. Sarà elettrizzante come gli anni Trenta, più grande della rivoluzione di Reagan dove conservatori e populisti, saranno uniti in un movimento nazionalista economico”. Ho l'impressione che sia la Mazzucato con la Cogestione (addirittura la Mazzucato scrive: “Non sono i Robot il nemico”) sia Bannon con l'iperinvestimento tipo Anni Trenta non colgono lo sconvolgimento robotico. Negli Anni Trenta i Robot non c'erano, ed in quanto alla Cogestione essa suppone... l’occupazione. 
Appare evidente che gli Stati Uniti con la nuova presidenza tentano disperatamente, è opportuno ridirlo, di sopravvivere all'economia finanziaria, all'economia digitale, robotica, all'economia che lascia o sposta la produzione di merci ai paesi con basso costo di produzione, e di rinvertire l'economia su basi industriali a casa propria. Insomma, ridare primato all'occupazione ed alla produzione di merci. La Contro Controglobalizzazione. Il metodo Bannon. Ma investire in infrastrutture mille miliardi da parte privata con favori fiscali purtroppo non garantisce l'occupazione, se conviene i privati possono impiegare mezzi informatici e robotici; la cogestione tedesca di certo stabilisce un accordo tra lavoratori e capitalisti, e potrebbe spingersi fino alla limitazione del profitto pur di occupare, ma in tal caso naufragherebbe il capitalismo, c'è da dubitare che un capitalista accetterebbe di ridurre il profitto, abbasserebbe gli orari di lavoro, manterrebbe l'occupazione del maggior numero. Presso che di sicuro sposterebbe i capitali, o non investirebbe, o tenterebbe mire autoritarie pur di licenziare. Al dunque: se in un modo o nell'altro il profitto resta lo scopo dell'impresa non ritengo esista uscita alla crisi. Se il capitalista non vuole adeguare l'organizzazione dell’impresa (orari, salari, profitto ed il resto) alla mutata potenza degli strumenti di produzione, torno a dire, semplicisticamente: se con un nuovo strumento un operaio vale cinque operai, ho queste alternative: mantengo con lo stesso orario passato un operaio e licenzio quattro operai; tengo i cinque operai diminuendo l'orario; ed il salario? Se voglio mantenere anzi elevare il profitto licenzio gli operai, devo decurtare il quantitativo degli occupati; se voglio mantenere gli occupati devo ridurre il profitto. Se il capitalista non compie questa azione, lo facciano gli operai: orari, salari, profitto ed altro, purché vi sia occupazione. Non scorgo altra soluzione. Ormai il profitto deresponsabilizzato dai suoi effetti sociali è rovinoso. 
Ma sebbene occorra fare ipotesi estreme cautelative c'è da ritenere che si avanzerà per gradi, vale a dire: diminuzione di orari, diminuzione di salari, diminuzione di profitto, con variabili sull'uno o l'altro punto secondo gli scopi. Se poi i Robot davvero si occuperanno della produzione in modo possente, allora inevitabilmente l'impresa sarà obbligata a impiegare al minimo persone tuttavia pagandole. Certo, potremo avere lavoro in campo assistenziale, ambientale, ma può avvenire che in tali campi i Robot prolificheranno. In questo caso non c'è posto che per una economia solidale, la quale diffonde alla Società Umana la grandiosità della sua capacità produttiva, mezzi idonei al benessere mondiale usati per il benessere mondiale. I mezzi suscitano i fini. Del resto sfrutteremo meteoriti, pianeti, fondi marini, forse avremo la fusione nucleare... circoscrivere queste enormità secondo il criterio del profitto mi pare addirittura inconcepibile. Credo che il profitto al modo antico cozza con i nuovi mezzi di produzione che eliminano lavoro. Che facciamo, lasciamo alla sorte milioni di persone? Occorrerebbe un’autocrazia disumana e non capace di governare, alla lunga. Insomma abbiamo tutti i mezzi per il bene comune. Se avendo i mezzi non vi connettiamo i fini che uomini saremmo! E non solo per ragioni morali saremmo degli inetti anche sul terreno della gestione. Ma, per gradi collegheremo orari, occupazione e profitti, stavolta la nostra volontà di bene ha tutti i mezzi a suo favore.
Siamo in una condizione di libera necessità.

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