21 febbraio 2014

UN CAVALLO PER AMICO

In quella terra, per la prima volta in vita mia, avevo percepito la bellissima sensazione di libertà, quando in sella a Musetto, provai la gioia della percezione dei grandi spazi aperti, che un compagno docile e fedele com’è un cavallo, può procurare all’uomo.

di Renato Piccioni*               
Correva l’anno 1982 era mese di febbraio, quando la Compagnia, per la quale lavoravo, mi chiese di trasferirmi in Nicaragua (America Centrale), per organizzare la costruzione e la relativa attività, di alloggi, cucine, mensa, uffici direzionali e impianti di officine, per un gruppo di ingegneri, geometri e tecnici specializzati, di una importante impresa italiana, incaricata della costruzione e della messa in attività, di una centrale “geotermica”, per la produzione di energia elettrica.
Andare in America Centrale, in un paese il cui popolo aveva appena vinto la rivoluzione liberandosi del feroce dittatore Somoza, per me rappresentava un vero stimolo alla mia innata curiosità e quindi accettai l’incarico e partii.

Avevo lasciata l’Europa che era nel pieno dell’inverno e in Nicaragua mi trovai proiettato nel pieno della stagione estiva equatoriale.
Trovai un paese che sembrava essersi risvegliato da un lungo sonno profondo e che si stava ancora leccando le ferite che aveva subite durante gli anni di guerra civile, che avevano comportato, oltre che moltissime perdite umane, anche molte distruzioni che, alcuni anni prima, erano già state ingenti anche a causa di una furiosa esondazione lavica del vulcano Sant’Jago, il cui fiume ribollente era arrivato fino quasi al centro di Managua, la capitale Nicaraguense, seminando rovina e morte.
Con il nostro gruppo ci insediammo alle falde del vulcano Momotombo, prospiciente le rive del Lago Xocotlan, che i rivoltosi Sandinisti e vincitori della rivoluzione, ribattezzarono, Lago della Libertà, dove sarebbe stata costruita la centrale elettrica per lo sfruttamento della geotermia estratta dalle viscere dello stesso vulcano.
Mi piacque subito il paese e per la sua orografia che comprendeva la catena di montagne con i tanti vulcani attivi ma in quiete, e fiumi a carattere torrentizio e laghi piccoli e grandi, che data la loro quantità hanno contribuito a dare nome a quella terra chiamandola appunto “Nicaragua” (cioè “Terra ricca di acque” nella lingua degli indios Chekua [leggi cequa]), mentre il nome della capitale “Managua”, che confina con le rive del lago ad est e con la riva dell’oceano Pacifico a ovest, significa “fra le acque grandi” : per la sua gente, per le grandi distese di boscaglie e foreste pluviali, le immense pianure verdeggianti di pascoli opimi, le diversità e specificità delle culture agricole e degli allevamenti zootecnici, la fauna terrestre variatissima e l’avifauna molto varia e selvaggia che popola tutto il territorio, e la rigogliosità della flora tra cui primeggiavano i suoi fiori selvaggi splendidi coloratissimi e profumatissimi, io trovai quella terra affascinante e piena di interessi da scoprire ed apprendere.
In tutto il territorio erano pochissime le strade asfaltate per cui molti si spostavano per le loro attività con carri trainati da cavalli o direttamente in sella al cavallo che risultava essere il mezzo meno dispendioso e più adatto alla viabilità dell’interno.
Durante il primi tempi del mio soggiorno nicaraguense, mi resi conto che per potermi spostare con più autonomia, per poter raggiungere gli sperduti pueblos campesinos (villaggi contadini), per soddisfare la mia innata curiosità di conoscere le popolazioni con le quali venivo in contatto nei miei soggiorni in paesi lontani, avrei dovuto servirmi anche io di una cavalcatura ma … … … certo che c’era un “ma” grande come una montagna.
Amo moltissimo gli animali, ma ciononostante, durante tutta la mia vita e fino ad allora, non avevo mai avuto l’occasione di imparare a cavalcare.
Tuttavia mi risolsi e mi comperai un cavallo: per la scelta mi affidai alla consulenza di un mio collaboratore nicaraguense, che di cavalli aveva esperienza, ed egli mi acquistò il mezzo che in quella regione risulta essere il più popolare per viaggiare e muoversi in piena libertà di movimento. E venni in possesso di colui che sarebbe stato mio compagno per girovagare per ogni dove permettendomi di raggiungere e visitare luoghi ed incontrare persone che altrimenti sarebbero rimasti ignoti alla mia curiosità che venne assolta da incontri indimenticabili.
Lo chiamai “Musetto”, ed era un cavallino di pelo rosso, con balzane bianche alle quattro zampe, una larga stella bianca in fronte, criniera e coda bionde.
Musetto non era ancora mai stato montato, per cui più che coraggio, ci fu da parte mia una certa dose d’incoscienza. Ma tanta era la voglia di poter scorrazzare liberamente per ogni dove, che superai e vinsi qualsiasi timore.
Feci costruire per Musetto, un piccolo recinto che dotai di mangiatoia con relativa tettoia da un lato e un invaso dove feci in modo che passasse acqua corrente recuperata dal vicino lago, perché oltre che mangiare il cavallino potesse dissetarsi a suo piacere.
Presi a visitarlo giornalmente nel recinto, e accudivo a lui con continuità, perché volevo diventassimo amici e lui doveva imparare a conoscermi bene per familiarizzare con me.
Per i primi quindici giorni passai molto del mio tempo libero in sua compagnia e, mentre lo accudivo gli prodigavo mille carezze accompagnate con parole di dolce serenità, e piano piano, giorno dopo giorno mi resi conto che stavamo diventando familiarmente amici.
Mi resi conto fin dai primi giorni della sua attenzione per me: dopo alcun tempo, mi resi conto che rispondeva prontamente ai miei richiami con docilità, e dimostrava gradire le mie attenzioni.
Quando entravo nel recinto, lo chiamavo dolcemente, e Musetto subito rispondeva al mio richiamo avvicinandosi a me: poi prese a strofinare il muso sulla mia tasca destra dei pantaloni perché aveva imparato dove io tenevo le zollette di zucchero che sempre gli davo.
Quando mi spostavo nel recinto per mettere ordine alle cose, egli mi seguiva passo passo, e metteva attenzione a ogni cosa io facessi: tutto questo face si che io prendessi finalmente la decisione di farlo sellare per poi montarlo finalmente.
Certo c’era da parte mia un poco di preoccupazione; figurarsi uno che non era mai montato a cavallo con un soggetto che non era mai stato neppure sellato una volta.
Si trattava di una prima volta per entrambi, e non sapevo, ne potevo prevedere, come sarebbe andata a finire.
Feci quindi sellare Musetto, per il quale avevo acquistata una sella da “vaquero” (mandriano) molto comoda e confortevole, con due capienti borse che pendevano ai lati, la testiera con le briglie e le staffe, il tutto ornato da strisce di cuoio che pendevano attorno la testa ed i fianchi del cavallino e che servivano per tenere lontane mosche ed insetti fastidiosi, e con una mal celata trepidazione, ma con decisione, salii in arcione.
La prima sensazione che provai stando in sella, fu straordinaria. Fu come potessi finalmente assaporare il senso della “libertà”, ma anche di “conquista” nello stesso tempo, e una sorta di orgogliosa sensazione, tutta, mi pervase l’animo.
Il cavallino non accennò a nessuna minima reazione d’insofferenza al mio peso: con molta calma e attenzione, presi a stimolarlo con la sola voce, ed egli prese a muoversi al passo per il recinto, sorprendentemente ubbidiente ai miei comandi. Con incredibile docilità, eseguiva i miei ordini cui facevo seguire, passandole sul suo collo, carezze di approvazione a premio della sua obbedienza.
Da quel giorno, e per una settimana, un’ora al mattino ed un’ora la sera, presi a montare Musetto, stando all’interno del recinto, perché prendessimo dimestichezza, lui con me ed io con lui.
Tutto filava liscio, e il cavallino mi dimostrò grande docilità e intelligenza, molto più di quanto mi fossi mai aspettato. Il tempo che io passavo con Musetto, era diventata la mia principale occupazione, e approfittavo di ogni momento del mio tempo libero dagli impegni di lavoro, per stare con il cavallo per familiarizzare il più possibile.
Aiutato da un giovane nicaraguense, mio collaboratore, accudivo le necessità di Musetto, tutto teso come ero a far subentrare in lui il senso di familiarità con me, perché volevo farne il mio compagno ed amico delle mie future esperienze che sarebbero, poi, risultate esaltanti.
Tutte le sere lo portavo in riva al lago, e lì, si procedeva a fargli il bagno e una toilettatura completa.
Il bagno con schiuma di sapone, il massaggio con ciuffi di erba secca, brusca e striglia, avevano fatto diventare il manto di Musetto lustro e brillante al sole: la bionda criniera e la coda, le sottoponevo poi a una lenta e lunga pettinatura, per cui il suo crine acquistava con la brillantezza anche una splendida vaporosità.
Mi resi conto che frattanto era cominciato a sorgere in me un grande affetto per Musetto, e sentivo che stava diventando per me un grande e caro amico. Il bagno al lago era diventato tanto una diuturna abitudine che se si tardava sull’orario abituale, Musetto dal suo recinto, ci chiamava con lunghi nitriti e non smetteva se non quando ci vedeva arrivare al recinto.
Non avevo acquistato né morso né speroni per due semplici ragioni: il cavallo era troppo giovane ed il morso ne avrebbe compromesso la crescita dei denti non ancora completata, e mi negai gli speroni perché non desideravo che il cavallo mi ubbidisse a causa del dolore ma solo per amicizia “spronato” soltanto dalla mia voce.
Musetto era un cavallo che aveva connaturate nel suo carattere, sia la vivacità della giovane età, sia la mansuetudine, e tutto ciò contribuì sicuramente a far si che insorgesse in lui per me, uno speciale attaccamento.
E finalmente venne il giorno in cui decisi la mia prima vera uscita dal recinto per una passeggiata all’esterno.
Quel giorno, ricordo era una domenica, feci sellare Musetto al mattino presto, assicurai alla sella il mio machete (leggi macete), una borraccia d’acqua e salii in arcione inalberando sul mio capo un ampio sombrero (cappello) nel più puro stile di vaquero (vaccaro) o, se preferite, da cow-boy.(leggi cao-boi), feci un paio di giri all’interno del recinto e poi, fatto aprire il cancello, mi avviai ed uscimmo.
Ebbi la sensazione come se Musetto fosse tutto compreso dell’avvenimento e, docile ai miei comandi, prese ad avviarsi al piccolo trotto verso la pista che s’inoltrava nella foresta.
Mi resi subito conto, che stava per cominciare per me una nuova avventura foriera d’inusitate sensazioni: sentivo sotto di me la docilità del cavallo ed ebbi come l’impressione che fosse lui stesso a scegliere il più agevole cammino da percorrere evitando gli ostacoli dell’accidentata pista che si snodava fra il folto degli alberi.
Mi sembrava di vivere come in una favola tanta era l’emozionante meraviglia che stavo vivendo: stavamo percorrendo quella stradina impervia ora al passo, e solo i rumori della foresta e lo scalpiccio del cavallo mi tenevano compagnia.
In poco più di un’ora avevamo percorso circa cinque chilometri in mezzo al bosco, quando sbucammo alle spalle del Momotombo e ci trovammo davanti ad una vasta pianura che si apriva ai nostri occhi con il lago sulla destra e alle spalle la folta foresta.
Arrestai Musetto, e ristetti a osservare quello spettacolo per me tutto nuovo e inusitato. La sensazione di grande libertà e autonomia che mi veniva dall’essere in groppa al mio cavallo, m’investì come un’inattesa cascata d’acqua, all’improvviso.
Emozione e commozione insieme alla sensazione di sentirmi un uomo libero grazie al suo cavallo, erano i sentimenti che mi portarono a nutrire per Musetto, nel tempo, tanta affettuosa gratitudine.
Quasi preda a una sorta di stordimento che pervadeva il mio animo, misi il cavallo al passo e m’inoltrai nella vallata.
L’erba era alta e arrivava quasi a mezza gamba del cavallo, e Musetto procedeva tranquillo nella sua avanzata in quel mare verde.
Quando fummo in mezzo alla valle, mi giunse all’orecchio il mormorio dello scorrere di acqua di un ruscello: mi diressi a quella volta e, giunti alla riva del fiumiciattolo, lasciai libero Musetto a dissetarsi.
Il sole era alto e caldissimo, e sia io che il cavallo eravamo bagnati di sudore ma anche felici: nel silenzio della valle rotto solo dallo scorrere delle acque del ruscello e dalle strida degli uccelli in volo, presi a parlare a Musetto come se potesse capirmi quanto andavo dicendogli, e sempre parlandogli riprendemmo il cammino ma per rientrare alla base.   
Come prima uscita era stata abbastanza esaltante e soddisfacente, ma non volevo che il cavallino si stancasse troppo.
Quella sera prima di andare a coricarmi, non potei fare a meno di recarmi al recinto per ringraziare Musetto per la gioia e la soddisfazione che mi aveva procurato e gli prodigai un sacco di carezze e lui mostrò di gradirle quanto mai.
Quella prima volta, il cavallino, mi aveva largamente ripagato di tutte le ansie che, nell’attesa di provare quella prima esperienza, mi avevano tenuto in tensione per tanti giorni.
Da quel giorno, tutte le mattine, presi l’abitudine di cavalcare Musetto per almeno un’ora, sia per allenarlo che per allenare anche me stesso.
Avevo ormai deciso che tutti i sabati e le domeniche, giornate di riposo dal mio lavoro, avrei fatto più lunghe cavalcate e poter giungere dove, fino ad allora, non mi era stato possibile.
Volevo visitare le zone degli allevamenti di bovini bradi, i cafetales (territori coltivati a caffè), le piantagioni di canna da zucchero, e delle piantagioni di cotone.
Ma soprattutto ero interessato ai più sperduti pueblos per entrare in contatto che viveva la vita dura e faticosa della vita campagnola, ma dove avrei potuto apprendere ataviche memorie e tradizioni che non fossero ancora inquinate dal modernismo cittadino.
Volevo insomma, vivere in prima persona apprendendo di prima mano, la conoscenza della vita dura e faticosa di quella gente, dei loro territori che mi avrebbero dato la conoscenza reale originale anche delle loro antiche tradizioni.
Volevo conoscere uomini e cose, e avevo la certezza che lo avrei potuto fare in modo privilegiato.
Ero pieno di entusiasmi, soprattutto perché Musetto si stava rivelando un prezioso amico che stava prendendo un posto particolare nella mia vita e nei miei affetti : ero ormai entrato in simbiosi con lui, così come lo fanno i vaqueros per atavica abitudine.
Essi hanno fatto del cavallo, oltre che un mezzo di lavoro, anche un prezioso inseparabile compagno di vita, insomma un vero amico.
Un’esperienza per me esaltante, ho avuto la possibilità di viverla soltanto grazie al mio cavallino, come quando ebbi l’occasione di incontrare una grande mandria di bovini al pascolo nella pianura detta del Pocojito (nome derivato da quello di piccoli pappagallini della avifauna regionale), guardata e condotta da un gruppo di vaqueros.
Quella era una pianura molto vasta per chilometri e chilometri quadrati, e l’erba folta e rigogliosa che vi cresceva, era un ottimo pascolo per il bestiame.
Quel giorno, era un sabato, mi ero spinto fino a quella pianura proprio perché ero stato informato che certamente avrei potuto incontrarvi mandria e vaqueros, ed era quella un’esperienza che veramente intendevo fare a tutti i costi.
Quando giunsi in vista della mandria al pascolo, mi fermai a osservare da lontano quelle centinaia di capi di bestiame alla cui custodia potei contare una decina di vaqueros, che sulle loro cavalcature guidavano il bestiame a muoversi lentamente.
Misi Musetto al galoppo e in breve arrivai a ridosso dei vaqueros. Mi sembrò come se io fossi stato improvvisamente proiettato in una scena di quei film che ci raccontano del far-west (lontano ovest).
La vista di quei vaqueros, con le loro camice a vivaci colori, con l’ampio sombrero a difenderli dai raggi del sole, le gambe infilate in guaine fatte del cuoio di pelle di bue che svolazzavano sui fianchi delle loro cavalcature, il tintinnare degli speroni, il loro continuo fischiare per richiamare il bestiame, il sibilare dei lazoz nell’aria, (fune da lancio con cappio e con nodo scorsoio in uso fra i vaqueros per bloccare la eventuale fuga di capi di bestiame), tutto ciò mi diede una forte emozione esaltante.
Poco più di lato alla mandria, notai che alcuni carri erano parcheggiati vicino a una larga pozza d’acqua, alcuni uomini affaccendati attorno ad un fuoco acceso, e seppi poi che quello era il campo provvisorio dove gli altri si recavano a consumare il pasto che alcuni di loro stavano preparando.
Misi il cavallo al passo e mi avvicinai al bivacco e subito fui fatto oggetto di una cordialissima accoglienza.
Per prima cosa accudirono al mio cavallo, lo dissellarono, lo assicurarono con le briglie ad un peso, e lo lasciarono pascolare liberamente.
Dopo pensarono anche a me offrendomi una tazza di tè bollente e mi invitarono a prendere parte al loro pasto.
Intanto sul fuoco, infilati in lunghi spiedi, avevano messo ad arrostire dei larghi pezzi di carne che cucinavano alla maniera argentina e cioè facendone “l’asado” (Carne arrostita alla brace), vale a dire carne arrostita lentamente.
Frattanto notai che una larga bacinella avevano messo a bagno in acqua fresca frutta e verdure crude.
Nelle tasche della mia sella io avevo messo alla partenza, una bottiglia da mezzo gallone di buon rum, la presi e ne feci omaggio ai vaqueros che gradirono moltissimo.
Nell’attesa del pranzo, io me ne stavo in disparte ed in silenzio, tanta era l’emozione che mi attanagliava di poter vivere quella esperienza, che per me sembrava essere più sogno che realtà.
Verso le due del pomeriggio, giunsero gli uomini che erano stati a guardia della mandria, e tutti seduti in terra in circolo si dette inizio al pasto.
Naturalmente fui investito da tante domande nei miei confronti e furono tante le risposte che dovetti loro per soddisfare tutte le loro curiosità. Terminato il pasto, anch’io sellai Musetto perché volli andare con i vaqueros che tornavano al loro lavoro alla mandria.
Vissi quel pomeriggio come uno di loro, in mezzo al polverone che con le loro unghie i bovini alzavano camminando e sentivo in me salire la felice esaltazione di quell’esperienza. Ebbi persino l’impressione che anche Musetto si divertisse a quell’inusitata prova.
Seguiva le evoluzioni della mandria con un istinto pari all’esperienza degli altri cavalli e ciò contribuì non poco a farmi fare bella figura presso quegli uomini. Cavallo ed io ci sentivamo come coinvolti in un nuovo giuoco, ed insieme ne apprezzavamo il divertimento con gioia ed impegno.
All’imbrunire la mandria fu fatta sostare vicino a un torrentello, dopo di che con i vaqueros, ci dirigemmo al galoppo verso il nuovo campo con i carri che ci avevano seguito, e avevano approntato il pasto serale.
Quella sera la cena era stata approntata a base di carne bollita di iguana con patate e riso e fagioli stufati con tortillas (tipica focaccina fatta con farina di mais).
Il trotterellare tutto il pomeriggio appresso la mandria, mi aveva messo addosso un formidabile appetito e feci veramente onore al pasto che trovai gustoso.
Dopo cena ci mettemmo tutti in circolo attorno al grande fuoco del bivacco, conversammo bevendo caffè e rum.
Uno dei giovani prese da un carro una chitarra e ci cantò delle canzoni di cui alcune molto melanconiche ma bellissime.
Aveva una bella voce, e il suo canto accompagnato dal pizzicar della chitarra, aveva creato una certa atmosfera con sensazioni indescrivibili.
Quelle canzoni parlavano di cavalli, pascoli, stelle e luna, e delle loro innamorate che lontane erano rimaste in attesa dei loro amati nelle case del loro pueblo.
Poi ci disponemmo per trascorrere la notte. Usammo le selle a mò di cuscino, ci coricammo sull’erba ancora calda di sole, e coperti da un semplice poncho, ci accingemmo a dormire.
Il silenzio che subentrò era rotto di tanto in tanto da qualche accenno di muggito che proveniva dalla mandria; i cavalli erano stati tutti assicurati alle poste, e davano segno della loro presenza con piccoli scalpiccii o accenni di nitriti: in alto, nel cielo che ci sovrastava, ci tenevano compagnia le luci tremolanti delle stelle, mentre qualcuno dei dormienti prese a russare debolmente.   
Anche se stanco e sopraffatto da tante emozioni della giornata, tuttavia stentavo a prendere sonno. Guardavo attorno a me e distinguevo le sagome scure degli uomini stesi a dormire : erano fiocamente illuminati dal riverbero del fuoco che continuava a bruciare poco distante e il tutto risultava sembrare come se la scena fosse irreale.
Poco più distanti da noi, potevo distinguere le groppe dei cavalli stagliarsi contro il cielo. Il frinire dei grilli e qualche guaito di lontani cojote (cani di prateria), fornivano una splendida colonna sonora alla notte che regnava in tutto il suo fascino.
Intanto una dolce fresca brezza di un leggero venticello ristoratore era venuta a sostituire l’opprimente calura della giornata. Poi, vinto dalle emozioni e dalla stanchezza, anch’io mi abbandonai a un sonno ristoratore e sereno ma vennero a tenermi compagnia sogni di lunghe e sfrenate cavalcate attraverso praterie immense.
Il primo sole del mattino ci fece da sveglia e il caffè che stava bollendo nei bricchi ci fece da completamento a quel ridestarsi sotto un nuovo cielo dove le ultime stelle andavano all’orizzonte tramontando.
Dovevo riprendere la strada del ritorno e allora alcuni di quegli uomini provvidero a sellarmi il cavallo e quando salii in sella mi si fecero attorno per i saluti di commiato.
Mentre mi allontanavo, i vaqueros, sventolando i loro sombreri mi gridarono il loro augurio “Vaja con Dios, amigo” (vai con la protezione di Dio, amico).
Poi, li vidi salire sulle loro cavalcature a loro volta e dirigersi verso la mandria per farla muovere in nuovi pascoli.
Allora, preso anche da una forte commozione, misi Musetto al galoppo per mettere molto spazio fra me e loro, per evitare a me stesso che il desiderio di rimanere con loro, prendesse il sopravvento.
Avevo davanti a me tutto il tempo della giornata della domenica ma era tanta la distanza che mi separava dalla mia sede che non intendevo perdere tempo. Di tanto in tanto mettevo Musetto o al passo, o al piccolo trotto, per non stancarlo troppo.
Non volli attraversare tutta la vallata del Pocojito e ripercorrere il valico della montagna, perciò diressi i miei passi verso la riva del lago anche se ciò comportava allungare un poco il cammino da fare.
Era quasi il mezzogiorno e stavo percorrendo la spiaggia del lago alla mia sinistra a ridosso della foresta alla mia destra, quando udii provenire dalla boscaglia, musiche che accompagnavano un bellissimo canto di molte voci in coro.
Deviai verso l’interno del bosco e mi feci guidare dal canto perché volevo conoscere la ragione di quelle musiche e di quei canti.
Alfine, sbucai dal folto della boscaglia in un’ampia radura che era contornata da alcune capanne di fango con tetto di paglia (nella lingua locale “ranchitos”- pron. racitos).
Al centro dello spiazzo era stato messo un tavolo ricoperto da una tovaglia bianca, con sopra due lumi che illuminavano un crocifisso situato al centro, tutto attorno la gente del pueblo che cantava inni che accompagnavano il rito della S. Messa che era celebrata da un frate cappuccino.
Per la prima volta mi fu possibile udire i canti di quella che in loco è chiamata “La Missa campesina” (La Santa Messa dei contadini), e posso testimoniare che nella sua pur consueta ritualità, quella Messa accompagnata dalle voci popolane e dalle musiche etniche acquistava una valenza di grande impatto, anche perché stava avvenendo in un luogo assolutamente inusitato e inatteso per me e, quindi, con maggiore emotività.                   
Assicurai per le briglie a un ramo d’albero il mio Musetto, e attesi che il rito giungesse al termine partecipandovi con profondo sentimento, anche perché coinvolto dall’esemplare partecipazione di quelle misere genti che seguivano il rito con una grande e sentita predisposizione, sia le donne che gli uomini ed i bambini.
Il gruppo musicale era formato da suonatori di chitarra, trombe, marimbe e tamburi e una piccola arpa del tipo in uso nelle Ande (catena di montagne che attraversa l’America Centrale e del Sud).
Ma vale la pena che io vi descriva la “marimba” per la sua originalità, sia nei suoni che dei materiali usati per la sua realizzazione. È uno strumento originario del Nicaragua, ed è formata da un ripiano dove poggiano allineate alcune assicelle di legno di varia misura e spessore regolate su toni e semitoni della scala musicale.
Al disotto delle assicelle, sono stati posti dei tubi recuperati da canne di bambù che servono da cassa armonica per amplificare i suoni prodotti dai colpi di un martelletto sulle assicelle che il musicista colpisce con secchezza e velocità per eseguire il tema musicale.
Il suono che se ne ricava e timbrico, vibrante e melodioso assieme. Quella strana orchestrina, accompagnava i canti che sottolineavano le fasi saliente della celebrazione del rito religioso.
Erano canti popolari che nel loro assieme costituivano appunto La Missa Campesina, e posso assicurarvi che il tutto era di graditissimo effetto. L’officiante, come avevo accennato, era un frate cappuccino e dalla pronuncia del suo spagnolo dedussi che non era originario del posto ma sicuramente straniero.
Al termine della S. Messa mi avvicinai al fraticello e mi presentai.  Era questi un ometto smunto e segaligno, di statura media, il cui volto ascetico era come illuminato dallo sguardo dolce dei suoi occhi azzurri.
Appresi che era anche lui di origine italiana, della provincia di Verona, e che viveva in Nicaragua da oltre venti anni.
Il suo convento era nella città di Leon, per cui, per raggiungere quel villaggio all’interno della foresta, era costretto ogni domenica a percorrere più di sessanta chilometri, un poco a piedi e a volte con mezzi di fortuna, pur di portare la parola di Dio e l’Eucarestia a quei fedeli.
Ma leggevo nel suo volto la gioia e mi resi conto che quel suo “sacrificio” costituiva fonte di allegria per lui. E quei “campesinos”, si mostrarono molto contenti della mia visita, e, con la loro abituale semplice cordialità, mi invitarono a condividere con loro il modesto pasto domenicale, che consisteva in fagioli bolliti con “tortillas” e qualche raro pezzetto di pollo sperduto fra i fagioli.
Nell’invitarmi alla loro tavola, mi rivolsero il tradizionale:-“Sientase, Señor, mi casa es su casa”, (Signore si sieda, la mia casa è la sua casa).
Trovai in quella gente tantissima cordialità, che il pur modesto pasto, finì col sembrarmi un pasto eccezionale.
L’atmosfera particolare vissuta durante quell’inusitato servizio religioso, la gentilezza, la cortesia genuina e spontanea di quella povera gente, la presenza di quel fraticello in quello sperduto villaggio, tutto ciò contribuì a fare di quella fortuita occasione un ricordo indimenticabile e splendido.
Dopo il pasto mi risolsi a risalire in groppa a Musetto per riprendere il mio viaggio verso la mia sede, e intanto che procedevo lungo il sentiero che si apriva nell’intrico della foresta, non potevo fare a meno di constatare che con quell’incontro mi ero arricchito spiritualmente ed umanamente in modo speciale.
E tutto ciò mi era stato possibile grazie a Musetto che mi permetteva incontri difficilmente possibili senza di lui: questa ma tante altre esperienze, fecero di quel cavallino un amico insostituibile e preziosissimo.
Come quando una volta giunsi in una vasta coltivazione di cotone proprio nella stagione della maturazione e del racconto.
Sugli arbusti dei filari delle piante si potevano notare i bioccoli di bianchissimo cotone che all’apparenza sembrava come se sugli alberelli fosse nevicato abbondantemente.
E notai come fra quei filari avanzassero decine e decine di “algodoneros” (raccoglitori di cotone), che trascinando assicurato alla spalla un lungo sacco lo andavano riempiendo dei fiocchi di cotone che avanzando, mano a mano, andavano cogliendo.
Fra essi notai che non vi erano solo uomini ma anche donne e fanciulli giovanissimi.
Tutti si sottoponevano a quella massacrante fatica sotto la sferza di un sole caldissimo, pur di dare il loro apporto all’economia della famiglia e del villaggio.
La cosa più sorprendente anzi, addirittura stupefacente, fu constatare come nonostante la fatica tutti si accompagnavano con canti di allegria e di gioia ed al ritmo di quei canti procedevano senza soste nella raccolta.
Ma se la raccolta del cotone è massacrante, non da meno lo è il lavoro per la raccolta della canna da zucchero che nel linguaggio locale è chiamata “Safra”.
Anche la canna da zucchero è coltivata in vaste pianure e quando le canne giungono a maturazione, squadre di uomini, prima di procedere al taglio delle canne, danno fuoco alle erbacce secche che infestano il terreno per liberare il territorio delle piante parassite e per scacciare eventuali indesiderati ospiti dei canneti, quali serpenti velenosi e altri animali nocivi.
Una volta che quest’opera è portata a termine allora le squadre dei tagliatori armati di affilatissimi “macheti [maceti]”, cominciano a recidere le canne dalla base del ceppo radicale, e le ammucchiano in una sorta di covoni che altri uomini che seguono, se li caricano in spalla per caricarli su carri trainati da buoi.
Ma vi sono “Fazendas”(Fattorie) i cui proprietari si sono molto modernizzati e si sono dotate di apposite macchine che tagliano alla loro destra e raccolgono e scaricano su carri che seguono alla loro sinistra, le canne da zucchero, per cui la lavorazione in quelle aziende risulta più veloce e meno faticosa per l’uomo.
Notai tuttavia che al contrario dei raccoglitori di cotone, gli uomini che operano nei campi di canna da zucchero, non cantano durante il lavoro perché nel loro procedere al taglio alzano un fitto pulviscolo dalla cenere dell’incendio delle erbacce, per cui, sono costretti a procedere con un fazzolettone bagnato legato sul viso a protezione della bocca e del naso per non respirare la cenere.
Però alla sera, al loro rientro nello spiazzo delle “Fazendas” , dopo aver consumato il loro pasto serale, prendono i loro strumenti musicali e intonando bellissime canzoni, danzano con una energia ed una allegria insospettabili se solo si pensa alla grande fatica cui si sono sottoposti durante tutta la giornata.
Per me resterà un mistero capire da dove traessero tanta energia e tanta voglia di ballare e cantare, ma credo che nascesse dalla consapevolezza di aver fatto un buon lavoro, e che quella musica fosse il primo premio prezioso alla loro gioia di vivere.

Una usanza molto bella trovai in Nicaragua
Non era raro incontrare la sera, nelle strade e delle città come dei piccoli villaggi, gruppi di musicisti chiamati “Mariachis” [pronuncia mariacis] (orchestre da matrimonio, che prendono il loro nome dalla definizione francese di “marriage” appunto “matrimonio”), che continuando un’antica tradizione, si mettono a disposizione degli innamorati che le ingaggiano per portare una “serenata” alla loro bella.
A volte sono serenate a dispetto, se e quando l’oggetto cui s’indirizza l’omaggio musicale non corrisponde allo stesso sentimento del committente, ma più spesso sono gentili e struggenti canzoni d’amore con le quali intendono confermare all’innamorata la veridicità dei sentimenti d’amore del loro spasimante.
È molto piacevole mettersi all’ascolto di quelle belle melodie che musicalmente danno un’adeguata sottolineatura alle belle parole in esse espresse avvalendosi di testi di vera e propria poesia lirica: e nella notte serena, stellata e magari con una bellissima luna splendente, salgono le note dalla strada verso il balcone dell’amata che, con ostentata discrezione traguarda di tra le stecche delle persiane, si mettono all’ascolto.
E sempre al termine del concertino, vengono tutti invitati, orchestrali e committente innamorato, a bere un “trago” (un sorso, un bicchiere), dai parenti della donzella oggetto dell’omaggio musicale.
Oltre che con le loro splendide e caratteristiche canzoni, i “Mariachis”, risultano interessanti anche a vedersi perché vestono un costume molto particolare che nel taglio e nella foggia risalgono alla fine dell’ottocento e sono d’ispirazione ispano-messicana.
Hanno in capo un “sombrero” a falda larghissima, decorato con stupendi ricami in oro e argento, e la tesa del sombrero dal lato della nuca è arricciata all’insù.
Indossano una camicia bianca con guarnizioni di trine e merletti che vanno dallo sparato fino ai polsi delle maniche, indossano un giacchettino del tipo “bolero” in velluto e corto alla vita con ricami anch’essi in oro e argento e bottoni dorati.
Al posto della cravatta indossano un cordino dorato o fatto con intreccio divari colori e termina ai capi con due vistosi pon-pon. Indossano pantaloni attillatissimi che si aprono a campana dal ginocchio in giù con uno spacco laterale dal quale fuoriescono le stesse guarnizione di trine della camicia.
Anche il pantalone porta vistosissimi ricami in oro e argento che richiamano motivi floreali molto belli.
Sia il vestito che il “sombrero” possono essere sia di colore rosso o nero ma rigorosamente di velluto, mentre alla vita come cintura possono portare o un alto cinturone di cuoio decorato a sbalzo con una larga fibbia in argento, oppure una fusciacca di seta che annodata al lato destro lascia pendere i due capi che terminano con una frangia dorata o argentata.
Ai piedi calzano stivaletti da “vaqueros” con tacco vistoso e completati con speroni terminanti in una sorta di ruotino a stella che risuonavano tintinnando nel camminare.
Quando mi capitava di imbattermi in queste allegre brigate sempre sostavo per godere delle loro canzoni e non era raro il caso che fossi invitato ad unirmi a loro che andavano di balcone in balcone a suonare la loro serenata.
Era per me una bella esperienza ogni volta che ciò mi capitava ed era anche un modo bellissimo per poter ascoltare musica autoctona che tuttavia conservava risonanze della musica spagnola con una commistione che essi stessi chiamavano “musica latino americana”.
Il rito della “Serenata” è per quella gente un rito ancora in grande auge e considerazione, mentre nel nostro paese si è perduta quella bella usanza sopraffatti come siamo e dal traffico stradale e dalle abitazioni che superano molto spesso un congruo numero di piani.
La nostra gente è stata privata quindi della bellissima e gentile usanza della tradizione di offrire poesia e musica con cui abbellire il più bel sentimento che creatura umana possa provare, l’amore.
Molto importanti in tutto il Nicaragua sono anche le feste a carattere religioso che si organizzano sempre in onore dei patroni delle città o dei villaggi.
A Managua è molto sentita la festa di “Santo Domingo” (San Domenico da Copertino, che è un santo italiano esportato in quelle terre dai missionari francescani) che è stato eletto a Protettore della capitale.
La statua del Santo, dimora tutto l’anno in una piccola chiesetta edificata in una piccola isoletta del Lago di Managua, e la festa ha inizio quando il venerato simulacro viene traslato con una barca
ricoperta di fiori, tanto da sembrare un cuscino floreale galleggiante, e condotto nella Cattedrale di Managua.
Al porto, all’approdo, la statua viene ricevuta in consegna dal Vescovo della diocesi e dal Capitolo del Clero, ed ha inizio una processione cui partecipa tutta la gente e transita per ogni via e viuzza della città dove riceve l’omaggio floreale della popolazione in festa.
La processione a termine al portale della Cattedrale dove viene condotto il sacro simulacro che vi soggiornerà per i tre giorni della manifestazione al termine della quale tornerà a dimorare nell’isola del lago.
In quei tre giorni, lungo tutte le strade si troveranno schierate bancarelle di giocattoli, dolciumi, cibi e bevande.
In ogni spiazzo, piazzetta piccola o grande, sostano orchestrine o gruppi folkloristici di danzatori che si esibiscono in danze e canti popolari.
La conclusione della manifestazione si avrà il pomeriggio della terza giornata in cui la strada principale verrà sgombrata di ogni cosa per lasciare libero spazio ad una corsa detta “Carrera de los Vaqueros” (corsa dei vaccari), ed al vincitore della gara verrà consegnata in premio la bardatura completa per il cavallo, tutta ricamata in argento ed oro e cosparsa di borchie decorative che la rendono veramente un prezioso ed ambito premio per tutti i gareggianti.
Durante le tre giornate, in diversi punti della città vengono costruite delle “Arenas de toros” (Arene per rodei con tori) dove si esibiscono “vaqueros” che potranno vincere sia premi in danaro che in materie le più svariate.
Poi avvenivano anche delle sfilate degli esemplari equini di razze scelte e appositamente ammaestrate e allenate e che durante le sfilate avanzavano con passi cadenzati e movenze statuarie di grande effetto anche perché i loro cavalieri e le amazzoni sfoggiavano abiti e costumi di grande effetto scenico e di grande pregio.
A queste sfilate seguivano premiazioni e riconoscimenti con coccarde e coppe e targhe che i premiati esibivano poi con grande orgoglio. A queste occasioni festive io cercavo di partecipare perché sapevo che per me avrebbero costituito esperienze uniche e irripetibili.
Ma in tutto questo baillamme di canti, musiche, fuochi d’artificio e tanta rumorosità come sempre avviene in questo genere di manifestazioni, ad un occhio curioso di tutto ed attento come il mio, non sfuggì di notare come i bambini partecipavano passivamente e senza mostrare entusiasmo, ancorché gli adulti li spronassero a divertirsi e prender parte attiva alla festa.
Probabilmente, nella loro genuina innocenza, quelle creature sentivano la forzatura di quell’allegria che non riusciva a sopire in loro il ricordo delle privazioni e degli stenti del loro viver quotidiano.
Nel rumore del vociare, delle musiche a tutto volume degli altoparlanti, nel caotico strombazzare dei clackson delle automobili che a fatica si facevano strada fra la folla festante, nel coacervo di quel caos, si sentiva palpabile, il desiderio della folla che voleva solo dimenticare le difficoltà della vita che era costretta a vivere in un paese che, giorno dopo giorno, sempre meno aveva da offrire in benessere, in tranquillità e libertà.
Indice inconfutabile in queste feste era trovare buttati nelle aiuole dei giardini, o nelle cunette delle strade, gente ubriaca che aveva cercato nell’ebbrezza stordente dell’alcool, la sola libertà loro concessa e cioè, l’annichilimento della personalità e della coscienza, per non dover sentire tutta la contraddizione di una festa fatta solo per far dimenticare dolori, sofferenze, fatica, miserie e povertà.
Al ritorno da quelle feste, pur soddisfatto nelle mie curiosità, non potevo non sentire nel profondo della mia coscienza, una sottile vena di amarezza. Mi rendevo conto che quella gente che, io avevo imparato ad amare per la dolcezza del loro carattere e per il loro altruismo, non aveva più neppure la gioia di partecipare aduna festa che di gioia doveva essere, ma che ormai si svolgeva solo nel rispetto di una tradizione ormai snaturata dalla mancanza di una vera intima partecipazione popolare.
Durante il periodo di due anni e mezzo, trascorso in Nicaragua, ogni sei mesi rientravo in Italia per un periodo di vacanza e in quelle occasioni ogni qualvolta rientravo al lavoro, portavo con me una certa quantità di vestiti, scarpe e giocattoli che mia moglie e le sue amiche si attivavano a raccogliere perché io potessi portare il tutto con me per farne dono a bambini dei miei collaboratori locali : ed era una vera festa quando all’arrivo facevo la consegna a quelle persone che facevano veramente fatica a potersi permettere tante belle cose.
Anche gli altri italiani che lavoravano con me in Nicaragua, trascinati dal mio esempio presero l’abitudine di raccogliere e portare tante belle cose per i bimbi dei nostri collaboratori. In tutto il paese, il gruppo degli “Italiani del Momotombo”, così ormai eravamo conosciuti, si conquistò molto rispetto e simpatia da parte delle popolazioni autoctone per la simpatia e la cordialità con cui erano da noi considerati e trattati, oltre al fatto che eravamo fonte di posti di lavoro ambitissimi data la penuria di lavoro che non fosse nei campi o negli allevamenti, oltre naturalmente, le attività commerciali ed artigianali della regione.
Molte furono le occasioni che durante le mie passeggiate con Musetto, imbattendomi in gente sconosciuta, al solo sentire che facevo parte del “Gruppo degli Italiani del Momotombo”, facevano a gara per dimostrarmi la loro considerazione, stima e simpatia.
Un giorno ero andato a visitare il vulcano Sant’Jago, che anni prima, con una sua tracimazione di lava durata circa quindici giorni, era stato causa di tanta distruzione e morte fin dentro la città di Managua; le bocche dei crateri ribollivano del magma lavico ed era uno spettacolo sconvolgente pensare che potenzialità di distruzione poteva insorgere da quelle bocche fumanti.
Proprio lassù, sulla vetta del vulcano, m’imbattei in un gruppo di ragazzi in visita scolastica e fra loro incontrai anche il figlio di un nostro collaboratore, il quale si staccò dal gruppo degli scolari e venne a salutarmi con tanta cordialità.
Poi chiese il permesso all’insegnante che li guidava e volle che andassi con li fino alla sua casa che non distava molto lontano abbarbicata come era alle falde del vulcano.
Fui accolto e ricevuto dal resto della famiglia con affettuosa simpatia e poiché il figlio maggiore aveva intrappolato con un suo marchingegno un “armadillo”, vollero che io rimanessi a pranzo con loro e tanto insistettero che non osai rifiutare l’invito se non volevo incorrere in un’offesa per loro.
D’altro canto ci volle da parte mia una certa dose di coraggio per avvicinare alla bocca la carne di quell’animale che, a mio avviso e secondo me, doveva essere poco commestibile, ma dovetti subito ricredermi al primo assaggio perché il suo sapore era squisito e somigliava molto al gusto della carne di maiale, ma molto più delicato pur restando saporitissimo.
Come sempre, quando accettavo l’ospitalità di qualche paesano, anche quella volta, dopo aver terminato il pranzo, vennero dei vicini con chitarre e tamburi, si fece musica, si cantò e si bevve rum.
Tutti in Nicaragua sanno suonare un qualsiasi strumento e sanno cantare molto bene e con voci ben intonate, e ciò meli rese molto simpatici perché mi parve riscontrare in ciò una certa napoletanità nelle loro belle usanze.
Ormai la Centrale Geo-termica del Momotombo era completata e non mancava che inaugurarla con la messa in produzione.
E per me ciò voleva dire che fra qualche mese avrei dovuto lasciare definitivamente quella terra e in quel periodo feci di ogni minima occasione la ragione per sellare Musetto, e scorrazzare per quei territori ormai divenuti familiari sia a me che al cavallino.
Nello stesso tempo cominciava a montare in me una certa angoscia al pensiero che avrei dovuto disfarmi di Musetto, non potendo certo portarmelo con me in Italia.
Non sapevo risolvermi ad abbandonare il mio cavallino al quale ormai mi sentivo legato da profondo sentimento di grato affetto, ma, purtroppo, non poteva esserci altra soluzione. Circa un mese prima della mia partenza definitiva dal Nicaragua, trovai un allevatore di cavalli interessato a Musetto quale riproduttore in quanto di buona costituzione, ed io risolsi allora di “regalarglielo” e concordai con lui perché un certo giorno venisse a ritirarlo,

E venne la vigilia della separazione
Quel pomeriggio, volli salire in sella a Musetto e, al passo, presi a percorrere i soliti sentieri del bosco che tante volte ci avevano visto transitare.
Nell’andare, parlavo a Musetto, e gli andavo chiedendo scusa di doverlo lasciare, e, mentre gli parlavo, accarezzavo la sua criniera continuamente. Ma intanto dentro di me sentivo come una tempesta di dolore. Quella passeggiata fu un vero “calvario” per me.
Al ritorno volli io stesso fargli l’ultimo bagno e l’ultima strigliata. Il cavallino mostrava una docilità sorprendente, quasi come sentisse tutta la mia tristezza.
La sera, prima di andarmi a coricare, mi recai al recinto per l’ultimo saluto.
Trovai Musetto che se ne stava vicino allo steccato, sembrava quasi si attendesse quella mia inusitata visita.
Mi sedetti a cavalcioni della staccionata, e lui mi venne visino fino a posare la sua testa sulle mie cosce, ed io in un impeto di commozione lo abbracciai sul collo e proruppi in un pianto irrefrenabile.
Mentre lo carezzavo piangendo, il cavallino emetteva leggerissimi sommessi nitriti: sembrava quasi rispondesse alle mie rotte parole, alla mia commozione. Non ricordo le parole che gli andavo dicendo, ma il dolore di dovermi separare da quel compagno di tante avventure, era veramente grande, profondo e insopportabile.
E lui, stava lì, ritto, immobile, quasi comprendesse il mio stato d’animo e non volesse recarmi nessun disturbo, mentre con le mie parole riversavo su quell’impareggiabile creatura il fiume delle mie emozioni mentre, con le mie carezze, cercavo fargli comprendere tutta la mia riconoscenza.
Con noi, c’era solo il mormorio delle foglie degli alberi smosse da un leggero vento, e in alto in un cielo di cobalto tutte le stelle dell’universo si erano illuminate per alleviare il nostro dolore, mentre una luna radiosa inondava tutto della sua luce d’argento.
Passavano le ore ed io non mi decidevo a lasciare Musetto. Ero distrutto dal dolore, e ogni minuto in più che riuscivo a passare con lui, sembrava mi dessero un poco di conforto.
Parlai a lungo. Mi parve che avesse capito che qualche cosa d’ineluttabile e di definitivo stesse accadendo. Era orami notte alta, quando mi decisi finalmente ad andarmene dopo un lungo interminabile abbraccio.
Un nitrito appena accennato accompagnò i miei passi mentre mi allontanavo in lacrime. Non riuscii a dormire quella notte e al mattino, quando vennero per ritirare il mio amato cavallino, non mi feci trovare.
Non volevo assistere alla sua partenza, non volevo decidermi a convincermi che null’altro avrei potuto fare.
Me ne ero andato prestissimo a Managua, con la scusa di dover fare acquisti, e me ne restai fuori per tutta la giornata.
Quando rientrai volli recarmi al recinto di Musetto: mi accolsero il cancello aperto, la mangiatoia vuota, nessun rumore di zoccoli, nessun nitrito di benvenuto, e con tutto ciò vi ritrovai solo la mia tristezza. Camminai lungo lo steccato; con la mano lo carezzavo come a voler sentire le tracce del mio cavallino; mettevo i piedi nelle orme lasciate dai suoi zoccoli, carezzai la mangiatoia e cercavo il suo odore che per me era diventato familiare.
Il mattino dopo feci smontare il recinto, la mangiatoia, la tettoia e l’abbeveratoio, perché non volevo che nulla potesse contribuire a mantenere vivace il ricordo di quello straordinario amico.
Ma niente poteva cancellare nel mio animo il profondo sentimento di amicizia e complicità che mi aveva legato a Musetto, e niente e mai poteva far si che io lo dimenticassi.
Qualcosa di molto importante mi era accaduto di vivere e ora, qualcosa si era rotto in me, tanto, da farmi desiderare la partenza da quel paese che pure avevo imparato ad amare.
Erano ormai trascorsi una ventina di giorni da quella sera, quando dovetti recarmi nella città di Leon, a ragione del mio lavoro.
Con il mio autista alla guida della Rover Land Cruiser della compagnia, stavamo percorrendo la “Carretera Nacional” (La strada Nazionale), quando mi cadde lo sguardo su una vasta pianura che costeggiava la strada dove notai un folto gruppo di cavalli al pascolo.
Nel ricordo di Musetto, feci fermare l’auto e mi recai alla staccionata per ammirare quei meravigliosi cavalli.
All’improvviso ebbi come un tuffo al cuore. Mi parve riconoscere fra quei cavalli il mio Musetto.
Non seppi resistere alla tentazione ed emisi il solito fischio con cui abitualmente lo chiamavo.
Un forte nitrito, e un sollevarsi del capo di scatto risposero al mio richiamo.
Allora lo chiamai alla voce, ed ecco che trotterellando venne fino a me alla staccionata che chiudeva il pascolo.
Saltai lo steccato e abbracciai Musetto con le mie braccia strette attorno al suo collo.
Sembrava che il mio cuore scoppiasse tanta era l’emozione che mi aveva sopraffatto, mentre lo colmavo di carezze, il cavallino nitriva e scalpitava con un’enfasi che non gli avevo mai visto fare prima. Quando mi decisi alfine ad andarmene, il cavallino mi accompagnò fino allo steccato e restò li, fermo, a guardarmi, mentre salivo in macchina per andarmene.
Chissà perché, ma ebbi come l’impressione che nei suoi occhi vi fosse uno sguardo come di rimprovero come non sapesse spiegarsi la ragione del mio abbandono. Mentre l’auto si allontanava, senza alcun ritegno, scoppiai in un pianto dirotto: sapevo che quella era l’ultima volta che veramente avrei visto Musetto.
Mi parve anche sentire nel profondo del mio animo che il cavallino, forse per la prima volta nella sua esistenza, avrebbe pensato che l’uomo è una creatura in cui può albergare l’ingratitudine.
Ho lasciato molti amici in Nicaragua; gente che mi ha voluto bene e ai quali non ho fatto mancare il mio affetto, ma nessuno mai, ha fatto insorgere in me i sentimenti che mi legavano al mio amico cavallo, per cui Musetto, resterà nel mio cuore indimenticabile e amatissimo.
Trascorsi gli ultimi giorno in Nicaragua, come fossi in una sorta di apatica abulia, perché niente più m’interessava, niente più mi attraeva. Ero solo spinto da un grande desiderio di partire per dare un taglio netto e definitivo a quella specie di torpore da quando mi ero separato da Musetto.
Neanche i festeggiamenti che gli amici del nostro gruppo avevano organizzato per darmi il saluto la sera avanti la mia partenza, riuscirono a risollevarmi un poco.
E partii il mattino dopo per recarmi all’aeroporto di Managua, e durante tutto il percorso cercai di riempirmi gli occhi e l’animo di quello che ormai era diventato il mio consueto panorama, il mio ambiente.
Posavo lo sguardo sulle piante, sulle case, sulla gente che incontravamo lungo il percorso, per potermi riempire la mente della visione del loro ricordo.
Mai, prima, mi era accaduto di dover lasciare definitivamente un paese, con altrettanto dolore nell’animo.
Espletate le pratiche doganali ed all’accettazione, il mio autista, al fianco del quale avevo trascorso quel lungo periodo, mi abbracciò con trasporto e con affetto, e con gli occhi colmi di lacrime si allontanò rapidamente.
Mentre ero in attesa di passare il metal detector e accedere alla sala d’imbarco, mi sentii chiamare: al voltarmi vidi poco distante il gruppetto formato dalla famiglia del mio cuoco.
Mentre mi avvicinavo a loro per salutarli, si staccò dal gruppo la più piccina della famiglia e di corsa mi saltò al collo. La piccola Juanita era stata un poco la mia cocchina in quel periodo e a lei, oltre che ai fratelli, non avevo fatto mancare il mio aiuto, con giuochi e vestitini, ogni volta che tornavo dall’Italia.
Con le braccine strette attorno al collo, piangendo calde lacrime, la piccola Juanita, m’implorava di non partire di non abbandonarla. Cercavo di consolarla, ma non mi riusciva di trovare neppure le parole giuste, perché anche a me era salito un nodo di commozione che mi impediva di pronunciare parole.
Poi, la bimba, mi porse una bambolina di pezza che aveva confezionata assieme alla sua mamma.
Fra le lacrime mi disse che erano troppo poveri per farmi un regalo che potesse dirmi tutto il loro affetto per me, ed allora aveva deciso che portassi in Italia con me, quella pupattolina fatta con le sue mani a ricordo di Juanita.
Quando l’altoparlante chiamò alla partenza, salutai tutti e, tutti, li abbracciai con molta commozione. Juanita, si rifugiò fra le braccia della sua mamma piangendo sconsolata.
L’ultima cosa che vidi in quel salone, fu il gruppo di quella famiglia che era venuta a testimoniarmi il suo affetto e che mi stava salutando agitando le mani senza poter trattenere il pianto. Salii e presi posto sull’aereo completamente frastornato e distrutto.
Seduto nella mia poltroncina vicino all’oblò, stringevo fra le mie mani quel buffo pupazzetto, come fosse l’unica ancora che mi tenesse ancora legato a quella gente, a quella terra.
Dopo aver rullato sulla pista, l’aereo s’involò, ed io puntai il mio sguardo sul panorama che si stava allontanando.
Nel prendere quota l’aereo sorvolò Managua, che potei vedere nella sua interezza con le sue case e palazzi immersi nel verde dei giardini, il Lago Xocotlan, ribattezzato dai Sandinisti, Lago della Libertà, e che mi era stato testimone e compagno di tante mie escursioni lungo le sue rive.
All’orizzonte, intanto, apparve il vulcano Momotombo, con il suo pennacchio di fumo proveniente dalle sue infuocate viscere.
Poco più lontano si vedevano i verdi pascoli e le intense foreste che con Musetto avevo attraversato molte volte, mentre in quelle verdi distesi di pascoli potei riconoscere una grossa mandria di bovini in transumanza e distinguevo i Vaqueros, che la guidavano in sella ai loro cavalli.
E fu allora che calde lacrime inondarono i miei occhi impedendomi di vedere altro, quindi mi rannicchiai nel mio sedile, e con gli occhi chiusi cercai di assaporare quella che sarebbe stata l’ultima visione di quella terra.
In quella terra, per la prima volta in vita mia, avevo percepito la bellissima sensazione di libertà, quando in sella a Musetto, provai la gioia della percezione dei grandi spazi aperti, che un compagno docile e fedele com’è un cavallo, può procurare all’uomo.
Avevo provato, prima volta nella mia vita, l’inebriante sensazione che procura il vento sulla faccia nelle galoppate sfrenate nelle praterie, la meravigliosa acquisizione di una certezza del sentirsi dentro e con la natura, in un connubio perfetto.
Ancora oggi risuona nelle mie orecchie come una musica melodiosa, il vento passare fra le fronde degli alberi della foresta, accompagnare il canto melodioso di tanti uccelli che l’abitavano.
Nei miei occhi conservo ancora la sublime bellezza dell’esplosione dei fiori variopinti, la visione dei campi di cotone, delle coltivazioni di caffè e di canna da zucchero.
E le visioni dei volti di quegli uomini, cui la fatica quotidiana a scavato solchi di tenerissime ragnatele di rughe abbellite dai loro cordiali sorrisi.
Nel cuore, incancellabile, la loro musica, le loro struggenti serenate, le loro ballate che erano state la bellissima colonna sonora di tanti bei momenti del mio lungo soggiorno.
E si affacciavano alla mia mente le sembianze di quanti avevo conosciuto, e i loro volti sembrava balzassero fuori da antiche sculture di pietra lavica recanti i segni della loro commista origine etnica.
E fui certo, in quel momento, che gran parte di me non era salita su quell’aereo, ma era rimasta caparbiamente fra quella gente che avevo imparato ad amare e che continuerò ad amare sempre.

*Renato Piccioni è Presidente dell’Accademia Culturale Sammarinese “Le Tre Castella” e Ambasciatore di Pace dell’Universal Peace Federation

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