Scritto nell'autunno 1997
Sviluppo, conflitto e violenza sono concetti collegati. Lo sviluppo è un processo di cambiamento, attraverso il quale la qualità della vita di un individuo o di un gruppo si eleva, migliora. Il conflitto, invece, quando espresso in modo violento, si tramuta in sofferenza umana e distruzione fisica, diminuendo ovviamente il tenore di vita.
I conflitti impoverendo molti Paesi vanificano le conquiste di decenni di sviluppo economico e commerciale: oltre alla distruzione di beni fisici e di capitale umano, il conflitto violento provoca, tra l'altro, arretramento, divisioni e fenomeni di rifugiati e di profughi interni.
La comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite o le organizzazioni internazionali regionali, tenta di dare risposte per fermare o per ridurre i conflitti con iniziative di peace-making e peace-keeping, oltre all'adozione di azioni volte alla riappacificazione e alla ricostruzione: quanto più forte è il coordinamento di queste risposte, maggiori sono le loro probabilità di successo.
Dalla seconda guerra mondiale in poi, è aumentato in maniera allarmante il numero dei conflitti nel mondo. Secondo lo Stockolm International Peace Research Institute (SIPRI) dal 1945 al 1997 è cresciuto dal 3% al 36%.
Come si sa, gran parte dei conflitti odierni si manifesta all'interno degli Stati piuttosto che tra Stati. In Africa, molte guerre sono caratterizzate da estrema violenza, genocidi (come in Ruanda e in misura meno estesa in Burundi), masse di profughi e rifugiati interni (come nella Repubblica del Congo o ex Zaire). Se si fa un paragone con la prima guerra mondiale, risulta che allora il 90% dei morti erano soldati, mentre il 90% delle vittime delle guerre attuali sono civili.
Inoltre, una caratteristica fondamentale delle società dilaniate riguarda gli spostamenti di popolazioni su vasta scala sia internamente (internally displaced people) che verso l'esterno (rifugiati o emigrati in modo permanente). Più aumentano profughi interni od esterni, maggiori saranno le conseguenze permanenti nei comportamenti sociali, economici ed istituzionali, come drenaggio di cervelli, fuga di capitali, sindrome della dipendenza da aiuti esterni, cambiamenti nei ruoli dei componenti la famiglia.
Un altro rilevante aspetto negativo dei conflitti moderni è costituito dalle mine (soprattutto antiuomo). Sono le uniche armi da guerra che continuano a ferire e ad uccidere dopo che le ostilità sono terminate. In Africa sono disseminate circa 20 milioni di mine, di cui la metà si trova in Angola (per eliminarle in questo Paese occorreranno 50 anni). Come si deduce facilmente, il terrore associato alle mine riduce o impedisce il movimento di merci, servizi e persone: esse quindi costituiscono un fattore fortemente ritardante per la reintegrazione e per la produzione economica.
Non sempre poi è facile comprendere e analizzare razionalmente i motivi, le cause del conflitto.
Si possono così sintetizzare le origini di una guerra:
— fattori economici: l'accesso ineguale allo sviluppo (occupazione, istruzione, potere decisionale, credito) può generare conflitto;
— fattori sociali: perdita di identità, alienazione e marginalizzazione possono condurre a violenza;
— fattori ambientali: disastri ecologici, crescita demografica e mutamenti nei sistemi di ripartizione delle risorse portano a dispute sulle acque, sul suolo e su altre preziose risorse naturali;
— fattori culturali: la manipolazione di differenze etniche, linguistiche e religiose da parte di leader è predominante negli ultimi anni;
— fattori militari: la proliferazione di eserciti e la disponibilità post-guerra di tecnologia militare sono catalizzatori di violenza.
La risposta internazionale al conflitto include quattro sfere di attività:
— politico-diplomatica: prevenzione e risoluzione del conflitto (negoziati di pace, disarmo eccetera);
— sicurezza/difesa: operazioni di pace attraverso l'ONU (Dipartimento delle operazioni di peace-keeping) e organizzazioni regionali quali la NATO;
— interventi di urgenza: fornitura di beni
e di servizi di base, da parte di agenzie quali UNHCR, UNICEF, ECHO e organizzazioni non governative;
— assistenza/aiuto alla ricostruzione e allo sviluppo: riorganizzare le infrastrutture fisiche ed economiche con l'appoggio dell'UE, di agenzie ONU, di organizzazioni non governative, di istituzioni finanziarie quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.
Le attività di aiuto sono state principalmente dedicate alla ricostruzione postbellica, e alcuni Paesi ritornano in guerra quando la ricostruzione non ha avuto ancora successo. Gli interventi da parte di istituzioni devono essere attentamente valutati e studiati per essere indirizzati alle aree di disuguaglianza e divisione che hanno portato alla rottura e poi per facilitare la creazione di condizioni che possano o risolvere i punti di contrasto o gestire il conflitto. Inoltre, la ricostruzione è un processo molto costoso: la transizione può durare diversi decenni.
Trattando più da vicino le fasi della transizione e della ricostruzione, occorre prima facilitare il passaggio dalla guerra a una pace sostenibile (funzione preventiva) e in secondo luogo preparare il terreno per il decollo economico e sociale (fase di sviluppo).
Per arrivare dal conflitto alla pace il pacchetto di interventi è variegato:
— stabilizzazione macroeconomica e ripristino delle istituzioni finanziarie;
— rafforzamento delle istituzioni di governo;
— ristabilimento delle principali infrastrutture (reti di trasporto, comunicazioni e servizi);
— ricostruzione delle principali infrastrutture sociali (istruzione e sanità);
— assistenza mirata ai soggetti colpiti dalla guerra: ad esempio, reintegrazione di popolazioni sfollate, sostegno a gruppi vulnerabili;
— programmi di sminamento;
— normalizzazione finanziaria (rinegoziazione del debito).
In conclusione, da questa breve analisi si evince che il conflitto è causato da più variabili, da più elementi (economici, ambientali, militari...): occorre da parte della comunità internazionale un'attenta e approfondita opera di fattibilità e d’intervento sulla situazione post-conflitto. Quindi, la delicata fase della transizione e della ricostruzione deve facilitare il passaggio dalla guerra alla pace sostenibile e favorire uno sviluppo economico con interventi congrui ed efficaci.
I conflitti impoverendo molti Paesi vanificano le conquiste di decenni di sviluppo economico e commerciale: oltre alla distruzione di beni fisici e di capitale umano, il conflitto violento provoca, tra l'altro, arretramento, divisioni e fenomeni di rifugiati e di profughi interni.
La comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite o le organizzazioni internazionali regionali, tenta di dare risposte per fermare o per ridurre i conflitti con iniziative di peace-making e peace-keeping, oltre all'adozione di azioni volte alla riappacificazione e alla ricostruzione: quanto più forte è il coordinamento di queste risposte, maggiori sono le loro probabilità di successo.
Dalla seconda guerra mondiale in poi, è aumentato in maniera allarmante il numero dei conflitti nel mondo. Secondo lo Stockolm International Peace Research Institute (SIPRI) dal 1945 al 1997 è cresciuto dal 3% al 36%.
Come si sa, gran parte dei conflitti odierni si manifesta all'interno degli Stati piuttosto che tra Stati. In Africa, molte guerre sono caratterizzate da estrema violenza, genocidi (come in Ruanda e in misura meno estesa in Burundi), masse di profughi e rifugiati interni (come nella Repubblica del Congo o ex Zaire). Se si fa un paragone con la prima guerra mondiale, risulta che allora il 90% dei morti erano soldati, mentre il 90% delle vittime delle guerre attuali sono civili.
Inoltre, una caratteristica fondamentale delle società dilaniate riguarda gli spostamenti di popolazioni su vasta scala sia internamente (internally displaced people) che verso l'esterno (rifugiati o emigrati in modo permanente). Più aumentano profughi interni od esterni, maggiori saranno le conseguenze permanenti nei comportamenti sociali, economici ed istituzionali, come drenaggio di cervelli, fuga di capitali, sindrome della dipendenza da aiuti esterni, cambiamenti nei ruoli dei componenti la famiglia.
Un altro rilevante aspetto negativo dei conflitti moderni è costituito dalle mine (soprattutto antiuomo). Sono le uniche armi da guerra che continuano a ferire e ad uccidere dopo che le ostilità sono terminate. In Africa sono disseminate circa 20 milioni di mine, di cui la metà si trova in Angola (per eliminarle in questo Paese occorreranno 50 anni). Come si deduce facilmente, il terrore associato alle mine riduce o impedisce il movimento di merci, servizi e persone: esse quindi costituiscono un fattore fortemente ritardante per la reintegrazione e per la produzione economica.
Non sempre poi è facile comprendere e analizzare razionalmente i motivi, le cause del conflitto.
Si possono così sintetizzare le origini di una guerra:
— fattori economici: l'accesso ineguale allo sviluppo (occupazione, istruzione, potere decisionale, credito) può generare conflitto;
— fattori sociali: perdita di identità, alienazione e marginalizzazione possono condurre a violenza;
— fattori ambientali: disastri ecologici, crescita demografica e mutamenti nei sistemi di ripartizione delle risorse portano a dispute sulle acque, sul suolo e su altre preziose risorse naturali;
— fattori culturali: la manipolazione di differenze etniche, linguistiche e religiose da parte di leader è predominante negli ultimi anni;
— fattori militari: la proliferazione di eserciti e la disponibilità post-guerra di tecnologia militare sono catalizzatori di violenza.
La risposta internazionale al conflitto include quattro sfere di attività:
— politico-diplomatica: prevenzione e risoluzione del conflitto (negoziati di pace, disarmo eccetera);
— sicurezza/difesa: operazioni di pace attraverso l'ONU (Dipartimento delle operazioni di peace-keeping) e organizzazioni regionali quali la NATO;
— interventi di urgenza: fornitura di beni
e di servizi di base, da parte di agenzie quali UNHCR, UNICEF, ECHO e organizzazioni non governative;
— assistenza/aiuto alla ricostruzione e allo sviluppo: riorganizzare le infrastrutture fisiche ed economiche con l'appoggio dell'UE, di agenzie ONU, di organizzazioni non governative, di istituzioni finanziarie quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.
Le attività di aiuto sono state principalmente dedicate alla ricostruzione postbellica, e alcuni Paesi ritornano in guerra quando la ricostruzione non ha avuto ancora successo. Gli interventi da parte di istituzioni devono essere attentamente valutati e studiati per essere indirizzati alle aree di disuguaglianza e divisione che hanno portato alla rottura e poi per facilitare la creazione di condizioni che possano o risolvere i punti di contrasto o gestire il conflitto. Inoltre, la ricostruzione è un processo molto costoso: la transizione può durare diversi decenni.
Trattando più da vicino le fasi della transizione e della ricostruzione, occorre prima facilitare il passaggio dalla guerra a una pace sostenibile (funzione preventiva) e in secondo luogo preparare il terreno per il decollo economico e sociale (fase di sviluppo).
Per arrivare dal conflitto alla pace il pacchetto di interventi è variegato:
— stabilizzazione macroeconomica e ripristino delle istituzioni finanziarie;
— rafforzamento delle istituzioni di governo;
— ristabilimento delle principali infrastrutture (reti di trasporto, comunicazioni e servizi);
— ricostruzione delle principali infrastrutture sociali (istruzione e sanità);
— assistenza mirata ai soggetti colpiti dalla guerra: ad esempio, reintegrazione di popolazioni sfollate, sostegno a gruppi vulnerabili;
— programmi di sminamento;
— normalizzazione finanziaria (rinegoziazione del debito).
In conclusione, da questa breve analisi si evince che il conflitto è causato da più variabili, da più elementi (economici, ambientali, militari...): occorre da parte della comunità internazionale un'attenta e approfondita opera di fattibilità e d’intervento sulla situazione post-conflitto. Quindi, la delicata fase della transizione e della ricostruzione deve facilitare il passaggio dalla guerra alla pace sostenibile e favorire uno sviluppo economico con interventi congrui ed efficaci.
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