Reportage di Carlotta Morgana
Le lacrime copiose sulle guance di quell'anziano con lo sguardo di bambino sono le stesse che gli inondavano il visetto di undicenne quando, nell'estate del 1943, finì Auschwitz. Sami Modiano, unico sopravvissuto della sua famiglia alla deportazione dall'amata isola di Rodi, da quel giorno terribile ha deciso che il suo dovere sarebbe stato quello di raccontare l'irraccontabile alle nuove generazioni. Guardo il suo bel volto devastato dall'angoscia mentre sullo schermo scorrono i titoli di coda del toccante documentario,
Delle Scienze più alte, in una parola nell'umanesimo più puro e sublime. E allora decido che finalmente è venuto anche per me il momento di vedere con i miei occhi i luoghi dell'annientamento, gli spazi in cui Primo Levi si chiedeva , i confini di un universo sospeso dove umanità, dignità e pietà sono finite nel vento con la cenere dei cadaveri bruciati a cottimo. Arrivo a Cracovia sul principio di un'estate fredda e piovosa. La città è splendida, con l'allure di un'antica capitale e il fascino della mitteleuropa che ancora permeano ogni pietra, ogni angolo del centro. I palazzoni del regime comunista sono relegati in periferia, oltre la Vistola. Papa Wojtila occhieggia sulle facciate dei palazzi e delle chiese dei quartieri cattolici, qui è un mito onnipresente. E a Kasimierz, l'antico quartiere ebraico al di qua del fiume, l'atmosfera è ancora quella di sei secoli fa, quando gli ebrei furono accolti con benevolenza da re Casimiro, la stessa che si respirò fino al nazismo. Le antiche botteghe portano ancora l'iscrizione di allora, con i nomi degli artigiani che contribuirono a rendere fiorente il commercio polacco.
La mia guida, un venticinquenne che si chiama Camillo ed è appena tornato dalla Germania dove si è laureato in Economia, mi dice che Steven Spielberg all'epoca di Schindler's List (1992) era rimasto così sedotto da Kasimierz da decidere di girare tutte qui le scene in esterno, visto che il ghetto costruito oltre la Vistola (dove gli ebrei erano stati deportati per ordine del comandante nazista Amon Goth) era stato completamente distrutto dai russi nella primavera del 1945.
Prima di partire per Oswiecim (Auschwitz in polacco), una settantina di chilometri da Cracovia, faccio un salto a Lipova 4, nel vecchio comparto industriale cittadino, dove Oskar Schindler aveva rilevato una vecchia fabbrica di pentole e oggetti smaltati, la Emalia, per farci lavorare un migliaio di ebrei. L'antico fabbricato è ancora lì, uguale ad allora, ma adesso è diventato una mostra permanente sulla storia polacca e sullo sterminio del popolo ebraico dall'autunno del 1939 alla primavera del 1945. In alcuni locali il tempo si è fermato, ci sono ancora i mobili e le suppellettili usati da Schindler, in una bacheca è conservata la famosa lista scritta con il fidato Itzak Stern con i milleduecento nomi dei ebrei. Tanti riuscì a salvarne e molti di quei volti guardano i visitatori nelle fotografie ingiallite dal tempo.
Va bene, sono pronta. Alla stazione centrale c'è un bus ogni tre ore che parte per Auschwitz, mi metto d'accordo con un gruppo di italiani per arrivare a mezzogiorno e avere così a disposizione una guida che conosce la nostra lingua. Settanta chilometri di campagna con poche case e tanti alberi, a tratti i boschi sono talmente fitti che il sole fa fatica a illuminare la strada. Arriviamo in un piazzale pieno di pullman che scaricano centinaia e centinaia di visitatori. Per fortuna pochi alzano la voce, c'è solo lo stormire delle foglie. Alcuni alberi, mi dicono, sono gli stessi di allora. Margarita, la nostra guida, è un'insegnante elementare innamorata dell'Italia:. Margarita fa la guida volontaria perché, proprio come Sami Modiano, crede nell'educazione informata come unico mezzo per seminare la pace nelle nuove generazioni. . Già, come ha potuto accadere – mi domando percorrendo i viali tra le baracche e il filo spinato – che uno sterminio studiato a tavolino si sia potuto perpetrare nell'indifferenza dell'intero mondo che sapeva di quegli uomini, di quelle donne, di quei bambini spogliati di tutto, ammazzati a bastonate, fucilati, asfissiati e poi bruciati al ritmo di diecimila al giorno. La contabilità di Auschwitz-Birkenau (letteralmente bosco di betulle) parla di un milione e mezzo di trucidati dal 1942 al 1945, <è il più grande cimitero del mondo senza tombe>, puntualizza Margarita. Si cammina ancora sulla cenere di quei morti, ogni tanto la terra pietosamente restituisce un dente, un frammento d'osso, un cucchiaino (utensile ambito, che faceva la differenza tra vivere e morire). Due ciminiere (le altre sono state distrutte dai nazisti in fuga) svettano ancora lì, mute testimoni del loro turpe utilizzo.
Guardo questo angolo di sconfinata pianura polacca disseminata di baracche fatiscenti, mi si stringe il cuore al piazzale dell'appello, alla vista delle rampe dove venivano fermati i vagoni piombati carichi di un'umanità dolente, dove tuttora grandi tabelloni mostrano istantanee di quelle scene orrende, con le mamme che si stringono al petto i più piccoli (pochi minuti e saranno tutti assassinati), con intere famiglie destinate a essere smembrate e annientate. Alla vista della montagna di occhiali, valigie, capelli, vestitini e scarpette da neonato accatastati nelle sale delle baracche centrali Margarita si commuove:. Si è alzato un vento fresco a spazzare i viali di Birkenau, le impressioni sono forti, era indispensabile guardare in faccia i luoghi dove l'uomo ha toccato i punti più bassi del suo esistere. Mi fermo davanti alla foto di un bimbetto biondo. Guarda fisso l'obiettivo mentre con la mano si attacca al cappotto del fratello più grande. E' appena sceso da un trasporto ed è serio, serissimo. In fondo alla sua anima bambina sa già cosa lo attende. Quello sguardo mi accompagna fino a Cracovia. Non mi ha più abbandonato. Gli occhi tristi di quel maschietto sono l'emblema di tutta l'infanzia oltraggiata. Sì, hanno ragione Sami Modiano e Margarita (e tutti quanti spendono o hanno speso la loro vita per questo scopo): l'unica strada per uscire dal gorgo dell'odio e sperare nei futuri uomini e donne di domani è mostrare loro ciò che è stato. Perché, come diceva Primo Levi, non accada mai più.
La mia guida, un venticinquenne che si chiama Camillo ed è appena tornato dalla Germania dove si è laureato in Economia, mi dice che Steven Spielberg all'epoca di Schindler's List (1992) era rimasto così sedotto da Kasimierz da decidere di girare tutte qui le scene in esterno, visto che il ghetto costruito oltre la Vistola (dove gli ebrei erano stati deportati per ordine del comandante nazista Amon Goth) era stato completamente distrutto dai russi nella primavera del 1945.
Prima di partire per Oswiecim (Auschwitz in polacco), una settantina di chilometri da Cracovia, faccio un salto a Lipova 4, nel vecchio comparto industriale cittadino, dove Oskar Schindler aveva rilevato una vecchia fabbrica di pentole e oggetti smaltati, la Emalia, per farci lavorare un migliaio di ebrei. L'antico fabbricato è ancora lì, uguale ad allora, ma adesso è diventato una mostra permanente sulla storia polacca e sullo sterminio del popolo ebraico dall'autunno del 1939 alla primavera del 1945. In alcuni locali il tempo si è fermato, ci sono ancora i mobili e le suppellettili usati da Schindler, in una bacheca è conservata la famosa lista scritta con il fidato Itzak Stern con i milleduecento nomi dei
Va bene, sono pronta. Alla stazione centrale c'è un bus ogni tre ore che parte per Auschwitz, mi metto d'accordo con un gruppo di italiani per arrivare a mezzogiorno e avere così a disposizione una guida che conosce la nostra lingua. Settanta chilometri di campagna con poche case e tanti alberi, a tratti i boschi sono talmente fitti che il sole fa fatica a illuminare la strada. Arriviamo in un piazzale pieno di pullman che scaricano centinaia e centinaia di visitatori. Per fortuna pochi alzano la voce, c'è solo lo stormire delle foglie. Alcuni alberi, mi dicono, sono gli stessi di allora. Margarita, la nostra guida, è un'insegnante elementare innamorata dell'Italia:
Guardo questo angolo di sconfinata pianura polacca disseminata di baracche fatiscenti, mi si stringe il cuore al piazzale dell'appello, alla vista delle rampe dove venivano fermati i vagoni piombati carichi di un'umanità dolente, dove tuttora grandi tabelloni mostrano istantanee di quelle scene orrende, con le mamme che si stringono al petto i più piccoli (pochi minuti e saranno tutti assassinati), con intere famiglie destinate a essere smembrate e annientate. Alla vista della montagna di occhiali, valigie, capelli, vestitini e scarpette da neonato accatastati nelle sale delle baracche centrali Margarita si commuove:
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