4 settembre 2012

Birmania, la guerra di religione dei monaci

Centinaia di buddisti in piazza a Mandalay: il presidente cacci i musulmani Rohingya. E la società birmana si compatta contro "gli invasori bengalesi", sulla linea del governo

In Birmania i monaci buddisti sono tornati a protestare, con un lungo corteo color zafferano come quello della “rivoluzione” del 2007 repressa nel sangue. Ma se cinque anni fa marciavano contro la giunta militare, ora sostengono la politica del presidente, un ex generale di quella dittatura. Il nemico comune sono gli 800 mila musulmani di etnia Rohingya nell’ovest: una minoranza di “diversi” contro la quale si sta compattando la “nuova Birmania”, in un riallineamento tra governo e opposizione impensabile fino a un paio di anni fa.

A Mandalay, la seconda città del Paese, ieri e domenica centinaia di monaci sono stati lasciati sfilare dalle forze di sicurezza, con una coda ancora più numerosa di gente comune. Uno striscione portava la scritta “Salvate la madrepatria sostenendo il presidente” Thein Sein, lodato per aver ventilato la sua soluzione ideale del problema Rohingya: un’espulsione di massa verso qualsiasi Paese disposto ad accoglierli. Un’ipotesi che l’Onu - criticata nel corteo - ha subito respinto, ma che rispecchia il pensiero dominante in Birmania.
Non assimilati, privati del diritto di cittadinanza e oggetto di varie discriminazioni, i Rohingya - di origine mista arabo-bengalese - sono guardati con ostilità da decenni nello stato del Rakhine, dove si sono insediati nei secoli. Le violenze settarie e le vendette reciproche dello scorso giugno - con almeno 90 morti, ma si teme oltre il triplo - hanno fatto divampare il disprezzo nei loro confronti. I giornali birmani hanno riportato solo i crimini commessi dai Rohingya, con macabre foto di cadaveri di monaci e di case buddiste date alle fiamme. Nella spirale d’odio dei forum online, “immigrati bengalesi illegali” è un’espressione standard; epiteti come “terroristi” e “animali” sono diffusissimi.

La severa legge sulla cittadinanza del 1982 - che esclude i Rohingya dal mosaico di 135 gruppi etnici nazionali - gode di un sostegno trasversale. Sull’argomento, persino Aung San Suu Kyi ha rilasciato dichiarazioni talmente ambigue da far pensare che sia favorevole allo status quo. Il decano dell'opposizione Win Tin, imprigionato per 19 anni dall’ex giunta militare, ha proposto campi di internamento come quelli per i giapponesi negli Usa durante la Seconda guerra mondiale. Le voci che invitano a una maggiore tolleranza verso i Rohingya sono rarissime: dal coro si sono staccati il celebre comico Zarganar e Ashin Gambira, che nel 2007 fu uno dei giovani monaci alla guida delle proteste. Liberato quest’anno dal carcere e gravemente malato, ha però da poco smesso la tonaca.

Per il governo di Thein Sein, un ex generale rilanciatosi nella parte di “Gorbaciov birmano” che protegge la sicurezza nazionale dagli invasori musulmani, è una manna di popolarità. Non a caso, molti analisti stranieri sospettano che abbia pilotato l’emergenza nel Rakhine. Un territorio tra i più poveri del Paese, al confine con il Bangladesh, dove ancora oggi è proibito l’accesso a giornalisti e turisti; i pochi che sono riusciti a entrare segnalano un’effettiva pulizia etnica dalla capitale Sittwe, con decine di migliaia di Rohingya costretti in squallidi campi profughi.

Le organizzazioni umanitarie straniere hanno denunciato la complicità delle forze di sicurezza negli abusi. Ma se una volta molti birmani speravano in un intervento occidentale contro la dittatura militare, ora il quadro si è capovolto. Le riforme del governo nell’ultimo anno hanno diffuso la convinzione che il Paese sia finalmente sulla strada giusta: le critiche dall’estero, specie se riguardano il trattamento dei Rohingya, sono accolte con astio. Molti attivisti che per anni hanno sposato la causa birmana sono sempre più amareggiati. L’aura da santa moderna di Suu Kyi si era già incrinata; come idealizzata forza del bene, rimanevano i monaci. Nella nuova Birmania, ora è saltata anche quella certezza.


La Stampa - 4 settembre 2012

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