3 aprile 2014

Autorità e autorevolezza femminile

di Pasqua Teora
“Nel sogno della donna di età matura, la madre muore e lei prova un dolore atroce, come se le sfilassero dal corpo un proiettile o un'acuminata spina profonda. E continua la donna: il dolore è tremendo, eppure lo posso sentire, posso rendermene conto e sento la contentezza di potervi sopravvivere. Come un intervento senza anestesia, come un'operazione difficilissima andata a buon fine. Ma quanto dolore!”
Questo il sogno riportato da una donna mentre si predisponeva a parlare della sua maggiore sicurezza, del senso di autorità o meglio dire di autorevolezza che aveva cominciato a muoversi nelle vene e farle vedere il mondo sotto un'altra luce.  Autorevolezza femminile e lei, in modo naturale, vi sovrappose la difficile relazione con la propria madre. Forse, anche il suo sogno stava ad indicare che quella relazione era finalmente andata a buon fine: la possibilità per la figlia vicina ai 40 anni finalmente di stare in un sentimento di autorevolezza e legittimazione ad esprimere la propria autorità di fronte alla madre e al mondo.
La donna aggiunse che le sensazioni provate nel sogno avevano a che fare con un certo modo di sentirsi che a volte diviene visibile anche a chi la guarda.
Punto di arrivo e non certo d’inizio lungo un excursus di esperienze complesse e difficili, comunque, mai vissute invano. Le stesse che avevano prodotto attraverso l'obbedienza e la disobbedienza alla madre e al mondo, le svolte necessarie al nuovo pensare e alla maggiore consapevolezza di sé.

Questo, a suo avviso era il movimento intimo che più recentemente l'aveva sorretta nel capire che, per esempio, l'aiuto che offriva ai bambini stranieri con i quali tuttora svolge delle attività di sostegno nel doposcuola, non avrebbero dovuto accarezzare il vittimismo e la passività, ma piuttosto stimolare sia i piccoli che i più grandicelli al coraggio, all'intraprendenza del fare, alla capacità di relazionarsi col nuovo mondo senza tradire quello delle origini, e rischiare l'inconsueto per realizzare sogni e desideri.
Così avrebbe voluto anche per se stessa bambina. Ma la sua storia era stata un'altra storia.

Una giovane 25enne in procinto di lasciare l'Italia per andare in un paese latino a fare esperienza da volontaria per la difesa legale di donne gravemente maltrattate da uomini loro congiunti, mi dice che per una donna il sentimento di autorevolezza, parla del valore di quella donna e si esprime attraverso il saper perseguire i propri obiettivi auto-motivandosi o cercando intorno a sé le relazioni giuste per continuare sulla propria strada. “Penso a ragazze ispirate che fanno pittura, canto, teatro e non sentono la fatica, come non avessero i bisogni degli altri comuni mortali: mangiare, dormire, spendere, guadagnare. La donna autorevole sa stare in comunicazione, passando bellezza e stando in presenza affettiva, ha una marcia in più e io so benissimo di essere lontana anni luce da una tale condizione esistenziale. Ma sono giovane e non dispero. Per ora ho molti conflitti con me stessa, contraddizioni a iosa che disattivano o impediscono quello stato che invece prelude al sentimento di autorità su se stesse/i che si percepisce anche da fuori. Per ora ho capito che se sai stare nell'autenticità, disattivi il sabotatore interno che fa di tutto per allungarti la strada all'infinito; cerchio dentro un altro cerchio senza poter andare oltre per potersi innalzare e giungere a chi sei tu veramente.”

Come già traspare da questi contributi, generalmente è difficile distinguere il confine tra autorità, e autorevolezza. Da anni mi confronto anche con altre (insieme ci occupiamo di gruppi di donne in cammini di crescita) e, in sintesi, ciò che è emerso a proposito di autorità: auctor è dare origine, mettere al mondo autenticamente che potrebbe coincidere con l'atto umano del riconoscersi attraverso il proprio sguardo che può essere intercettato dallo sguardo di altri. Movimento che quando si verifica porterebbe a riconnettersi autenticamente con se stessi.

Abbiamo discusso insieme sul fatto che probabilmente senza autenticità, non può esserci possibilità di autorità e, anche se nell'etimo non lo troviamo, nel pensiero comune come anche le interviste successive testimoniano, la parola autorità porta con sé l'idea dell'autodeterminarsi. Stato possibile in un continuo divenire, accogliendo la propria condizione di fragilità e d’intermittenza. Un percorso non facile per chiunque ma specialmente per noi donne, spesso in conflitto con le identità fasulle che i sistemi di appartenenza ci attribuiscono e a cui inconsapevolmente cerchiamo o abbiamo cercato nelle varie età della vita di adattarci. Grande impegno nel tentativo di esistere in coerenza o in opposizione agli insegnamenti passati dalle madri per la maggior parte ancora vincolate alle leggi del Patriarcale. Cerchio ambivalente quello materno che, se non ne abbiamo consapevolezza, l'esperienza di autorità femminile rischia troppo spesso di confondersi con il ruolo materno e familistico che spinge per l'intera accettazione di tutti gli altri vincoli, se non con l'intero impianto ideologico che, nei vari momenti e molteplici contesti, si presenta sotto continue rinnovate sembianze.

Una donna sui 50 che ha preso distanza dal marito pur volendogli bene e con cui tuttora convive: “É lui stesso vittima dei sui pregiudizi sulle cose e specialmente sulle donne. Le faccio un esempio molto chiaro: secondo lui le donne, per natura, non sono interessate ad essere protagoniste e ad esprimere la forza che non hanno... Ma così diventa lui stesso vittima dei suoi pregiudizi ponendosi ovunque in posizione di assurdo e coatto dominio di protagonismo obbligato. Per me, la sua è ormai un’insopportabile presenza, benché complessivamente lui sia un brav'uomo. Mio marito non può vedere la realtà per quello che è, così si obbliga a stare, isolandosi, nella sua assurda finzione.”

Di se stessa dice che l'ha aiutata molto stare in terza posizione, quella che le ha permesso di vedersi da fuori e così non si spaventa e non soccombe di fronte agli attacchi sistematici di lui. “Per ora abbiamo un dialogo che può anche essere sfinente ma non mi passivizzo più. In questo modo non perdo la mia posizione in cui mi sento finalmente autentica, e non mi consegno più all'uomo che è mio marito per quel finto quieto vivere che mi aveva portata al limite della pazzia. Non solo simbolicamente, mi sento di dire che la porta tra le nostre due stanze è ancora aperta, ma mi rendo conto che lui non si sente molto contento: continua a sabotare e intanto io mi evolvo... e tu, uomo, ancora tenti di inferiorizzarmi. Per quanto tempo ancora potrò perdonarti?”

Una donna sui 45 con un ruolo lavorativo tipicamente maschile, appartenendo essa ad un corpo di polizia, dunque professionalmente in un ruolo di potere, dice: “Se penso all'autorità, la penso solo come autorevolezza, mi viene il piacere di essere credibile e di vedere nello sguardo degli altri che te la riconoscono. Con gli uomini credo di non avere ancora appreso questa posizione, specialmente con mio marito. Con lui è come se parlassimo due lingue diverse, non ci intendiamo per niente, proprio due mondi separati. L'autorità, nel senso di poter essere ed agire, rimanendo fedele a me stessa, la perdo nel desiderio puerile di essere accettata da lui o allo stesso modo da qualcun altro che non mi vuole o mi vorrebbe in un modo che a me non va bene di essere. Eppure mi adatto, mi sono sempre adattata, in cerca di accettazione e di affetto. Ho capito che mitizzo l'uomo che ho di fronte, forse gli do parti preziose di me, me ne esproprio e mi impoverisco, come se in quelle circostanze non fossi capace di auto-accreditarmi valore ed esprimere autenticamente me stessa: autorità? Purtroppo, dentro o fuori dal mio ruolo professionale, se mi sento attratta da un uomo non mi riconosco più né libertà, né  autorevolezza: come ancella mi metto al servizio di un essere che io con il mio agire rendo a me superiore e generalmente autorizzato a maltrattarmi. Nei legami affettivi, la postura aperta a responsabilità e autorevolezza riesco ad averla solo con mia figlia e, finché è rimasto in vita, l'ho avuta con mio padre che mi adorava. Con mia madre zero assoluto: fredda e distante, mi ha scaricato addosso tutte le responsabilità della famiglia mentre ero ancora una bambina, quella che nel mio intimo sono rimasta, timida e insicura. Con mio marito? Per lui io sono una strampalata, un'extraterrestre che nessuno è in grado di capire. Il nostro legame è fatto di tiepida indifferenza. Verso me stessa, il salto in avanti richiederebbe più cura, più tempo nell'assorbire il piacere; tale capacità dovrebbe diventare un'attitudine indipendente rispetto ad avere o non avere accanto un uomo. Una specie di stato di grazie che permetta di andare e poi tornare a me stessa carica di sensualità e piacere diffuso, un'energia potente e indefinibile da investire in qualcosa di utile non solo a me stessa. Attualmente faccio troppo per gli altri e per me rimane troppo poco. Ma ci sto lavorando”.

Per le donne che vengono in terapia è lavoro di base svelare a se stesse la madre interna portatrice sia di luce che di ombre e ambiguità. Smascherarla e vederne il matrigno, nonché l'atteggiamento di sottomissione richiesto alle figlie nei confronti del  sistema culturale di appartenenza che ha il senso di intercettare il sistema di leggi, ordini, ingiunzioni e convinzioni trasmesse di generazione in generazione fino al nostro presente, impedendo qualsiasi cambiamento.
Infatti un gran numero delle donne che arrivano in terapia, sono donne che hanno ricavato dal rapporto con la madre un vissuto di lontananza affettiva e maltrattamenti di varia gravità che spingono le figlie più alla sottomissione e all'obbedienza che alla ricerca della propria soggettività. Dunque disagio per queste donne nella relazione con la madre che hanno avuto poi conseguenze a livello psichico, corporeo e di organizzazione del pensiero; contesti familiari in cui il ruolo materno esprime forme di dominio piuttosto che di autorevolezza femminile.

Accade che la figlia femmina avendo come primario oggetto d'amore la madre che è del suo stesso sesso, sovente vive con ansia la necessità di compiacerla e sottomettersi al suo volere pur di sentirsi guardata, amata, accettata e potersi via via crescendo identificare in essa. Queste bambine in presenza di madri a loro volta ferite, vivono un'inversione di ruoli nel tentativo di porre rimedio alla sofferenza subita dalla loro madre. Per questo, nel dialogo tra una madre e una figlia, ci sono sempre tre generazioni: la figlia, la madre, la madre della madre. Forse è proprio questa, la prima scuola di sottomissione per le donne, il luogo simbolico e carnale dove molte imparano a dare più importanza ai desideri e ai bisogni altrui, allontanandosi dalla possibilità di essere se stesse e spingersi così verso l'autenticità che prelude all'autorevolezza.

Oggi, se noi donne volessimo esprimere autorità (nel senso già sopra indicato) evitando le posture di dominio che sostanziano certe forme di potere, da quali tranelli dobbiamo guardarci, ricordando che l'espressione di autorità equivale a gratuità, autenticità, libertà per noi stesse e per l'altro? Questo il quesito su cui con altre ci stiamo interrogando: lo scenario in cui oggi ci muoviamo è sicuramente ben più ampio di possibilità e assai diverso da quello che ebbero nel passato le nostre madri e i nostri padri, ma non meno difficile, specialmente per le generazioni più giovani che dopo l'illusione e la manipolazione mossa attraverso la figura della parità con gli uomini, molte donne si sono trovate a lottare e soffrire, non solo nel corpo, nel tentativo di salvarsi dall'imbroglio della parità tra i sessi. Passaggio presto svelatosi a discapito di tutti: donne e uomini, ma a vantaggio invece di una omologazione al sistema dominante, prescrittivo di consumo crescente a qualunque costo, nel disprezzo per l'ambiente e i suoi limiti.

Insieme vogliamo partecipare al concepimento, all'allevamento e alla cura di questo mondo migliore di quello in cui ci stiamo trovando a passare. Il desiderio di cui intuiamo a tratti contorni e sfumature, per ora è solo in gestazione nella nostra capacità d’immaginazione che ci guida comunque nell'essere presenti e vigili nell'azione.


Pasqua Teora, psicologa e psicoterapeuta. Nata a Venosa in Basilicata, dalla prima infanzia trasferita a Milano; dal 1973 vive e lavora a Bergamo dove è fondatrice del Centro Psicologia e Cambiamento  www.psicologiaecambiamento.net in cui opera in setting individuale, di coppia e di gruppo; fondatrice e ideatrice di Spazio Colibrì e Terre Sorelle, Atelier di arti varie e arti-terapie (connessione).

ANCHE ULISSE

Anche Ulisse del post patriarcale è uomo solo,
ora è uomo infreddolito: bolso o scheletrito,
è uomo smarrito.

In questo tempo di relazioni scivolose e evanescenti
l'uomo lancia invocazioni al cielo e cieco
se ne va in cerca di Anima resuscitante.

Cerca passioni superiori
e non sa a quali porte bussare.

Animale ruminante, il bolo scende e poi risale:
eppure sopravvive Ulisse
mentre a fatica respira sul crinale.

L'uomo del post patriarcale guarda
e non mente, guarda e si mente:
ancora ci sono tracce profonde del mondo andato.

Apriti Sesamo, lo dico con la mano sul cuore
vieni pensiero, alto e superiore
vieni, angelo dell'annunciazione
connettici con il sogno e con l'altrove.

LA DONNA CHE PENSA

La donna che pensa
non se ne sta ferma
aggrappata coi piedi prensili
a una roccia sicura; non se ne sta
con umida bocca d'infanta
a rosicchiarsi la mano
che docile sorregge
un capo troppo pesante.

La donna che pensa
ride, a volte piange e certi giorni
si percuote il petto
e pensa alle figlie, ai figli, al mondo sognato
che a tutti pare sfuggito di mano.

Pensa la donna e intanto cucina,
intanto rammenda, scolpisce e colora
canta, scrive spartiti e poesie.

La donna che pensa e che sente
instancabile, partorisce a milioni
minute strategie di adattamento al reale
alla vita concreta e a quella inventata.

Pensiero nostro che nasce
dalla mente d'un corpo
che come accadde a Maria
sa mettere al mondo il Divino
senza passare né da Abele, né da Caino.

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